Stampa Articolo

Dall’invisibilità alla soggettività. Imprenditorialità femminile di immigrate in Campania

donne-685x198di Annalisa di Nuzzo

Alcune riflessioni preliminari

La necessità di conoscere e riconoscere le persone e le loro storie di vita che definivano i flussi, a partire dalla definizione di vulnerabilità (Di Nuzzo, 2013) [1] muove la ricerca condotta nel corso di questo ventennio sui processi migratori e le rilevanti trasformazioni che hanno avuto in Italia uno specifico incremento, in particolare per le migrazioni femminili. Il breve saggio che segue vuole chiarire i mutamenti avvenuti, in relazione al significativo ruolo assunto dalle donne migranti nella società meridionale e italiana in generale

Lo spostamento da un sistema di accumulazione multinazionale ad uno transnazionale flessibile ha determinato la configurazione di nuovi profili di migranti, provenienti, in maniera rilevante nella maggioranza dei casi, da un Paese dell’Est, provvisto di un titolo di studio medio-alto, protagonista di strategie in campo economico sempre più complesse, e, soprattutto, sempre più spesso donna. Dagli anni Settanta del secolo scorso ad oggi si sono avvicendate diverse modalità di migrazioni al femminile, che hanno avuto la loro incidenza in tutta Italia ma soprattutto al Sud.

La mia prima ricerca si è svolta tra il 2005 e il 2009 e continua ad avere una sua continuità a tutt’oggi (Di Nuzzo, 2009) [2]. In quella prima fase in particolare sono state oggetto di osservazione le donne migranti che si occupano del lavoro di cura e di assistenza domestica. In questa ultima fase l’analisi è soprattutto rivolta alla trasformazione che progressivamente ha portato queste donne ad affrancarsi dalla domesticità e ad approdare ad attività di tipo imprenditoriale. Nelle relazioni domestiche sono emerse le complesse dinamiche di incontro tra le donne immigrate e le donne delle famiglie che le accolgono, senza trascurare le implicazioni nei rapporti con gli anziani e gli altri componenti della famiglia. Particolare attenzione è stata riservata ai luoghi d’incontro, ai legami tra donne, alle modalità delle selezioni lavorative e del turnover, compreso il passaggio ad altri tipi di lavoro, ed infine alle problematiche della malavita organizzata. Si sono susseguite nel tempo diverse generazioni di donne migranti.

Le prime ricerche sul campo hanno avuto come oggetto di analisi storie di vita paradigmatiche di “pioniere” della migrazione che ancora oggi ribadiscono con forza i loro vissuti. Donne diventate oggi “anziane”, come Lucia in Italia dal 1997 che esordiva dicendomi: «adesso ho 58 anni, sono vecchia» (Di Nuzzo, 2009). Quella intervista lasciava emergere alcune costanti che appartenevano a quella prima generazione connessa, sua malgrado, nella percezione della società italiana, allo stereotipo della badante, perché tutte o quasi iscritte in una tipologia che sceglieva il rischio migrazione come soluzione ad una serie di difficoltà che, nel corso di un decennio, si sono ulteriormente sedimentate e che hanno contagiato i Paesi dell’ex blocco sovietico, promuovendo flussi sempre più consistenti. Queste donne hanno poi creato quel network migratorio che ha portato in Italia altre donne, sorelle, cugine, nipoti, assicurando un turnover nel pendolarismo migrante in modo da garantire continuità di presenza alla famiglia datrice di lavoro.

Caterina è un altro esempio di questa generazione: prima donna immigrata a Scafati (paese della provincia di Salerno), è stata la capostipite di una piccola grande migrazione. È riuscita a determinare negli anni un network migratorio e familiare che ha visto l’inserimento in varie parti d’Italia di figli e nipoti, tutti integrati nella realtà sociale italiana. A questa prima generazione si è via via dato spazio ad una seconda di migranti alimentata e strutturata dal fenomeno dei ricongiungimenti familiari. Si avvicendano altre generazioni di donne e, nel corso degli anni, emerge una diversa articolazione delle modalità e forme di migrazione. Queste donne più giovani scelgono l’Italia, anche solo perché vogliono mettersi in gioco per cambiare la loro vita, per poi affrancarsi dal lavoro domestico e iniziare attività commerciali, lavorare nei bar, nella ristorazione o semplicemente per diventare mogli e madri di famiglie miste. Altre diventano responsabili di centri di accoglienza o sindacaliste per orientare le altre donne in arrivo. Infine la trasformazione più recente le vede vere e proprie imprenditrici e coinvolte in una radicale ridefinizione del proprio ruolo.

41tehdnpvxl-_sx339_bo1204203200_A voler definire la continua progressione e visibilità delle migrazioni femminili e delle migrazioni in generale e il loro continuo dinamismo, Michel Maffesoli ne individua alcuni tratti in quella rinata tensione verso l’altrove, che diventa una sorta di principio regolatore alla base di questo mondo in transito: «Siamo divisi tra la nostalgia del focolare, con ciò che esso ha di rassicurante, di matriarcale, ma anche di costrittivo e di soffocante, e l’attrazione per la vita avventurosa, in movimento, vita aperta sull’infinito e l’indefinito, con tutta l’angoscia e la pericolosità che comporta» (Maffesoli, 1997: 87, trad. mia) [3]. Secondo il sociologo francese questa “pulsione migratoria” si nasconde in profondità nell’inconscio collettivo, scorre come una vena carsica e si ritrova con regolarità a riemergere durante tutto il corso della storia umana.

Le migrazioni contemporanee hanno assunto caratteristiche globali, adeguandosi e adattandosi alle condizioni della contemporaneità. Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, del turismo di massa, del commercio internazionale, l’accelerazione e rapidità dei mezzi di trasporto hanno favorito la diffusione dei modelli di vita occidentali anche nei Paesi più poveri. È in questa fase che lo sviluppo di nuove tecnologie nel campo dei trasporti e della comunicazione ha molto agevolato la mobilità rendendo la migrazione una delle forze motrici della globalizzazione. Si sono trasformati soprattutto i legami familiari ed economici, si sono affermate nuove forme di imprenditorialità e di economia etnica, in cui le donne risultano protagoniste consapevoli. Sono emerse nuove dinamiche di organizzazione all’interno dei nuclei familiari, nuove modalità di separazione e riaggregazione, nuovi confini transnazionali sempre più caratterizzati da una continua rinegoziazione della comunicazione e dei ruoli e delle mansioni lavorative tra i coniugi.

