Il ghiacciaio della Marmolada rappresenta la più grande formazione glaciale delle Dolomiti, un patrimonio ambientale e paesaggistico inestimabile che è destinato a scomparire entro i prossimi trent’anni. Già nell’ultimo secolo era stata registrata una consistente fusione dei ghiacci, ma un recente studio internazionale (Santin et. al. 2019) registra un incremento allarmante del processo, che porterà alla scomparsa totale del ghiacciaio in pochi decenni. Le cause sono direttamente legate al cambiamento climatico, e il cambiamento è irreversibile. Dal ghiacciaio nasce anche il torrente Avisio, che scorre tra le valli trentine fino a affluire nell’Adige; il suo percorso attraversa anche la val di Fiemme, una delle aree più segnate dalla tempesta Vaia che lo scorso anno ha colpito buona parte della regione alpina. I danni al patrimonio forestale sono ingenti, con quasi 22.500 ha di alberi caduti nel solo Trentino Alto-Adige, ma in questo quadro il cambiamento climatico rimane un fattore minore.
Il caso della val di Fiemme rivela una fragilità intrinseca ai boschi della valle, un paesaggio marcato storicamente dalle politiche forestali ottocentesche e del primo Novecento. La gestione dell’ambiente in questo secolo è parte di progetti nazionalisti più ampi, che da una parte usano il territorio come marcatore identitario, e dall’altra propongono un’identità collettiva basata sull’opposizione ad un Altro, interno o esterno alla comunità. I genocidi commessi in quest’epoca sono una delle conseguenze più drammatiche di tale visione. Ma che cosa permette di legare insieme fenomeni eterogenei come lo scioglimento di un ghiacciaio, la fragilità storica di un’area forestale e lo sterminio del popolo ebraico?
A cogliere questa “aria di famiglia” è Salvatore D’Onofrio, un antropologo italiano, docente presso l’Università di Palermo e già membro del Laboratorio di Antropologia Sociale del Collège de France. Le sue ricerche etnografiche l’hanno portato in Costa d’Avorio e Paraguay, ma i suoi principali lavori si legano alla regione mediterranea, Puglia e Sicilia tra tutte. Proprio in Sicilia D’Onofrio riveste un ruolo pionieristico (1976) nella museografia antropologica, occupandosi di allestimenti sulla cultura tradizionale e i suoi aspetti materiali. La dimensione simbolica del corpo, l’atomo di parentela spirituale e l’incesto di terzo tipo sono alcuni dei contributi più importanti di D’Onofrio alla riflessione antropologica, ed evidenziano la sua fertile ricezione dello strutturalismo di Lévi-Strauss, che ritroviamo pienamente in questo recente volume.
Il libro, Lévi-Strauss e la catastrofe (Mimesis, Milano, 2019), è stato pubblicato in francese già lo scorso anno, sempre con Mimesis, con il titolo Lévi-Strauss face à la catastrophe. L’originale francese ha il merito di indicare con più chiarezza il rapporto che struttura il volume, ossia la presenza di una costante riflessione sulla catastrofe all’interno del pensiero di Lévi-Strauss. Il ruolo di D’Onofrio non è solo quello di guida al lettore nella giungla dell’opera lévi-straussiana, ma di evidenziare – prima di tutto – la complessità del concetto di “catastrofe”; una parola-chiave che circoscrive, anziché definire, un insieme eterogeneo di fenomeni, una concrezione storica e ideologica sotto la quale l’Autore rintraccia una somiglianza comune. Un’affinità ben marcata dal sottotitolo del libro – uguale per entrambe le edizioni – tratto da una citazione di Tristi Tropici (1960), che attraversa come fil rouge l’intero lavoro di D’Onofrio: «Nulla è perduto, possiamo riprenderci tutto».
Nel valutare un libro non bisognerebbe mai indugiare troppo sulla copertina, ma in certi casi le vesti grafiche sono particolarmente adatte a cogliere, sintetizzandolo, il senso di quello che stiamo per leggere. La copertina di questo volume mostra un intreccio surreale di mani, dita e occhi squarciati da ferite, un disegno che Lévi-Strauss realizza dopo un incidente a cui assiste in Amazzonia. Descrivere questo avvenimento non è per nulla fuori luogo: Emydio, un giovane contadino assunto per occuparsi degli animali da soma della spedizione etnografica, si ferisce accidentalmente alla mano con un fucile. Tale incidente, che potrebbe rimanere una nota aneddotica a margine di Tristi Tropici, diventa invece una metafora dei temi esposti da D’Onofrio: la condizione di subalternità storica delle popolazioni amazzoniche post-conquista europea, lo sguardo e la compassione dell’etnografo sul campo, la presenza invasiva di una tecnologia (di più, di una téchne occidentale) che si sgancia dal controllo umano, rischiando di ucciderlo.
