di Rosario Lentini
Provate a immaginare lo stupore nel volto di un viticoltore marsalese di fine ‘700 al cui cospetto si presentò per la prima volta un mercante ‘nglisi (informazione sufficiente per gli abitanti del luogo), venuto da Liverpool (informazione necessaria per le autorità), di nome John Woodhouse (signor Giovanni Casa- dilegno, avrebbero scritto i notai negli atti che lo riguarderanno), presumibilmente accompagnato da un interprete, per acquistare un certo numero di botti di mosto o di vino da imbarcare e spedire “fuori Regno” di Sicilia. Dovette essere una piacevole sorpresa, per il nostro fortunato vignaiolo, visto il pronto pagamento della somma richiesta cui, poi, si sarebbe aggiunto anche lo smarrimento nell’apprendere che, col suo mosto, lo straniero confezionava una bevanda alcolica che avrebbe smerciato come “simile al vino di Madeira” o a quello “di Xeres”, località di cui egli ignorava persino l’esistenza e le dislocazioni geografiche. E poi – avrà pensato – perché costui compra il mio vino e lo rivende con un nome che non c’entra nulla con la mia terra? Che imbroglio sarà mai? Come spesso accade, però, quando il denaro comincia a scorrere a fiumi, i dubbi e le domande iniziali perdono quota e ben venga lo straniero se paga presto e in moneta sonante. E di stranieri, infatti, ne vennero diversi e tutti molto abili e intraprendenti: Joseph Payne, James Hopps, Benjamin Ingham e i nipoti Whitaker, John Lee Brown, Henry Fisher, John Barlow, Matthew Clarkson, George Wood, Thomas Corlett, Joseph Gill, Richard Stephens, ecc.[1]
A Marsala e a Mazara, specialmente tra il 1806 e il 1815, durante la presenza militare britannica nell’Isola, l’economia agraria risentì positivamente della crescente domanda di vino che indusse a intensificare la coltivazione della vite, peraltro molto diffusa nel territorio. Nei primi decenni dell’800 i bagli dei mercanti-imprenditori britannici divennero delle autentiche fattorie enologiche sapientemente organizzate, all’interno delle quali cominciò a svolgersi la segreta arte della “concia” del vino acquistato nelle diverse contrade della provincia, per ottenere un prodotto che i marsalesi sostanzialmente sconoscevano. Certo, da alcuni vitigni locali come il Catarratto si ottenevano già vini a buona gradazione alcolica e per tradizione anche i piccoli proprietari erano soliti conservare, per uso proprio, piccole botti per l’invecchiamento del “perpetuo”, da tramandare di padre in figlio insieme alla vigna di casa. La materia prima, quindi, si prestava ad essere conciata, ma il risultato finale era diverso da ciò che si conosceva e le richieste aumentavano di mese in mese, per quantitativi crescenti da destinare – oltre che da spedire verso la Gran Bretagna – alle truppe e alla flotta britannica sempre più presenti nel sud Europa. Nel grande lago Mediterraneo, infatti, si stava giocando una partita decisiva per gli Inglesi, che non potevano permettersi di perdere il controllo di Malta e della Sicilia mentre i Francesi entravano a Napoli e costringevano re Ferdinando a rifugiarsi a Palermo, scortato dalle navi di Nelson (una prima volta il 21 dicembre 1798, per rimanere nell’Isola fino a gennaio del 1801 e una seconda volta nel 1806, per un intero decennio).
Le conseguenze economiche sono facilmente intuibili; occorreva assicurare rifornimenti e servizi a ritmo costante e i numerosi mercanti presenti a Messina a Palermo, a Marsala e a Mazara erano in grado di farlo.[2] Ovviamente le botti di vino occupavano un posto rilevante negli approvvigionamenti anche perché gli Inglesi difficilmente rinunciavano alle loro buone abitudini. Sin dalla metà del ‘600 avevano imparato ad apprezzare i vini portoghesi e spagnoli, importandoli dall’isola di Madeira, da Porto e dall’Andalusia (Jerez de la Frontera o Xeres, da cui sherry) in sostituzione di quello acquistato nel sud della Francia, nazione con la quale spesso e volentieri confliggevano. I vini di queste tre città avevano una caratteristica comune, pur se ottenuti da vitigni e da territori diversi, e cioè venivano “fabbricati” miscelandoli con elevate percentuali di alcol ricavato dalla distillazione vinaria (ma anche dalla canna da zucchero o da altri prodotti).[3] Occorreva, quindi, fare di necessità virtù, trovare un’alternativa tutta mediterranea, essendo impensabile far venire dal Portogallo e dalla Spagna i vini già conosciuti; peraltro, i mercanti britannici che operavano a Porto, verso la fine del ‘700, avevano cominciato a protestare contro la “Real Companhia”, che deteneva il monopolio della distillazione, per il progressivo peggioramento della qualità dell’alcol fornito. Così Woodhouse e gli altri suoi connazionali, non potendo reperire a Marsala o a Mazara tutto il brandy necessario per conciare il vino, avviarono la distillazione in proprio all’interno dei bagli, disponendo sia della competenza, sia di un prodotto base eccellente. Se negli anni Ottanta del ‘700 Woodhouse si limitava ad aggiungere un paio di galloni (9 litri) di brandy in ciascuna botte della capacità di 422 litri (pari al 2% circa) – per stabilizzare il contenuto prima del lungo viaggio verso l’Inghilterra – a fine secolo, invece, quando inizierà a rifornire Nelson, le percentuali di brandy cresceranno sensibilmente e le botti saranno identificate come Sicily-madeira o Bronte-madeira, in onore dell’ammiraglio al quale re Ferdinando aveva donato la ducea di Bronte, alle falde dell’Etna.