Il termine “globalizzazione” è ormai entrato prepotentemente nel vocabolario comune e va ben oltre la mera definizione di “processo sociale” ( Sapelli, 2008) [4]. Coinvolge Stati, organizzazioni internazionali, gruppi economici multinazionali, associazioni e gruppi di interesse a carattere etnico. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, le donne migranti hanno assunto un ruolo crescente, in questo scenario globale della migrazione, tanto è vero che si parla di crescente femminilizzazione dei flussi migratori. Questo fenomeno è particolarmente evidente in Italia, dove le immigrate sono arrivate non solo per ricongiungimento familiare, ma anche, come la mia ricerca sul campo ha evidenziato, come breadwinner (capofamiglia).

s-l1600-1Nel mondo occidentale, dunque, si è verificata una rivoluzione silenziosa prodotta dall’arrivo dei flussi migratori in concomitanza con un sempre più massiccio impiego della donna nel mercato del lavoro, soprattutto di cura, causato dal logoramento delle reti di sostegno familiare e di vicinato, dall’inadeguatezza delle strutture per l’assistenza agli anziani, criticità e deficienze che hanno delineato una nicchia occupazionale per l’inserimento di personale immigrato. È per questo che, come confermano i dati quantitativi tra gli anni Settanta e Ottanta, il numero delle donne immigrate è aumentato in tutto il mondo occidentale, a seguito della rilevante offerta di lavoro domestico.

Dall’analisi di questo quadro socioeconomico in evoluzione, i miei studi sul campo si sono focalizzati agli inizi del nuovo millennio su queste migrazioni silenziose e invisibili. La continua analisi della qualità della composizione dei flussi attuali mostra come stiano ancora una volta cambiando anche le caratteristiche del profilo delle donne coinvolte. Accanto a quelle che si muovono a seguito del marito e/o della famiglia, ve ne sono molte altre dotate di istruzione medio-alta, che migrano da sole. L’analisi si orienta verso due distinte direzioni: da un lato si concentra sul ruolo giocato dalle relazioni di genere, ossia dalle nuove solidarietà tra donne, le reti d’informazione e di sostegno transnazionali nei processi migratori; dall’altro ci si interroga e si cerca di spiegare le specifiche modalità di incorporazione delle donne migranti nei mercati del lavoro delle società di destinazione. Ciò che viene evidenziato, in ogni caso, è lo stretto legame esistente tra la natura dei processi migratori femminili e i processi di riorganizzazione spaziale ed economica dei Paesi più avanzati.

In ultima analisi, quello che risulta sempre più chiaro è la natura complessa e diversificata di questi processi. Queste “donne globali” (Ehrenreich, Hochschild, 2004) [5] appaiono sempre più eterogenee: donne indigenti del Terzo mondo si affiancano, seppure in casi ancora molto limitati, a donne borghesi di un Paese più ricco o – ed è questa, invece, una tipologia molto diffusa – a donne che hanno perso il loro lavoro e status sociale in un Paese ex comunista. L’etnografia del transnazionalismo costituisce un modo innovativo di comprendere il fenomeno migratorio, perché dà la possibilità di valutare le relazioni sociali concrete e il background degli immigrati attraverso uno studio dettagliato delle storie individuali. L’imprenditoria migrante e l’ethnic business costituiscono aspetti rilevanti che investono i nuovi mercati e le relazioni tra flussi migratori e le economie nazionali di accoglienza, laddove si rende visibile una presenza femminile significativa in nuovi ambiti lavorativi.

s-l1600Tutto questo conferma, dal mio punto di vista, l’interesse per le migrazioni femminili e le mutazioni antropologiche in atto, a seguito dei contatti culturali tra migranti di diversa nazionalità e tra migranti e non migranti. La rimodulazione dei progetti di vita si accompagna alla modifica dei valori, degli obiettivi e delle aspettative per il futuro. Nel capovolgimento attuale dei ruoli e dei compiti gli uomini che non emigrano restano a casa per svolgere, in aggiunta ai loro compiti, anche quello di una maggiore assistenza ai figli, così da consentire alle donne di emigrare.

Sembrerebbero, dunque, già avvenuti nel corso di questi due ultimi decenni sconvolgimenti e ridefinizioni, e che in questo momento storico se ne stia solo delineando un altro che vede le donne migranti protagoniste di una imprenditorialità al femminile. Si sta realizzando una modalità nuova dei sistemi economici produttivi ad essa correlati. Gli studi in proposito hanno sottolineato come, in alcune aree del nostro Paese, esperienze concrete d’imprenditorialità possono definire i nuovi rapporti tra economia, potere, solidarietà, differenze, diritti sociali e civili. Seguendo quanto la Sassen sostiene, «lo scopo è quello di contribuire a un’analitica nuova che ci consenta di rileggere e riconcettualizzare le principali caratteristiche dell’attuale economia globale in modo da catturare le estrinsecazioni strategiche del genere, nonché le aperture formali e operative che rendono le donne visibili e ne accrescono presenza e partecipazione» (Sassen, 2004: 106) [ 6].

sassenLa cooperazione internazionale e la imprenditorialità etnica

La cooperazione internazionale si interroga da almeno trent’anni sul nesso fra migrazione e sviluppo: dapprima si pensava che gli aiuti allo sviluppo dei Paesi di origine avessero l’effetto di ridurre i flussi migratori. Lo slogan allora era “più cooperazione allo sviluppo per meno migrazione”, ripreso nel dibattito politico con lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Negli ultimi decenni si stanno sperimentando nuove strategie e paradigmi per associare efficacemente il fenomeno migratorio a più eque e lungimiranti politiche di cooperazione internazionale. L’emigrato viene valorizzato come vettore di sviluppo sia nelle comunità di origine che in quelle di arrivo, in un certo senso capovolgendo la logica precedente e proponendo adesso “più migrazione per meno cooperazione allo sviluppo”. Approccio questo più realistico e consono ad una consapevolezza dell’interdipendenza planetaria, secondo il quale favorire la libertà di movimento e la possibilità di usufruire delle opportunità al di fuori dalle comunità di origine sembra più appropriato.