Ma l’incidente non è descritto solo con tinte fosche: Emydio perde alcune dita, ma la combinazione di farmaci e di insetti della giungla gli evita l’amputazione. Il libro di D’Onofrio tratta di disastri e calamità, del processo auto-distruttivo insito nel modello di sviluppo globale; ma c’è spazio anche per delle possibilità di riscatto, che muovono dall’Altro verso un ripensamento complessivo del futuro. Questa alterità di cui ci parla D’Onofrio (e lo stesso Lévi-Strauss) non è solo quella degli altri popoli indigeni, che pure si mostrano come valide alternative storiche, ma è una dimensione già insita nella nostra società, che rende possibile un cambiamento. Per riprendere la citazione dell’etnografo francese, «Ciò che fu fatto e sbagliato può essere rifatto».
Genocidi e altri disastri (in)umani
Disastri, calamità e catastrofi sono temi drammaticamente all’ordine del giorno. Intere regioni del pianeta, intere comunità e nazioni si scoprono inaspettatamente fragili davanti alle conseguenze dei cambiamenti climatici, degli squilibri economici, dei conflitti politici. L’antropologia è tra i saperi che più hanno recepito questo assetto globale – sempre meno emergenziale e sempre più strutturale – con diversi e importanti studi (Gugg, Dall’Ò & Borriello 2019; Oliver-Smith & Hoffman 2019). Colpisce l’eterogeneità dei fenomeni che vengono considerati e analizzati, ma si può tracciare una prima e sostanziale distinzione terminologica. “Disastro” e “catastrofe” vengono spesso utilizzati come sinonimi: entrambi descrivono eventi drammatici, ma mentre il primo termine indica un cambiamento pur sempre reversibile nei suoi effetti, una catastrofe implica una trasformazione irreversibile. Per esempio, il recente flusso di alta marea a Venezia è stato un disastro, ma l’innalzamento del livello del mare e il conseguente allagamento definitivo della città veneta sarà una catastrofe.
Le conseguenze del cambiamento climatico globale sono catastrofi, trasformazioni planetarie che non siamo in grado di arrestare o invertire. Inoltre, come già il buco nell’ozono (Latour 1995), questi cambiamenti evidenziano tutta l’ambiguità di una categoria come “calamità naturale”, concetto depurato dalla commistione tra umani e non-umani. Non solo le società umane sono corresponsabili dell’attuale assetto climatico, ma queste catastrofi partecipano della stessa “natura” dei genocidi, dei conflitti etnici, delle crisi economiche. Questa è precisamente la prima delle tesi sostenute da D’Onofrio: il legame profondo, colto da Lévi-Strauss, tra calamità naturali e disastri umani, su tutti la Shoah. Tutte queste catastrofi sono accomunate e indotte da un’unica hybris, legata alle trasformazioni storiche della società occidentale e alla sua stessa idea intrinseca di sviluppo. Nel presentare queste posizioni, D’Onofrio segue da vicino le riflessioni di Lévi-Strauss, sostenendo come il contro-soggetto di un contrappunto la sua seconda tesi: questa sensibilità dell’antropologo francese per la catastrofe è insita nello stesso approccio strutturalista.
Se è vero che ogni pensiero è inevitabilmente legato alle coordinate storiche e biografiche di chi l’ha prodotto, allora il Novecento e i suoi disastri hanno lasciato un’impronta forte nella prospettiva antropologica di Lévi-Strauss. Nella sua opera, salvo rari accenni, non c’è mai una retrospettiva sulle vicende personali dell’etnografo rispetto al nazismo (in quanto di famiglia ebraica), né sull’antisemitismo tout court. Invece, ci sono molte riflessioni sul razzismo e sull’etnocentrismo, parte della sua analisi della società moderna. Proviamo, in queste pagine, a ri-arrangiare il percorso tracciato da D’Onofrio, cominciando da due concetti che ritornano continuamente nel volume: memoria e ritorno, per l’appunto. La dimensione del ritorno si presenta come una prospettiva incorporata nell’antropologia di Lévi-Strauss, anche se declinata secondo vari aspetti e soggetti.