Sembrerà incredibile, ma il vino marsala a noi familiare, per decenni non ha avuto un’identità tutta sua; ha vissuto più che di luce propria, di quella riflessa dei più noti e blasonati portoghesi e spagnoli. Basti pensare che persino nell’atto depositato presso il Tribunale di commercio di Palermo, in data 20 ottobre 1834, don Vincenzo Florio dichiarava di voler creare in Marsala uno stabilimento per la “manifattura di vini all’uso di Madera”. E la ragione era semplice: marketing, solo e soltanto marketing ante litteram. La maggior parte della produzione degli stabilimenti marsalesi veniva imbarcata per destinazioni estere, anche oltreoceano; occorreva fornire ai grossisti e agli agenti commerciali una nota di distinzione immediata ed efficace, un termine di paragone per la riconoscibilità del prodotto siciliano e per la sua più agevole vendita in quei mercati; i marchi portoghesi e spagnoli erano in grado di assicurare tutto ciò. La storia di questo nostro vino, tuttavia, non appartiene solo ai trattati di enologia perché, nei fatti, si è sviluppata dall’incontro di tradizioni e conoscenze agronomiche e vitivinicole di quattro diverse nazioni; rappresenta un caso emblematico di integrazione culturale dagli esiti straordinariamente positivi. Qui il “mediatore” britannico ha avuto il fiuto mercantile e imprenditoriale di portare a sintesi attività e procedure di fabbricazione differenziate, di rielaborarle e sperimentarle in territorio trapanese, utilizzando il meglio di ciò che era reperibile in loco. Ha avviato un processo di selezione e di reinvenzione del prodotto che ha coinvolto nel tempo anche i produttori della zona, investendo tutte le fasi del ciclo di “fabbricazione”, dalla cura delle vigne alla preparazione in cantina del sifone e del mosto cotto. I marsalesi e i mazaresi hanno messo a disposizione i vigneti, il lavoro e la loro disponibilità a riconoscere negli imprenditori inglesi capacità e competenze che, in una prima fase, si erano imposte in quanto supportate da una rete politico-militare-commerciale da grande potenza coloniale, ma dopo il 1815 – cessato il conflitto antinapoleonico e riconsegnata la Sicilia a re Ferdinando I del Regno delle Due Sicilie – si affermavano perché quell’avventura era diventata impresa e creava ricchezza. Ci sarebbero voluti ancora alcuni decenni, ma con l’unificazione del Paese anche il marsala sarebbe diventato più nazionale e meno ispano-portoghese a partire da quel Garibaldi dolce che aspirava palesemente a mettere in ombra il madera siciliano dedicato a Nelson.
Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Note
[1] M. D’Angelo, Mercanti inglesi in Sicilia 1806-1815, Giuffrè, Milano 1988; R. Lentini, La presenza degli Inglesi nell’economia siciliana, in R. Trevelyan, La storia dei Whitaker, Sellerio, Palermo 1988, pp. 115-146.
[2] R. Lentini, Per fiume e per mare. Il vino di Mazara da Joseph Payne a Luigi Vaccara, in Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, a cura di Antonino Cusumano e Rosario Lentini, Sigma, Palermo 2004, pp. 57-74.
[3] A. Vieira, A Vinha e o Vinho na Historia da Madeira. Séculos XV a XX, CEHA, Funchal 2003; J. Maldonado Rosso, La formaciòn del Capitalismo en el Marco del Jerez, Madrid 1998; A. M. Barros Cardoso, Baco & Hermes. Porto e o comércio interno e externo dos vinhos do Douro (1700-1756), GEHVID, Porto 2003, voll. 2.
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha pubblicato numerosi saggi anche su riviste straniere; ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero; ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni.
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