Gli stessi migranti svolgono dunque oggi la funzione transnazionale di veri e propri agenti di sviluppo. Ormai da alcuni anni in Italia si è accesa l’attenzione al tema delle attività imprenditoriali degli immigrati e, in generale, al lavoro indipendente svolto dagli stranieri. Sebbene la si guardi ancora con un certo scetticismo, la presenza unitamente alla crescita di aziende guidate da cittadini stranieri immigrati sono fenomeni che hanno mutato profondamente il quadro dell’imprenditoria del nostro Paese, e che non sembrano destinati ad esaurirsi in breve tempo. Al contrario, si va sempre più prendendo coscienza del fatto che si tratta di un fenomeno oramai non più marginale, ma anzi in forte e costante incremento, laddove il lavoro indipendente degli immigrati si presenta come un evento composito ed articolato al proprio interno.

Le imprese degli immigrati, anche se spesso di dimensioni modeste, costituiscono non soltanto un fattore di benessere e un “ascensore sociale” per le famiglie di provenienza, ma anche fattore di coesione per la società nel suo insieme e una risorsa a disposizione per costruire con i Paesi di origine un partenariato commerciale e produttivo sensibile al tema della sostenibilità e aperto a prodotti e servizi di nuova concezione (Nanni, 2016) [7].

9788864800691_0_536_0_75Oggi in Italia una impresa su dieci è straniera. L’imprenditoria immigrata è una realtà che guida oltre 630 mila aziende, di queste 3 su 4 sono individuali. In aumento sono in particolare gli imprenditori provenienti da Nigeria, Pakistan e Albania, mentre sono in calo più marcato quelli originari della Cina e del Marocco che, comunque, insieme alla Romania restano in termini assoluti la business community straniera più numerosa nel nostro Paese. È quanto risulta dalla fotografia scattata da Unioncamere e InfoCamere sulle imprese di stranieri iscritte al Registro delle Imprese delle Camere di Commercio a dicembre 2020, una indagine statistica che evidenzia una crescita del 2,9% rispetto ai dodici mesi precedenti (Frigeri, 2021) [8].

Stando agli ultimi dati contenuti nel Rapporto Idos (Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2019-2020) [9], quasi un quarto delle imprese di immigrati oggi sono gestite da donne. Si riscontra una singolare correlazione tra genere ed etnia: emergono valori paritari tra titolari donne e uomini per Polonia, Nigeria e Cina, mentre le donne sono quasi del tutto assenti per le comunità come Pakistan, Bangladesh ed Egitto che le relegano ancora in ambiti casalinghi, all’assistenza o ad attività di gestione e supporto alla famiglia.

In ogni caso esiste una connotazione trasversale di cui sono vittime le imprenditrici immigrate che affermano di dover superare un doppio stereotipo negativo: di donna e immigrata, uno stigma che le vuole inadatte al mondo imprenditoriale e legate ancora al falso mito della triplice invisibilità: invisibili perché non si vedono per la strada, perché vivono una realtà di lavoro segregato, perché, sfuggendo ai media, non compaiono sulla scena pubblica.

La figura della donna immigrata che si dedica esclusivamente al lavoro di cura della propria casa e della propria famiglia, o al massimo al lavoro domestico presso le famiglie italiane, vittima passiva di una visione fallocentrica della società, non è più la realtà di queste donne che, stanche di veder sprecato il loro capitale umano, le loro competenze e le loro capacità di confrontarsi con il mondo economico italiano, preferiscono uscire dall’ombra ed esporsi in prima persona. C’è dunque una evoluzione all’interno della migrazione femminile già nel corso di questo ultimo decennio che però deve scontare una sorta di triplice invisibilità: perché donna, migrante e segregata in casa; perché dentro un mercato del lavoro complesso e particolare; perché gli studiosi e i mass media non la vedono e questa donna finisce col non esistere nella percezione dell’opinione pubblica (Di Nuzzo, 2009). 

A questa triplice invisibilità va ad aggiungersi la forte differenziazione di genere che diventa ancora più complessa in ambito lavorativo. Le migranti scontano lo svantaggio di essere donna, più debole, più fragile, più vulnerabile, quindi discriminata a vari livelli, ma gli studi sull’evoluzione delle migrazioni dicono anche che la donna migrante è dotata, rispetto agli uomini migranti, di una maggiore capacità di innovare, di trovare risorse e soluzioni, e di fare ‘rete’. Non si tratta più della donna migrante di qualche decennio fa, chiusa tra le mura domestiche e invisibile. Si definiscono in questo modo nuove forme di identità femminili; un femminismo nuovo senza frontiere né ideologismi che attraversa vecchi confini e ne annulla le barriere spaziali, nazionali, post coloniali, etniche e psicologiche, rifondando nuove solidarietà nonostante i limiti della loro collocazione sociale e lavorativa.

Un’impresa femminile su dieci parla straniero, una lingua sempre più diffusa nel panorama imprenditoriale italiano. Si tratta di una imprenditoria, a confronto con quella non femminile, più piccola di dimensione – parliamo, infatti, di una dimensione prevalentemente micro –, più presente nel Mezzogiorno, più giovane – per la maggiore presenza di under 35 che sono al comando del 19,4% delle imprese femminili straniere contro l’11,9% delle imprese totali guidate da donne – e maggiormente concentrata nel settore dei servizi. Tra le figure di maggior spicco abbiamo perlopiù donne provenienti dalla Cina, Romania, Russia e Marocco. La maggior parte delle donne immigrate, pur se in possesso di elevati titoli di studio – non va tralasciato infatti che la maggior parte delle donne immigrate ha un buon livello di istruzione perché molte provengono dall’est Europa, dove il socialismo reale prima e il post comunismo dopo, hanno favorito un’elevata istruzione femminile e una buona partecipazione delle donne al mercato del lavoro –, oggi lavora nel settore familiare con compiti di cura e assistenza o, nel peggiore dei casi, non riesce a liberarsi dalla prigionia del fenomeno della tratta e del commercio sessuale.