Il primo di questi aspetti è quello del ritorno della scrittura, di cui Tristi Tropici e Saudades do Brasil sono gli esempi migliori. Il lungo romanzo-testimonianza di Lévi-Strauss, ricordi della sua unica esperienza di campo, descrive il “movimento immobile” dell’etnografo, una condizione erratica che gli permette di situarsi ai margini dei mondi culturali, tra di essi, esattamente come la foresta amazzonica rappresenta un luogo di frontiera e margine tra la società brasiliana e le comunità indios. La dimensione del ritorno, inteso anche come nostalgia di casa, nostalgia del quotidiano, fa sì che Tristi Tropici preesista alla sua scrittura, già presente nelle riflessioni di Lévi-Strauss durante le sue spedizioni. Il volume si presenta in questo modo come un ritorno dell’etnografo, un modo per esplicitare una soggettività sempre presente durante il lavoro di campo, che agisce come filtro interpretativo e sulla quale si innestano riflessioni a posteriori. Tuttavia, il risultato non è l’imposizione di un soggetto-autore cui viene subordinata la narrazione, ma piuttosto una sua dissoluzione che permette di assimilare una nuova soggettività, quella degli indios, sopravvissuti alla catastrofe della conquista europea.
L’osservazione etnografica proposta da Lévi-Strauss ha proprio lo scopo di esplicitare un “un apprendimento interno”, che coincide con quello dell’indigeno, più precisamente dell’osservatore che rivive l’esperienza dell’indigeno. È qui che la compassione diventa uno strumento epistemologico decisivo; non come pietas generalizzata, ma come sistematico tentativo di armonizzarsi con le passioni dell’indigeno. L’osservazione etnografica permette di raccogliere dati sul contesto culturale, che rappresentano però solo il primo momento della ricerca antropologica. Questi dati devono essere riconsiderati attraverso un trattamento comparativo, che ne mette in luce affinità e differenze, le quali permetteranno alla fine di evidenziare dei princìpi regolatori astratti. In questo senso, l’approccio strutturalista impone all’etnografo un doppio ritorno metodologico, raffinando i dati raccolti nell’esperienza di campo per rintracciare delle strutture trans-temporali soggiacenti all’apparente disordine storico.
Lévi-Strauss apprende bene la lezione della geologia, della psicoanalisi e dell’economia marxista quando lavora sul corpus dei miti amerindiani, che troveranno la loro maggior elaborazione nelle Mythologiques. Tuttavia, come D’Onofrio sottolinea a più riprese, Lévi-Strauss è stato un alunno tanto attento quanto critico, specialmente verso la teoria marxista. Il suo disimpegno verso la politica militante rende conto anche della consapevolezza maturata rispetto agli esiti storici del marxismo, le cui previsioni sulla fine della lotta di classe si dimostrarono fallimentari. Per l’antropologo francese, la società occidentale si basa essenzialmente sul mantenimento costante di differenze sociali, in una struttura gerarchizzata. A differenza delle “società fredde” dei popoli indigeni, capaci di resistere al cambiamento storico, la società occidentale sviluppa “calore storico” proprio grazie allo squilibrio sociale, usato come combustibile.
D’Onofrio evidenzia come a questa distinzione si accompagni anche una differenza tra strategie politiche. Senza voler proporre dualismi generalizzanti, tendenzialmente i popoli indigeni si caratterizzano per una “politica dell’estraneo” di tipo assimilativo, che cerca di includere elementi esterni alla comunità umana (siano questi umani o meno) attraverso relazioni di parentela, economiche o ecologiche. La negazione dello statuto di “umano”, implicata in queste forme di etnocentrismo indigeno, non porta alla distruzione o alla cooptazione dell’altro come invece accade nella società occidentale. La conquista europea delle Americhe rappresenta un evento catastrofico che per molti versi prefigura lo sterminio nazista. Abbiamo sempre a che fare con una volontà annichilatrice, certamente meno sistematica e tecnologica, che si fonda sulla negazione dello statuto di umanità alle popolazioni indigene, trattate secondo modalità violente, aggressive e di impoverimento. Il razzismo è un particolare aspetto dell’etnocentrismo occidentale, che sull’asse identità/differenza struttura ideologie politiche e sociali, di cui il Novecento ci ha fornito esempi disastrosi.
