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Dalle violenze del razzismo alla lotta ai simboli della supremazia: uno sguardo sulla cronaca

copertina

La statua di Cristoforo Colombo abbattuta in Minnesota (Evan Frost/Minnesota Public Radio via AP)

di Valeria Dell’Orzo

La capacità di riconoscere nel riflesso degli occhi dell’altro l’ombra della nostra stessa figura è la più forte leva per un vigoroso sviluppo della conoscenza, di quel processi di evoluzione culturale che si allarga, si estende, si dirama, senza mai staccarsi dalle proprie radici, tessendo attraverso gli scambi e i contatti una rete fitta e viva di rami annodati tra loro, di germogli che più vivi si svelano nel trovarsi vicini. Abita, però, nell’intimo delle paure dell’uomo, nella superbia cieca e ottusa, il terrore di trovare se stessi nell’altro, di scoprire chi siamo attraverso l’incontro e questa paura non si palesa solo nell’ottusa repulsione verso culture differenti dalla propria, ma anche verso coloro che, appartenenti allo stesso sistema socio e geo-culturale, differiscono per etnia.

Sorvoliamo sulla realtà genetica che ben poco distanzia popoli che per secoli si sono mescolati tra loro, ma soffermiamoci su quel carico di supponenze e xenofobie che portano ancora oggi molti esseri umani a ritenerne altri semplicemente meno umani, meno reali, meno meritevoli di vita, dignità e diritti. Dietro una simile visione, dietro il bisogno di distinguersi da qualcuno per affermare il proprio ruolo in società, dietro la brutalità persino perpetrata con l’evidenza della presunta legittimità da una certa parte delle Forze Armate, si esterna non solo la posizione del singolo, come è facilmente desumibile, ma tutta una complessa struttura di rappresentazioni, una vasta subcultura che serpeggia spesso vistosamente nelle tensioni quotidiane della convivenza in un regime di globalizzazione.

L’affezione attiva di cui ci ha parlato Deleuze (2016) rappresenta quell’umana abilità di essere adeguati alla nostra stessa capacità creativa, generativa e produttiva, ma per giungere all’incontro, al mobile fluire del potenziale che ogni contatto genera, occorre intersecare questa affezione attiva con una passiva, generata non dal proprio interno ma da una miccia esterna. Sovrapponendo questi due piani si può giungere a fare del gioco dell’incontro la struttura portante della personalità del singolo come della società, l’esito di un feedback che modifica osservatore e osservato nella intense dinamiche delle interazioni. Occorre però, affinché sia possibile volgersi verso uno sviluppo comunitario di ampio respiro, che questo processo avvenga spogliandosi delle sovrastrutture dell’abuso e della prevaricazione, della paura e dell’inadeguatezza; occorre superare le ritrosie castranti che chiudono l’umanità in sacche asfittiche di esclusioni, scongiurando il perpetrarsi di violenze e rivalse, e rendendo superfluo l’abbattimento dei baluardi di un potere che oggi più che mai si mostra in tutta la sua vacuità.

Seguendo le Metafisiche cannibali di E. Viveiros De Castro (2017) possiamo accostare la società umana alla realtà profonda del rizoma:

«un rizoma non si comporta come un’entità […] è un sistema reticolare a-centrato formato da relazioni intensive […] tra singolarità eterogenee che corrispondono a individuazioni extra-sostantive […]. Una molteplicità rizomatica non è perciò realmente un essere, ma una concatenazione di modi di divenire […] [ma] Se non vi è entità senza identità, non vi è molteplicità senza prospettivismo. […] Le molteplicità sono tautegoriche» (De Castro, 2017: 93-94).
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Milano, la statua di Montanelli imbrattata

Sono quello che significano e viceversa. Occorre dunque, nella ricostruzione di un equilibrio comunitario, che a riformularsi siano gli etimi di senso che le rappresentano.