Ma una sempre più larga parte della migrazione femminile, oggi, è fortemente collegata alla postmodernità e al cambiamento dei ruoli di genere e delle dinamiche economiche ad esso connesse; per tale motivo non è raro che si osservino anche casi di piccola e media imprenditoria e di inserimento all’interno di servizi di maggiore qualificazione. Sono donne con competenze lavorative e culturali capaci di attuare strategie di adattamento alle diverse situazioni che di volta in volta devono affrontare, donne che si affacciano al nuovo senza però mai lasciarsi completamente alle spalle le proprie origini.

1Oggi è cospicuo il numero di donne adulte straniere regolarmente residenti in Italia; secondo le ultime stime ISMU (Ventisettesimo Rapporto sulle Migrazioni 2021) [10], le donne, infatti, rappresentano il 52,4% degli adulti immigrati. È interessante notare che tra il 1984 e il 2005, la popolazione immigrata era per la maggior parte costituita da presenze maschili. È solo da quindici anni a questa parte che la componente femminile ha cominciato ad acquisire un peso sempre maggiore dovuto sia all’aumento dei ricongiungimenti familiari, sia all’allargamento ad Est dell’area di libera circolazione europea, che ha comportato l’incremento di nuovi flussi esteuropei. Sempre secondo gli ultimi dati riportati dall’ISMU, queste donne adulte immigrate regolamentate provengono prevalentemente da Romania, Albania e Marocco, seguiti da Ucraina, Cina, Filippine, Moldova, India, Polonia, Perù, Sri Lanka, Nigeria, Egitto, Ecuador e Bangladesh. Il collettivo che presenta la più alta percentuale di presenza femminile è quello ucraino (77,3%), seguito dal polacco (74,1%), moldavo (66,1%) e bulgaro (62,6%).

Eterogeneità, dinamicità, transculturalità sono solo alcuni esempi di come l’Italia si sia evoluta nel corso degli ultimi anni. Come già sappiamo, infatti, l’immigrazione in Italia presenta delle caratteristiche nuove rispetto a quelle delle grandi migrazioni intraeuropee dei decenni compresi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Ciò è dovuto innanzitutto dalle trasformazioni generali del contesto economico internazionale all’interno del quale avvengono i nuovi spostamenti migratori nonché da una nuova domanda di lavoro di questi ultimi anni.

download-1lo-staniero-che-vieneLa verità è che gli interessi così come i fini ultimi dei migranti si sono modificati nel corso del tempo. Se prima l’unico scopo era quello di fuggire dal proprio Paese verso un luogo più sicuro in cui vivere, alla ricerca di un lavoro che li aiutasse quantomeno a sopravvivere, oggi la fuga ha ceduto il posto alla necessità di aspirare a qualcosa di più sicuro, appagante e gratificante (Agier, 2020) [11]. In questo nuovo contesto – in rapporto alla modificazione della domanda di lavoro – le donne svolgono un ruolo nuovo all’interno dei movimenti migratori, ne diventano protagoniste. Le immigrate sembrano, in particolare, assumere nuove posizioni rispetto ai percorsi, alle scelte di espatrio, alle modalità di inserimento nella società d’arrivo, anche e soprattutto rispetto alla collocazione tra la propria cultura e quella in trasformazione nei Paesi ospiti. Non si tratterebbe perciò solo di un ruolo diverso svolto dalle donne immigrate, ma anche di un approccio del tutto nuovo, di una diversa e più assertiva postura nei confronti della società ospitante tutta.

La migrazione femminile in Campania e nuove forme di imprenditorialità

Entrando più nello specifico dell’immigrazione femminile in Campania – area presa in considerazione nel corso delle mie ricerche – è possibile notare come la presenza straniera in Campania si sia modificata sia in termini quantitativi sia per le caratteristiche dei modelli migratori emergenti.

La città di Napoli, in generale, ha rappresentato per la sua provincia e per tutta la Campania un polo attrattore gerarchicamente superiore al resto del territorio regionale, in termini di ricchezza, attività e flussi di materie, informazioni e persone. Più nello specifico, in relazione al ruolo svolto dall’imprenditorialità migrante, è opportuno sottolineare come la presenza straniera costituisce, oggi, una quota significativa dell’offerta imprenditoriale e una componente rilevante della demografia industriale, avendo assunto negli anni della recente recessione un ruolo e un peso relativo di importanza crescente.

Sono, infatti, numerose le iniziative a sostegno di aspiranti imprenditori e a supporto dell’avvio d’impresa, anche se si tratta perlopiù di Enti del terzo settore no profit che offrono servizi di formazione, mentoring e orientamento con destinatari in particolare gli aspiranti imprenditori di origine straniera. Oltre, infatti, ad avere una debole cultura di impresa nel nostro Paese, l’aspirante imprenditore in generale ha altresì una scarsa formazione professionale, proprio perché magari privo di un adeguato percorso di tirocinio professionale o di affiancamento. Non va dimenticato che gli imprenditori o aspiranti imprenditori di origine straniera hanno spesso una conoscenza sommaria del contesto normativo in cui si muovono, in particolare in materia amministrativa, fiscale e previdenziale. Ciò li rende fragili e possibili prede di azione di intermediazione speculativa e criminale.

I problemi e le perplessità che coinvolgono gli aspiranti imprenditori migranti sono molteplici, perlopiù legate al bilancio personale e all’accesso al credito. Nell’ambito del bilancio personale, a detta delle donne intervistate, le spese che pesano maggiormente nella prima fase di avvio di un’impresa, sono legate ai bisogni primari dell’alloggio e dell’alimentazione, oltre alle spese legate alla crescita dei figli – tutte le donne da me intervistate vivono in Italia con i propri figli. A ciò si aggiunge l’altra esigenza fondamentale alla quale vengono destinate parte delle risorse del bilancio personale, ovvero l’invio di denaro al Paese d’origine.