Questa volontà di dominio, che il sistema economico capitalista estende anche allo sfruttamento dell’ambiente, è una hybris culturale che accomuna tanto lo sterminio degli indios e degli ebrei, quanto le devastazioni ambientali e i cambiamenti climatici. Lo strutturalismo di Lévi-Strauss opera un disvelamento dei meccanismi culturali all’opera nella nostra società, mostrandone la insostenibilità e – qui D’Onofrio torna con le sue considerazioni – il suo effetto auto-distruttivo. Del resto, la Guerra fredda e la minaccia del conflitto atomico paventavano proprio un “punto di non-ritorno” per la specie umana. Oggi i termini della catastrofe sono cambiati, ma c’è sempre la stessa logica culturale soggiacente.
In questo quadro sconfortante, Lévi-Strauss ribadisce l’importanza dell’arbitrio umano, della sua possibilità di cambiamento. Occorre uscire dalla logica dello sviluppo continuo, della crescita demografica ed economica costante, dello sfruttamento intensivo dell’ambiente; liberarci, in altre parole, da questa particolare forma di ordine storico nella quale viviamo, e nella quale pensiamo di essere intrappolati. Quello che D’Onofrio suggerisce è di considerare delle strategie di resistenza allo sviluppo, facendone una parte integrante della nostra società, puntando su tre fattori: (1) dare preferenza all’unità del corpo sociale rispetto al cambiamento, (2) un sistematico rispetto per la natura, intesa come insieme di equilibri vitali, (3) opporre un certo grado di resistenza alla Storia. Attraverso questi fattori è possibile contenere lo squilibrio termodinamico descritto da Lévi-Strauss, agendo prima di tutto sulla differenza sociale e sulla politica dell’estraneo verso umani e non.
Queste strategie sono chiaramente modellate su quelle dei popoli indigeni, popoli che hanno già subìto una catastrofe culturale ed ecologica e hanno dovuto sviluppare nuovi modelli storici di vita. In questo senso si può parlare di un ritorno dell’indigeno, l’ennesimo movimento dell’antropologia lévi-straussiana, distinto però da un romantico e ingenuo ritorno all’indigeno, come se queste comunità fossero proiettate fuori dalla Storia, in una condizione utopica e primitiva. Al contrario, le popolazioni indigene sono passate attraverso gli ingranaggi del motore storico occidentale, e ancora ne recano i segni. Ispirarci a loro significa tentare di elaborare dei modelli culturali di transizione e cambiamento, consapevoli che altre strade sono percorribili. Uno dei punti più importanti delle riflessioni di D’Onofrio è considerare l’antropologia non solo come sapere sull’uomo, ma come memoria di altre possibilità culturali. Ogni ritorno, in fondo, è possibile solo finché resta una traccia, una memoria. È per questo che Calipso e Circe cercano di far perdere la memoria ad Ulisse, cancellando ogni ricordo, ogni traccia che potesse ricondurre a Itaca l’eroe del nostos per eccellenza.
Una catastrofe è irreversibile, implica trasformazioni definitive, ma questo non vale per l’ordine culturale: la Storia non è fatta di necessità, ma di forme contingenti, di possibilità culturali che gli esseri umani plasmano e da cui sono plasmati. E per questo, sempre, «ciò che fu fatto e sbagliato può essere rifatto»
D’Onofrio mostra con efficacia come Lévi-Strauss riconosca un preciso accordo tra catastrofi naturali e disastri culturali, e come questa consapevolezza sia pienamente integrata nell’approccio strutturalista. Non a caso abbiamo suggerito di leggere queste due tesi come soggetto e contro-soggetto di un contrappunto. Tuttavia, disperse nel testo, affiorano talvolta delle “parti libere” minori, legate proprio alla musica e al ritmo. Dopo aver presentato i temi principali di questo libro, approfittiamo di questo breve paragrafo per delle riflessioni a margine, cominciando dalla passione per la musica di Lévi-Strauss.
