Trovare il proprio posto nel mondo richiede un cammino difficile, fatto di rinunce e sacrifici. Trovare la speranza richiede un cammino ancora più lungo, che non ha nulla a che vedere con i percorsi tracciati sulla superficie della Terra. Se un individuo è costretto a lasciare il proprio Paese perché in guerra, e nella terra di approdo vede negati i propri diritti e la propria dignità, la speranza non è una città o un continente: è l’anelito al rispetto della propria umanità. Una speranza raccontata attraverso la viva voce dei migranti ciadiani del Centro autogestito di Pisa e restituita dal documentario CiaLiLaPi, ideato e realizzato da Tiziano Falchi e Fabio Ballerini (Ahimsa – DocVideo, Pisa, 2013).
Il titolo prende forma dalle iniziali dei quattro punti geografici salienti dell’esperienza migratoria dei rifugiati politici, protagonisti del documentario: Ciad, Libia, Lampedusa e, infine, Pisa. Non si tratta di semplici tappe, ma di ben quattro luoghi dell’esclusione e della negazione dell’essere umano: se nei due Paesi africani l’individuo è annullato dalla brutalità delle guerre, Lampedusa e Pisa diventano esperienze in cui la gestione maldestra dell’accoglienza si trasforma in un’ulteriore chiusura al rispetto per l’umanità. In tal senso, Lampedusa non è linea, ma terra di confine tra il continente africano e la “Fortezza Europa”, una realtà in cui spesso le politiche xenofobe hanno ostruito il contatto tra popoli per proteggere il proprio ordine da contaminazioni che ne potessero turbare l’impeccabile “armonia civile”, fatta di CIE degli orrori [1] in Italia e lame taglienti per offendere le dita dei migranti che approdano esausti sulle coste spagnole[2]. La cronaca in più occasioni ha confermato che questi Centri di identificazione svolgono una mera funzione di criminalizzazione del fenomeno migratorio, in una logica militare tutta securitaria di controllo, di reclusione e di repressione.
Ma se Pisa, con la conclusione dello stato di emergenza, si è fatta luogo di ulteriori problemi, d’altra parte è diventata punto di partenza e laboratorio inedito della riappropriazione dei diritti e soprattutto della propria identità agente. Piuttosto che lasciare il Centro e andare verso la deriva con poco denaro in tasca, i giovani ciadiani hanno preferito, infatti, rimanervi e autogestirlo, mettendosi all’opera con attività finalizzate al proprio mantenimento, come la realizzazione di un orto e di manufatti artigianali, per citarne solo due. Il Centro ha acquisito la valenza di un punto di snodo tra la sopravvivenza fisica e quella culturale: i corsi di lingua, le esperienze teatrali, coordinate anche dai volontari che hanno seguito sin dall’inizio la vicenda dei rifugiati ciadiani, hanno costituito il mezzo attraverso il quale i giovani hanno potuto esprimersi e affermarsi come individui e non più come numeri o come soggetti condotti allo stato di “bambini” dalle pratiche assistenzialistiche operate fino a poco tempo prima.
Il documentario costituisce di per sé un ulteriore momento di riappropriazione delle soggettività: gli intervistati hanno finalmente avuto modo di poter narrare le proprie storie e di esternare i propri sentimenti. Nulla di più lontano dai colloqui con i funzionari delle commissioni per i Rifugiati, in cui raccontare di se stessi ed esporsi davanti a chi deciderà del proprio status nel Paese ospitante, è una mera operazione formale di routine, una procedura burocratica del tutto priva di densità comunicativa ed empatica. Raccontare una storia, raccontare la propria storia, non è un atto circoscritto alla semplice azione del narrare: è consegnare un pezzetto della propria identità nelle mani di altri perché lo riscrivano nella coscienza e nella memoria. Ascoltare le storie dei migranti, in una società che tende a stigmatizzarne la condizione, è un importante passo verso lo sviluppo della coscienza di cittadinanza: guardare a noi stessi, nati in Italia, come gli unici rappresentanti possibili del nostro Paese, sarebbe cieco e sterile. Non esiste soltanto chi in Italia vive perché vi è nato: esiste anche chi in Italia compie un doloroso sforzo di ri-nascita, configurando se stesso in modo nuovo per trovare il proprio ruolo e il proprio spazio nella società, che si tratti dell’ambito occupazionale o di quello culturale e relazionale: come è possibile ritenere “altro-da-noi” chi affronta con tale determinazione un percorso cosciente per diventare parte di quel tessuto civile e sociale che chiamiamo comunità?
Un aspetto del docufilm ha soprattutto colpito la mia attenzione: i giovani ciadiani ospiti del Centro di Pisa possiedono non solo la conoscenza della lingua italiana, ma soprattutto la competenza, legata ai piani pragmatici dell’espressione, indispensabile per poter esprimere non soltanto parole tradotte ma concetti, primi tra i quali quelli legati al tema dei loro diritti. Un simile risultato è stato reso possibile grazie ad un processo di interazione tra insegnante e allievi: non una somministrazione frontale di nozioni, ma un laborioso esercizio di formazione del medium comunicativo basato sulla relazione e sul confronto. I giovani ciadiani non hanno semplicemente imparato una lingua, ma hanno trovato nell’insegnante di italiano un interlocutore con cui costruire una rete di significati, a partire da argomenti espressivi di loro immediato interesse, come il manuale contenente il regolamento degli SPRAR ovvero del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.
CiaLiLaPi, più che raccontare, si racconta. Nasce da un’idea di video-denuncia, eppure trova nella sua costruzione condivisa una declinazione inaspettata: si racconta come frutto di relazioni umane, di unione e ricerca comune del bene collettivo quanto di quello individuale. L’occhio del regista non è guidato dalla costruzione egemonica di una fiction narrativa, ma strumento al servizio delle soggettività narrate dagli stessi protagonisti. L’intervento di montaggio segue un filo diacronico e al tempo stesso psicologico, legato alla volontà dei rifugiati, quella di non soccombere alle lungaggini burocratiche e alle negazioni dei diritti, a partire dai soli accessi di base: «Noi non crolliamo» è il loro motto, e non possiamo far altro che constatare quanto l’intento sia autentico, a partire dal racconto del passato fino alle aspettative costruite dall’immaginazione e dall’immaginario di ciascuno.
Se il documentario si apre con i fotogrammi che documentano la negazione dei diritti dei rifugiati, la sua chiusura sembra avere la forma e il suono di una cora, ovvero dello strumento a corde realizzato dai migranti con materiali di recupero: mi è parso come un cerchio che si chiude sulla rinegoziazione del sé nella terra di approdo. Ma Tiziano Falchi mi corregge[3]: «Più che come un cerchio, voglio vederlo come un “6”», ovvero un cerchio aperto, la cui linea prosegue oltre, in una curva ascendente e protesa verso il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note
1 Ci riferiamo ai fatti riportati dal Tg2 il 17 dicembre 2013, relativi alle pratiche di disinfestazione contro la scabbia all’interno del CIE di Lampedusa.
2 “Immigrati, tornano le lame nella recinzione della frontiera di Melilla”, da redattoresociale.it alla pagina http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/448454/Immigrati-tornano-le-lame-nella-recinzione-della-frontiera-di-Melilla
3 Comunicazione personale