Donne immigrate al lavoro (da Il riformista)

Donne straniere imprenditrici (da Il riformista)

Le rimesse, considerate da tutti i migranti un’esigenza primaria, possono naturalmente variare sia nell’entità – in base alla capacità reddituale del migrante oppure a seconda del fatto che i figli vivano in Italia o non – sia nella destinazione – utilizzate per investire nel Paese d’origine, oppure per sostenere i consumi dei parenti rimasti all’estero. Quello che resta dopo aver assolto alle spese sopra citate, viene destinato al risparmio che, però, a detta dei migranti, risulta essere piuttosto ridotto. Eppure, sebbene molti lamentino il costo della vita all’interno della società italiana, rivelano con chiarezza che il mercato del lavoro dei Paesi di provenienza presenta ancora più difficoltà rispetto a quello italiano e, proprio la carenza di occupazione, viene identificata come principale motivazione che ha spinto alla migrazione. Si aggiunga che le difficoltà per l’accesso al credito e ancor più per l’avvio d’impresa sono innumerevoli.

Malgrado il mercato del migrant banking oggi sembri mostrare rilevanti potenzialità di sviluppo in Italia e a livello europeo in generale, il settore bancario non offre adeguate opportunità di finanziamento alla microimpresa – scala di attività entro la quale si possono collocare la gran parte delle imprese condotte da migranti. Oltre ad una scarsa trasparenza gestionale, modesta capacità di pianificazione dello sviluppo d’impresa e ridotte garanzie per il neo imprenditore, sembrerebbero essere altresì presenti delle difficoltà di relazione e interazione tra migranti e attori dell’offerta, date da diversi fattori quali una non adeguata assistenza al cliente straniero e una complessa ed eccessiva documentazione burocratica  in cui i servizi stessi sembrerebbero essere poco fruibili e di difficile comprensione per lo straniero in difficoltà nell’utilizzo della lingua e della terminologia specifica del settore. È per tale motivo che molti aspiranti migranti spesso affermano di trovare una risposta più adeguata ai propri bisogni presso le finanziarie, dove rapidità, semplicità e flessibilità rendono più agevole la comprensione.

C’è anche chi, però, preferisce non utilizzare affatto prodotti di finanziamento convenzionali, ma limitarsi a risparmi accumulati in precedenza, sostegni finanziari da parte di amici e parenti o ancora meccanismi di credito informale all’interno delle comunità. Ciò è dovuto, oltre alla complessità dei sistemi bancari e finanziari, ad una diffidenza che, reale o supposta che sia, è comunque percepita da molti migranti. Ripetono spesso nel corso delle interviste:

«Anche nel nostro Paese non è facile ottenere un prestito, ma forse qui in Italia per noi è più difficile solo per il fatto che siamo stranieri, forse non si fidano di noi».

In ragione di ciò, al fine di favorire la bancalizzazione dei migranti, non sarebbe sufficiente offrire solo un buon prodotto o un buon servizio, ma sarebbe anche necessario creare delle relazioni in grado di superare la diffidenza e la sfiducia iniziale. La bancalizzazione del migrante deve essere “glocale”, deve cioè riguardare sia il Paese di origine sia quello di arrivo. Parliamo delle rimesse: “queste frutteranno davvero se ci sarà intermediazione non solo in Italia ma anche in patria. Infatti, i beneficiari della rimessa non devono avere il cash in mano, ma devono essere seguiti da chi può aiutare a gestire e investire quei soldi. Questo soggetto può essere una banca, ma anche una ONLUS o un esperto di microfinanza. Se si riuscisse a fare questo, si creerebbero microimprese e quindi si smuoverebbe l’economia e si produrrebbe lavoro.

Molti migranti, infatti, si mostrano ben disposti verso i prodotti di finanziamento in Italia proprio con l’obiettivo di un investimento nel Paese d’origine. In tal modo, si evidenziano strategie di risparmio/credito da una parte (Italia) e investimento/accumulazione dall’altra (Paese d’origine), in una sorta di progetto finanziario transnazionale [12]. Quello della transnazionalità e della cooperazione internazionale è un fenomeno assai vasto e complesso che oggi ha investito diversi settori, in particolare quello economico-finanziario. Avviare un progetto di cooperazione transnazionale comporta un investimento di tempo e di risorse, finanziarie e umane, da parte di tutti i soggetti chiamati in causa, giustificabile soltanto se produce risultati apprezzabili, migliori di quelli conseguibili da progetti sostenuti esclusivamente a livello locale. Rapportarsi con soggetti “estranei” al proprio contesto comporta lo sforzo di immedesimarsi con essi, aiuta ad assumere uno sguardo distaccato sul proprio mondo quotidiano, ad andare oltre ciò che è dato per scontato. Lo scambio delle informazioni, delle esperienze, dei metodi fa sì che quanto accumulato in anni di pratica quotidiana dai differenti contesti diventi patrimonio comune e condiviso. Solo in questo modo sarà possibile riscontrare benefici sia all’interno del Paese d’appartenenza sia d’arrivo, benefici che riguardano per l’appunto:

- la comprensione reciproca e transculturale tra i partecipanti e i territori;

- la capacità di agire in un ambiente internazionale;

- l’aumento del prestigio e della credibilità della struttura promotrice presso persone e istituzioni locali e non;

- la possibilità di avviare nuovi progetti d’impresa e nuove attività. 

44784-vog63Storie di donne migranti in Campania. Le interviste

Nella fase attuale della ricerca sul campo le donne immigrate da me prese in esame all’interno del territorio campano, sono provenienti dai Paesi dell’Est, in particolare di origine russa o ucraina, bulgara, ma anche donne d’oltremare come Argentina e Stati Uniti, spinte a lasciare il proprio Paese per diverse ragioni. In alcuni casi sono figlie di immigrate, seconda generazione che hanno visto le loro madri fare le badanti e che hanno fatto in modo di rendersi indipendenti e affrontare un percorso di imprenditorialità e di affermazione individuale, affrancandosi da stereotipi e pregiudizi.