Per l’antropologo francese, la musica «a suo modo, adempie a una funzione simile a quella della mitologia. Mito il cui codice è il suono invece della parola, l’opera musicale fornisce […] una forma speculativa, cercare e trovare una via d’uscita di fronte a certe difficoltà che costituiscono propriamente il suo tema» (Lévi-Strauss 1974: 622). Emblematico in questo senso sono le composizioni di Wagner (Lévi-Strauss 1974: 616), in cui questa funzione analoga al mito viene riconosciuta e orienta la struttura dell’opera. A differenza della parola, che esprime dei significati storicamente e culturalmente contingenti, la musica non subisce questa scissione forte tra contenuto ed espressione, codificando cioè nella sua stessa strutturazione sonora (timbrica, ritmica, melodia, ecc) alcuni di quei principi regolatori astratti che lo strutturalismo pone come fondanti: simmetria/asimmetria, opposizione, trasformazioni.
Un’opera come il Parsifal è in grado, attraverso la sua struttura compositiva e il suo riferimento alla sfera del mitologico, di armonizzare l’uomo con altri esseri umani, in una specie di compassione musicale, accedendo ad una dimensione comune del mito (senza per questo ricadere nell’archetipo junghiano). Questo movimento permesso dalla musica – ricordiamolo, consapevole della propria funzione mitologica – permette un movimento di identificazione tra gli uomini, una forma di partecipazione non-intellettiva e razionale in aperto contrasto con la nozione di soggetto-individuo occidentale. La musica, come già lo sguardo dell’etnografo, permette una dissoluzione della soggettività, o almeno rende sistematicamente permeabile il soggetto-io all’altro.
La musica non caratterizza solo una dimensione di apertura, ma anche di accesso intimo alla memoria. Ne è un esempio lo Studio n°3 op. 10 di Chopin, che continua a ripresentarsi nei pensieri di Lévi-Strauss durante la sua permanenza nel Mato Grosso. La nostalgia, già evocata sopra parlando del ritorno della scrittura e dell’etnografo, assume così la forma di un’esplorazione della memoria, un viaggio interiore nei ricordi della campagna di casa mentre l’antropologo sta vivendo la sua più importante esperienza di campo, in Brasile. La memoria non è un archivio rigido e definitivo, ma un insieme di frammenti, ricordi, immagini in costante dialogo con il presente. L’opera di Chopin, che risuona nei pensieri di Lévi-Strauss suo malgrado, regge le fila di questo dialogo e rivela anche una certa filiazione romantica (D’Onofrio 2019: 25) che ne spiega la “scelta” inconscia.
Del resto, anche i princìpi regolatori dello strutturalismo affondano in un inconscio dell’uomo, una dimensione a cui la musica – proprio per questa sua differenza rispetto alla parola – permette di accedere, come una sorta di codice trans-culturale. Lévi-Strauss gioca molto su questa possibilità nelle sue Mythologiques: tutto il primo volume può essere letto come un arrangiamento dei miti Bororo che fa emergere una logica delle qualità attraverso l’analisi strutturalista e il codice musicale. Si prenda come esempio Doppio canone rovesciato (Lévi-Strauss 1966: 287-315), uno dei brani più interessanti da questo punto di vista. Prima di continuare questo percorso sulla musica, e per comprendere quale relazione sussiste con il tema della catastrofe, facciamo un passo indietro e consideriamo un’altra delle suggestioni di D’Onofrio (2019: 16), mai casuali.
René Thom è un matematico famoso per il suo contributo alla teoria delle catastrofi, ossia l’elaborazione di modelli descrittivi per eventi disastrosi (Thom 1977). Matematicamente, una catastrofe viene considerata come un fenomeno discontinuo, dovuto al brusco variare dei suoi parametri. D’Onofrio osserva come queste improvvise trasformazioni di funzione siano assolutamente coerenti con l’irreversibilità della catastrofe socialmente intesa. Lo stesso Thom, come filosofo e semiotico (Thom 2006), cercò di applicare la teoria matematica a campi e ambiti diversi della cultura, dalla biologia alla danza.
Non sorprenderà troppo, allora, che il legame tra Lévi-Strauss, Thom e la catastrofe si estenda anche nella musica, nell’analisi che entrambi fanno del celebre Boléro di Ravel. Le considerazioni di Thom riguardano prima di tutto gli aspetti cinetici e vettoriali del balletto, che però sono strettamente legati al brano musicale nella misura in cui: «la cellula ritmica del Boléro di Ravel, ripetuta indefinitamente, serve a eccitare un oscillatore che a poco a poco sblocca l’uno dopo l’altro tutti i suoi gradi di libertà sino a giungere alla soglia del caos, interrotto bruscamente dalla caduta nell’accordo finale» (Thom 2006: 103). Tocca però a Lévi-Strauss, nella sua magistrale analisi del Boléro nel finale di L’uomo nudo (621-629), mostrare quale sia il significato del crescendo e della dissonanza nelle ultime misure dell’opera di Ravel.