Il mondo odierno vede oggi le sue distanze accorciarsi, luoghi, tempi, relazioni, vivono in una costante prossimità, in un unicum che fa dell’immediatezza l’immagine falsata della vicinanza, ma è proprio in quella parte economicamente forte del mondo, l’emisfero che promuove, crea e sfrutta il potenziale e i disastri della globalizzazione, che maggiormente si infiammano le paure e le vuote idee di una primazia e supremazia etnica, ed è lì che nasce forte la volontà di affermare l’impellenza di porre fine a simili abusi verso l’idea stessa della convivenza, proprio tra i gangli delle più multietniche realtà geo-umane, luoghi nei quali le stratificazioni etniche sono tanto profonde da coincidere con il cangiante unicum culturale del Paese.

Le realtà sociali, oltre che politiche e geografiche, quali i grossi frammenti che compongono gli Stati Uniti d’America e l’Europa, sono – come è noto – tra i principali agenti trainanti della globalizzazione, le popolazioni che le compongono sono frutto di mescolanze storiche e recenti, di movimenti e di contatti serrati che con evidenza rendono l’intera comunità un vasto agglomerato di elementi unici e nello stesso tempo irreversibilmente concatenati tra loro.

Un contesto di tale dichiarata inscindibilità, di indistinguibilità tra un presunto noi e un approssimativo loro, dovrebbe essere il più fertile terreno di crescita e di germinazione interculturale, tanto più che «la viscosità si manifesta in molteplici campi: sociale, affettivo, percettivo, rappresentativo. […] [e così anche] La viscosità ixotimica si manifesterebbe ugualmente sul piano sociale» (Durand, 2013: 334).

Le nuove espressioni del patrimonio immateriale potrebbero fiorire rigogliose sotto la pioggia di incontri e relazioni che costituiscono l’habitat e l’habitus quotidiano della vita occidentale, invece sono proprio queste le realtà dove con più viltà si palesa la paura di perdere la propria supremazia, supposta per nascita, per pigmentazione, per origine culturale o per condizione economica.

«La più grande confusione regna in quel luoghi ambigui dove classificazioni razziali, linguistiche, tecnologiche, geografiche e stilistiche si recuperano e si aggrovigliano, la cultura e i suoi prodotti testimoniano la loro resistenza alla pianificazione dettata dalle scienze della natura. Ed è così che le dissomiglianze iniziano a proliferare» (Descola, 2014: 245),
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Boston, attacco alla statua di Colombo

Si assiste pertanto al perdurare di condotte e sottese sub-ideologie che svelano la presenza ancora salda di quelle ataviche visioni distorte che fanno dell’altro un essere inferiore in quanto etnicamente ascrivibile a un gruppo differente, eletto per questo a bersaglio delle proprie frustrazioni, delle proprie insoddisfazioni.

Il movimento internazionale Blak Lives Matter attivo dal 2012, è tornato a riempire pacificamente le strade negli U.S.A. a seguito della impietosa uccisione di George Floyd, un afroamericano nato in Texas, durante quello che doveva essere un fermo di polizia e che invece si è trasformato in un lucido e sadico soffocamento; il movimento ha così ripreso forza comparendo poco dopo anche in manifestazioni Europee. Alla base delle proteste si trova la più sana delle pretese: l’uguaglianza, la necessità di ricordare a un mondo in cui troppo forte è ancora il suprematismo bianco che le vite dei neri contano, che non sono vacuità di cui potere disporre liberamente, che meritano, al pari di tutti, rispetto, dignità e garanzie, che non è ammissibile che il colore della pelle possa sancire la differenza tra il diritto alla giustizia o la sua negazione.

Come spesso accade quando gli abusi vengono perpetrati troppo a lungo, la linea di demarcazione tra la protesta e la rivalsa si assottiglia, l’esasperazione coralmente condivisa accelera i tempi di fermentazione dell’insoddisfazione delle masse e lascia che l’ira di fronte al sopruso venga esacerbata; il movimento ha così assunto differenti declinazioni, brillando per compostezza e fermezza nell’affermare un reale e diffuso principio di uguaglianza, ma scivolando altre volte nella furia della rappresaglie e nello sfogo iconoclasta.