Le storie di vita raccolte confermano quanto già emerso negli anni precedenti, ovvero quanto siano importanti le relazioni familiari, i legami sentimentali, il desiderio di soggettività e assertività. Le donne indulgono forse molto più degli uomini a raccontarsi; il pensiero narrativo (Smorti, 1997) [13]  sembra che appartenga loro molto più del pensiero logico astratto. Le memorie autobiografiche e la capacità di ricordare, la ricchezza e la selezione di quello che si racconta, sono il risultato di un delicato equilibrio biologico e culturale. Nei loro racconti non c’è posto per l’autocommiserazione, per l’incapacità di reagire opportunamente agli eventi. Il solo fatto di trovarsi in una nuova realtà, lontane dalle proprie abitudini e dai propri affetti, porterebbe moltissime donne a sentirsi disorientate e abbandonate, ma dai loro racconti emerge quanto questo le abbia solo rese più forti e pronte a fare di tutto pur di ottenere un piccolo riconoscimento per i sacrifici fatti. Sono storie di donne ostinate, capaci, resilienti che ci hanno creduto dall’inizio alla fine e che oggi possono ritenersi orgogliose e soddisfatte dei risultati ottenuti.

Forse una tra le personalità più forti, che abbiamo incontrato nella ricerca sul campo, è Leysan, laureata in legge che ha lavorato nel suo Paese come amministratrice di un grande albergo e poi è diventata quasi per caso un’estetista. Cittadina russa, nasce a Kazan, capitale della repubblica Tatarstan (di cultura tartara), che dieci anni fa ha deciso di trasferirsi in Italia e coltivare qui il suo sogno. Dice delle sue origini:

«Io sono musulmana, mio nonno parlava e scriveva arabo. Ma in Russia la religione musulmana è più aperta. I bambini ortodossi e musulmani vanno insieme a scuola e festeggiano insieme feste religiose. Viviamo pacificamente, ortodossi possono entrare nelle moschee. Kazan è l’unico paese in cui hanno creato un tempio che rappresenta tutte religioni. Questo per dimostrare che non c’è unica religione, Dio è uno. In questa chiesa c’è un lato per ogni religione. Non c’è bisogno di scontrarsi. Qui in Italia ogni 500 metri c’è una chiesa, mentre mancano strutture fondamentali come asili, centri di accoglienza, servizi essenziali per la popolazione. La Chiesa dovrebbe offrire questi spazi vuoti. Io ho sempre il Corano nella mia borsa, quando mi viene voglia prego, ma non ho bisogno di andare in moschea».

La sua storia è molto particolare e non racconta di una migrazione dettata da una necessità economica o politica, né di abusi o soprusi alla sua persona; al contrario, la sua è stata una scelta nata dal piacere di viaggiare e conoscere nuovi posti. Donna, madre, lavoratrice, è il classico esempio di donna dalle capacità e identità multiple che, partita dal nulla, è riuscita a costruirsi quello che lei stessa definisce un piccolo impero nell’ambito della cura e del benessere. Ha interiorizzato con consapevolezza la sua identità plurima, transculturale e pluridislocata, un esempio di transnazionalità.

«Sì, io cittadinanza russa, mio figlio Leonardo italiana. Non voglio neanche chiedere cittadinanza italiana perché non mi cambia niente, poi io mi sento cittadina del mondo. io… guarda, io non sono cittadina russa, cittadina italiana, io vivo… sono cittadina mondiale, non c’ho limiti. Io sempre dico “Come sei tu, così è il mondo intorno a te”. Io se vado in Africa guadagno. Non c’è un contesto… paese povero, paese ricco. Sei tu che spingi mondo, sei tu che cambi mondo».

Ad oggi, infatti, Leysan gestisce due rinomati centri estetici, uno a Capri e uno a Napoli, e il suo team è composto da dieci promettenti giovani, stranieri e italiani. Quando decido di incontrarla, l’aspetto alla chiusura fuori dal suo salone, Rada Nails, nella nota piazzetta di Capri. Lei mi raggiunge e mi invita a prendere da bere, così iniziamo a parlare. Mi chiarisce la sua complessa nazionalità e i suoi inizi lavorativi:

«Sì, avevo già lavorato in centro estetico, però mai studiato di estetica, sono laureata in Giurisprudenza. Prima era direttore di un albergo di lusso in Russia, conosco bene anche Putin, venivano tutti da noi. Io venivo da capitale musulmana. Io sto in Russia, però arrivo da paese che si chiama Tatarstan e come nazionalità mia no russa, sono tartara. Città mia ricca, ricca, ricca, petroliera. Quando licenziata da albergo andavo sempre a fare unghie in centro estetico. Pensato “perché no imparo?” Così fatto un corso di tre giorni, imparato a fare unghie e aperto primo studio in mia città. Dopo di che quando so venuta qua, pensava “Cosa posso fare qua?”, perché mi scocciava stare senza fare niente e ha chiesto mia amica e gli dico no portato niente, né vestiti, niente, ha portato solo prodotti, faccio guadagno e comincio a vivere così».

Si dipana nel suo racconto un intreccio di assertività e determinazione, il voler essere artefice di una autonomia economica che non sia legata ad un lavoro dipendente, dunque la scelta di una migrazione che nasce già come desiderio di affermazione e non da un bisogno devastante scaturito dalla povertà, non una fuga scomposta e disperata ma una partenza verso una opportunità. La sua gestione manageriale è dettata da una forte dimensione di coinvolgimento tra pari, racconta lei stessa lo stile di conduzione della sua impresa e l’atmosfera del suo team:

«Capo italiano comanda “Fai quello, fai quello…”, invece da noi diciamo se tu crea questa atmosfera che per me nel mio studio sono tutti proprietari di locale, non sono io capo. Io mi ni vado, sei tu proprietaria perché questo è approccio di lavoro da noi… tu non è che vai a lavorare per qualcuno, tu lavorare come fosse un locale tuo, che tu sei proprietario e devi migliorare tutti aspetti che c’è da migliorare perché un domani pure tu diventare proprietario di un centro estetico».