La composizione viene descritta dall’antropologo francese come una fuga “spianata”, dove cioè non si verifica un accavallamento tra le varie parti, piuttosto una sequenzialità lineare e continua tra tema e risposta, contro-tema e contro-risposta. In generale, si può parlare del Boléro come di un crescendo strumentale, con un ostinato di rullante a cui si aggiungono, di misura in misura, diversi strumenti che riprendono lo stesso tema melodico. Questo ostinato rappresenta la “cellula ritmica” di cui parlava Thom e che si perpetua per quasi l’intera opera. Tuttavia, Lévi-Strauss critica chi considera questa composizione in termini di assoluta linearità tra due estremi; al contrario, rivela tutta una serie di opposizioni e contrasti interni, che si sviluppano lungo l’intera opera. Per esempio, l’ostinato del rullante si caratterizza per un ritmo ternario, e tuttavia è presente una seconda ritmica accennata da un pizzicato di archi, che riprende e riassume l’ostinato con un ritmo binario. Tutta la composizione è un tentativo di superare un problema posto dal tema principale, un conflitto generato dalle opposizioni ritmiche, timbriche e melodiche che si susseguono linearmente, senza mai riuscire a risolversi. Il rischio è quello di un inceppamento, un punto in cui «ogni soluzione sfugge quando si arriva al “tutti”, cioè quando la qualità si trasforma in quantità e l’intero volume sonoro a disposizione non si dimostra di aiuto alcuno» (Lévi-Strauss 1974: 627).
Siamo nei pressi di quella “soglia del caos” cui accennava Thom, che paragonava questo processo caotico alla descrizione matematica del passaggio di un fluido da uno stato laminale (movimento ordinato) a uno turbolento (movimento caotico). Analogia quanto mai adatta, considerando che il problema della turbolenza è uno degli ultimi quesiti irrisolti della meccanica classica. Non è stato ancora sviluppato un modello matematico in grado di prevedere il comportamento di un flusso caotico, che per le sue continue variazioni dei parametri rientra nel gruppo delle catastrofi di Thom, anche se di un tipo piuttosto complesso. Fermiamoci nuovamente, e riprendiamo uno dei concetti più interessanti di Lévi-Strauss, ovvero la metafora del motore termodinamico sociale.
D’Onofrio evidenzia diverse criticità in questo modello, a partire dalle definizioni molto tranchant di “cultura” e “società”, ma evidenzia anche la fertilità del concetto di “entropia” applicato all’ambito culturale. Proviamo qui a riprendere il modello lévi-straussiano, utilizzando però non un motore a vapore, cioè a combustione esterna, ma uno a combustione interna. In questo modo, oltre a non spacchettare le varie fasi di lavoro del motore, dovendo così redistribuire le funzioni di relazione verso l’interno e l’esterno (la comunità e la natura/popoli altri), possiamo rendere conto del meccanismo iterativo, ciclico, che alterna ordine e disordine, con generazione di entropia. La differenza sociale può rimanere il combustibile storico utilizzato per produrre ordine culturale, ma la combustione avviene solo in presenza di una miscela tra combustibile ed aria. In un motore a combustione interna, l’aria viene convogliata all’interno della camera di reazione, venendo eventualmente compressa o subendo alterazioni che rendano più efficiente la miscela, in grado di liberare maggiore energia. In termini culturali, questo è il modo in cui la società occidentale si rapporta tanto alla natura (come fondo di risorse) quanto alle popolazioni altre, inglobandole all’interno del proprio sistema e alterandone certi parametri in modo da combinarli con il proprio grado strutturale di differenza sociale e trarne il maggior beneficio.