Spesso poco visibili ma in realtà di grande importanza proprio per il silenzio nel quale slittano continuando a inneggiare al potere bianco, coloniale, occidentale, sono i tanti riferimenti urbani che distrattamente incrociamo. Statue, nomi di vie e piazze che racchiudono un messaggio di storica supremazia, nella smemoratezza delle violenze e delle efferatezze che quelle conquiste hanno comportato, delle usurpazioni sottese a certe storiche glorie.

«Se leggiamo la città come un testo, ovvero come un tessuto stratificato, un intreccio complesso di diversi elementi di senso, un organismo in continua trasformazione e pure identico a se stesso, vi ritroviamo quelle linee invisibili di cui scriveva Calvino, quella città che “non dice il suo passato, [ma] lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, […] nelle aste delle bandiere […]”. Nei fondali della memoria urbana giacciono disseminati i segni dei naufragi, simboli i cui significati non sono più riconoscibili, nomi di persone, cose e luoghi che non ci sono più, e che a volte, tuttavia, d’improvviso, casualmente, epifanicamente, riaffiorano in superficie, irrompono nella realtà quotidiana, tornano in vita» (Cusumano, 2007: 7).

Al fiorire, dunque, di un moto di rivolta verso quella prassi ascritta a una consuetudine abusante, risultano essere di chiara lettura quegli sporadici ma mirati episodi di aggressione verso i simboli di uno squilibrio interetnico culturalizzato: è così che la statua di Cristoforo Colombo svettante in Virginia è stata abbattuta al passaggio di una manifestazione per l’uguaglianza, come molte altre in vari Paesi, dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra al Belgio, toccando diversi Stati dell’America del nord. Si tratta di statue di personaggi che hanno avuto un ruolo attivo nella tratta degli schiavi, nei fenomeni coloniali, nell’appoggio a ideologie razziste, personaggi legati, è vero, alla storia dei Paesi che ne ospitano il monumento, ma indissolubilmente colpevoli di complicità nell’abuso e nello sterminio, nella violenza e nella prevaricazione.

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Black Lives Matter a Genova

Le azioni di rivalsa verso questi simboli che spiccano nelle città ospitanti non sono dunque ascrivibili alla dimenticanza vandalica del valore storico e artistico di queste opere, «prive di contesto le parole e le azioni [così come tutti i significanti, come statue e targhe] non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali» (Bateson, 1979: 30) ma, al contrario, muovono proprio dal riconoscimento profondo del messaggio che silenziosamente questi simboli hanno continuato a trasmettere nel tempo, dando forma in molti casi a una vera geografia di un potere fondato sulla discriminazione e sul sopruso.

Di fronte al perdurare della necessità umana di trovare rifugio dalle proprie frustrazioni e paure nell’odio e nel disprezzo rivolto a chi ci sembra meno vicino a noi, occorre forse ripensare all’immagine d’insieme di tante città, al messaggio che nel mutismo della pietra o dell’impressione di un nome lungo una via si continua a diffondere. «Rendere pubblico l’inconscio, comunicare a livello inconscio» è stato, seguendo Carlo Ginzburg (2015: 209), il sogno dei surrealisti, ma è stato in realtà il progetto di quasi ogni forma di comunicazione artisticamente connotabile. Occorrerebbe dunque rispondere alla necessità comunitaria di smorzare le tensioni, di riconoscere la prossimità, di ritrovarsi nella mescolanza e di farlo anche attraverso una riformulazione dell’ordito urbano, delineato da nuovi simboli, da una nuova cultura capace di riconoscere la molteplicità indispensabile e inevitabile delle diversità, risorsa fondamentale del convivere oltre i confini del vivere.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Riferimenti bibliografici
G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1979.
A. Cusumano, Ripellino a Mazara, in M. Ripellino, Oltreslavia. Scritti italiani e ispanici (1941-1976), Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo, 2007: 7-24.
E. V. De Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre corte, Città di Castello, 2017.
G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore, 2016.
P. Descola, Oltre Natura e Cultura, Seid editori, Firenze, 2014.
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari, 2013.
C. Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano, 2015.

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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.

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