Per lei è importante creare un contesto in cui nessuno si sente capo di nessuno e ci si sente come una famiglia, i ruoli si mescolano come le opportunità reciproche di crescita lavorativa tra straniero e italiano:

«Ho dieci ragazze tra italiani e stranieri che lavorano con me tra Napoli e Capri e io voglio bene a tutti come figli miei. Sai cosa però? Voi ragazzi italiani siete troppo pigri. Quando io proporre a ragazze “Volete percentuale?”, tipo puoi guadagnare duemila euro, tremila euro, quattromila euro, ragazza italiana dice no, vuole i suoi mille euro, vuole le sue otto ore di lavoro».

Si meraviglia e si rammarica della poca intraprendenza e resistenza alla fatica degli italiani e indulge a raccontare la sua storia:

«Io sono venuta da zero, no portato niente, in tasca avevo 1500 euro, no portato neanche i vestiti, niente, niente, niente. In dieci anni creato tutto quello che ho creato, impero chiamo io. E speriamo…. speriamo non fermare che dobbiamo andare avanti perché dobbiamo migliorare questo mondo».

Arrivare con nulla e ritrovarsi con tutto. È in queste parole che si nasconde la vera resilienza, questa capacità innata di far fronte in maniera positiva ad eventi burrascosi, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle mille incertezze e difficoltà, di ricostruirsi, trasformarsi, migliorarsi, restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza mai alienare la propria identità. Leysan è consapevole della propria resilienza, della propria forza e ostinazione, ma è anche grata per la fortuna che ha avuto nell’incappare in questa terra meravigliosa qual è l’Italia. Da osservata diventa osservatrice e mi racconta le sue riflessioni sull’Italia, mi restituisce immagini e singolari considerazioni tra stereotipi e riconoscenza.

«In Italia devi avere paura di pensiero perché qua si avvera tutto in tre giorni, perché quando tu inizi a pensare in modo giusto, qua accade tutto. Perciò quando voi state qua, quando voi camminate per queste terre dovete sapere che queste terre italiane sono state baciate da Dio e le cose che avete voi non ci stanno da nessuna parte. Un pezzo così piccolo di terra e avete tutto voi».

Un’ultima riflessione la riserva alla sua condizione di donna immigrata imprenditrice e dalle sue parole si evince la profonda resilienza che la contraddistingue:

«Io voglio dire a tutti che non dovete avere paura di affrontare niente. Quello che vi accade è per un motivo, bisogna prendere il meglio e fare di tutto per migliorare il nostro mondo, partendo da Napoli. Lo so, non è facile soprattutto quando si è donne in un contesto ancora patriarcale. Poi diciamocelo, essere una donna straniera imprenditrice è difficile, esserlo da mamma e moglie lo è ancora di più. La mattina mi sveglio e so che dovrò dare doppio di giorno prima e triplo rispetto a qualsiasi uomo. Ma non è un problema. Ci hanno create forti per questo».

Questa stessa consapevolezza di forza, assertività e resilienza è presente nei vissuti di Andriana, esempio di seconda generazione di migrante, di ricongiungimento familiare ai genitori immigrati anni prima e in particolare alla madre arrivata in Italia come badante. La sua storia è indicativa della trasformazione avvenuta nella migrazione femminile, in particolare dai Paesi dell’Est. Giovane neo imprenditrice, oggi Andriana gestisce una bakery, dai colori caldi e accoglienti, ad Airola, in una piccola cittadina del beneventano. Quando le ho chiesto se potevo farle alcune domande in merito alla sua vita e alla sua attività, si è mostrata fin da subito disponibile e affabile e, con il suo modo simpatico di alternare italiano e dialetto, ha iniziato a raccontarmi la sua storia, la vita di una ragazza vulnerabile e introversa che, in poco tempo, è maturata fino a diventare la donna audace e assertiva qual è oggi.  originaria di Tiraspol in Moldavia, è arrivata in Italia nel 2003 dopo che i genitori si erano già trasferiti qualche anno prima

«Mio padre ha fatto camionista per quarant’anni, poi è arrivata mia mamma, che ha iniziato come badante, e poi tempo un paio di anni, che ci voleva tempo per fare carte, siamo arrivate noi. Loro è una vita che stanno qua, già hanno cittadinanza».

Il suo impatto con la realtà italiana non è stato facile, in particolare con la scuola. Le differenze con la Moldavia erano profonde e si manifestavano in ogni occasione del vissuto quotidiano, dai vestiti al cibo. Del resto la sua infanzia è stata abbastanza serena e i motivi della migrazione familiare non sono dettati dalla miseria ma dal desiderio di avere una nuova opportunità. Racconta:

«Ho avuto infanzia bellissima, ho solo bei ricordi. Sai, mio padre non è venuto qua perché avevamo una vita difficile, mio padre ha sempre lavorato e siamo stati sempre bene. Il problema è nato quando ditta dove lavorava mio padre è fallita e quindi non è che si trovava tanto lavoro e quindi, essendo che mio zio stava qua e gli diceva di venire, mio padre venuto a vedere e, essendo che si è trovato bene, ha portato prima mamma e poi noi».

Sottolinea che è venuta in Italia per stare insieme ai suoi genitori e, dopo aver finito il liceo, ha iniziato a lavorare anche se saltuariamente. «Però volevo fare comunque qualcosa, non mi piaceva stare senza fare niente». Lo stare senza fare niente, di cui si parlava con Leysan, lo ritroviamo anche nelle parole di Andriana. Il bisogno incessante di rendersi utile, la voglia di migliorare e migliorarsi spingono moltissime donne ad inventare e reinventarsi continuamente con ciò che le è più congeniale: nel caso di Adriana attraverso la sua passione per la cucina.