Ad ogni ciclo di combustione questo si traduce in un aumento di progresso, crescita demografica, sviluppo tecnologico, ma avviene anche un’ottimizzazione del processo di miscelatura: neo-colonialismi, sfruttamento intensivo del suolo, crisi geopolitiche, ecc. Riprendendo la terminologia di Latour assistiamo ad un passaggio di taglia del collettivo umano/non-umano (Latour 1995). Tuttavia, come D’Onofrio e lo stesso Lévi-Strauss non mancano di rilevare, questo processo iterativo che trasforma storicamente la società occidentale, genera un grado sempre maggiore di entropia. L’esplosione chimica nel motore si traduce in energia, ma oltre a consumare fisicamente la miscela – indicativo della modalità distruttiva alla base della “politica dell’estraneo” occidentale – produce sempre più calore, raggiungendo infine un punto di rottura, una soglia in cui, parafrasando la citazione di Lévi-Strauss, tutto il volume energetico raggiunto non è di alcun aiuto. È qui che il sistema si sfalda, il motore si inceppa, e avviene la catastrofe.
Accostiamo volutamente questa crescita entropica fuori controllo del motore culturale con il crescendo ostinato e progressivo del Boléro, sostenuti dalle riflessioni di Thom e Lévi-Strauss. Ricordandoci del sottotitolo scelto da D’Onofrio, riprendiamo l’analisi del Boléro da dove ci eravamo interrotti: la composizione sembra arrivata ad una impasse, incapace di risolvere queste opposizioni strutturali che non trovano più spazio, affollandosi in un crescendo continuo. La soluzione arriva cambiando un parametro fondamentale, ossia con una modulazione che permette di passare dal do maggiore al mi maggiore, una soluzione che tuttavia, secondo Lévi-Strauss è possibile grazie a due fattori: gli insuccessi dei segmenti precedenti, soluzioni mancate che però hanno aperto una pista, e la presenza accennata, non dichiarata, del fa minore insinuato senza successo dal contro-tema (Lévi-Strauss 1974: 627-28). La rimodulazione tonale permette alla composizione di superare le opposizioni ritmiche (ternario/binario) e sovrapporre le parti, sviluppandosi in una direzione totalmente imprevista, ma pur sempre possibile. In chiusura, nella dissonanza finale viene anche meno quella cellula ritmica continua, il problema cui la composizione cercava di rispondere e che al tempo stesso la fondava.
Potremo arrivare a fare a meno della nostra “cellula ritmica” culturale, quel grado di differenza sociale che permette il funzionamento del nostro ciclo termodinamico e di cui, al tempo stesso, aspiriamo a liberarci? «Nulla è perduto, possiamo riprenderci tutto», e la direzione che la nostra società può scegliere può essere suggerita da quei popoli indigeni che hanno già affrontato la catastrofe, venendo calati nel motore storico occidentale. Non si tratta di copiare, “diventare nativi”, ma di renderci permeabili, armonizzandoci con altri contesti culturali, così come la modulazione del Boléro non impiega il fa minore, ma il mi maggiore “suggerito” dalle corrispondenze armoniche. Ragioniamo non tanto sulle differenze, sulle identità, ma sulle somiglianze, sulle analogie, sulle “risonanze” culturali che ci possono orientare in questo frangente storico.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
D’Onofrio, Salvatore, 2019, Lévi-Strauss e la catastrofe, Milano: Mimesis.
Gugg, Giovanni, Dall’Ò, Elisabetta, Borriello, Domenica (eds.), 2019, Disasters in Popular Cultures, il Sileno.
Latour, Bruno, 1995, Non siamo mai stati moderni, Milano: Elèuthera [ed. or. 1991].
Lévi-Strauss, Claude, 1960, Tristi Tropici, Milano: il Saggiatore [ed. or. 1955].
Lévi-Strauss, Claude, 1966, Il crudo e il cotto, Milano: il Saggiatore [ed. or. 1964]
Lévi-Strauss, Claude, 1974, L’uomo nudo, Milano: il Saggiatore [ed. or. 1971].
Oliver-Smith, Anthony, Hoffman, Susanna (eds.), 2019, The Angry Earth: Disaster in Anthropologial Perspective, New York/London: Routledge.
Santin, Ilaria, et al., 2019, “Recent evolution of Marmolada glacier (Dolomites, Italy) by means of ground and airborne GPR surveys”, Remote Sensing of Environment 235.
Thom, René, 1977, Stabilité structurelle et morphogenèse, Paris: Interéditions.
Thom, René, 2006, Morfologia del semiotico, Roma: Meltemi.
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).
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