Con l’aiuto di facebook, inizia a vendere le sue torte ma non basta: «Avevo sempre il pallino in testa di aprire un’attività tutta mia, non volevo dipendere da altri». Riesce ad ottenere un finanziamento per l’imprenditorialità femminile, rischia il tutto per tutto e apre la sua pasticceria. Ora, dopo due anni, ha anche del personale al suo servizio e c’è anche spazio per i dolci moldavi. É determinata, ha progetti di ampliamento della sua attività, le chiedo alla fine dei nostri incontri, un consiglio per chi volesse intraprendere una attività come la sua, mi risponde: «Di non arrendersi mai. Se hai una passione devi crederci fino alla fine, perché poi quando meno te lo aspetti qualcosa di bello succede sempre».

Donna al mercato (ph. Eligio Paoni)

Donna al mercato (ph. Eligio Paoni)

Tra le molte donne provenienti dall’Est che ho incontrato, Ruxandra è stata forse la più difficile da intervistare, una donna riservata, dalle poche parole. Il suo carattere chiuso, quasi distaccato, non lasciava mai trapelare del tutto le sue emozioni e ad ogni domanda sul suo passato si notava la sua difficoltà nel rispondere, quasi avesse paura a rivelare qualcosa di troppo o quasi nascondesse una ferita ancora aperta nella sua memoria. Più semplice, invece, è stato chiederle della sua attività, come se la sua intera vita fosse iniziata da quel momento, quel lontano 2012 quando, di punto in bianco, decise che il suo destino non sarebbe stato quello di badante, intrapreso da sua madre, bensì un futuro che lei stessa avrebbe plasmato a suo piacimento. Oggi, infatti, Ruxandra gestisce ben quattro attività, tre market e una pasticceria, nelle zone del beneventano e del casertano, che vanno sotto il nome “La Tarancuta”.

Viene da Brașov, in Romania, vive da 14 anni in Italia. qualche anno prima la madre era venuta in Italia per fare la badante. Come in molte delle storie raccolte, la madre si allontana da un marito violento e alcolizzato, il nucleo familiare si spacca, il padre e il figlio restano in Romania, mentre Ruxandra raggiunge la madre, non ha figli e non è sposata, ma non ne sente la necessità. Le sue scelte l’hanno portata a preferire una vita meno standardizzata, dove il lavoro è diventato il centro della sua esistenza. Ciò non significa però che la sua scalata verso l’imprenditorialità sia stata più semplice e meno sacrificata.

Ruxandra ha dovuto lottare come qualunque altra donna straniera per raggiungere il suo obiettivo e non si sente pentita delle sue scelte poiché ognuna di queste l’ha portata alla posizione in cui si trova oggi. Ha scelto tra maternità e lavoro ma non ha rimpianti:

«No, io e mio compagno non vogliamo figli, poi all’inizio sempre presa da troppo lavoro e i figli per quanto belli limitano un poco e io volevo solo pensare a lavorare. Quando arrivi senza soldi e senza un lavoro fisso, che non sai se puoi mantenere te, non puoi pensare di mantenere anche figli. Ora invece che lavoro c’è e soldi non mancano, ho quarantacinque anni e non sento desiderio. Mi bastano mie nipoti quando vado a trovare e poi ho ragazzi che lavorano per me che tratto come figli. Mi basta questo».

La realizzazione lavorativa è dunque il fulcro intorno a cui ruotano le sue scelte. Dopo un periodo in cui aiuta la madre come badante, sente la necessità del cambiamento e la voglia di fare altro. Così racconta:

«Quando sono venuta qui subito pensato che volevo fare altro, qualcosa che più mi apparteneva di semplici pulizie. Anche in Romania sempre voluto aprire un’attività tutta mia, ma complicato per tanti motivi, così quando mia mamma proposto di venire qui, subito ho accettato, ma perché in testa avevo altre cose, altre idee».

Ha una formazione universitaria in economia anche se non si è laureata. oggi possiede tre market e una torteria tra Montesarchio, Benevento e Santa Maria a Vico e li gestisce tutti da sola. Si sente soddisfatta, i suoi negozi danno lavoro a ben undici ragazzi e può permettersi di tornare spesso nel suo Paese: un esempio ancora una volta di trasmigrazione riuscita. Mi dice con un pizzico di orgoglio:

«Se penso da dove sono partita, da mio passato non proprio felice e che poteva aspettarmi futuro solo come badante, sono più che soddisfatta. Neanche nei miei più grandi sogni mi vedevo proprietaria di questa che posso chiamare grande catena».

Anche Ruxandra mi lascia con un’ultima riflessione sulle possibilità di realizzare i propri desideri:

«È possibile per tutti ottenere tutto, non solo per chi nasce già con soldi in tasca. Anche se hai brutto passato e pensi di non meritare niente di meglio, anche se vedi altri ottenere cose con più facilità e meno sacrifici, non è detto che sta meglio di te. Mio consiglio è di guardare ognuno proprio percorso e fare di ogni esperienza negativa dieci esperienze positive».

ultimaDai racconti emerge che la stragrande maggioranza crede ciecamente nella modernità e nel progresso, nella convinzione che l’evoluzione abbraccia e trasforma ogni giorno molti aspetti della nostra vita, inclusa la condizione femminile nella società. La maggior parte delle imprenditrici, oggi, non si sente più una minoranza da proteggere, ma una forza lavoro devota e instancabile, in grado di contare vantaggiosamente alla società. Nella mia esperienza sul campo ho avuto il piacere di confrontarmi con diverse situazioni e punti di vista. Dalla mia ricerca non emerge un “modello” base di imprenditrice poiché, pur rintracciando degli elementi simili, le figure di donne-imprenditrici che ho incontrato sono così complesse e ricche da non poter essere ricondotte ad un unico o a pochi modelli.

Leysan, Andriana, Ruxandra, hanno intrapreso strade imprenditoriali diverse, credendo ognuna nei propri obiettivi e/o capacità e ognuna imbattendosi nelle proprie difficoltà. Tutto ciò però è avvenuto partendo da un denominatore comune: l’essere straniere, un secondo fardello da portare accanto a quello di genere. Attraverso i loro racconti, però, ho potuto constatare quanto in realtà più che uno svantaggio per loro rappresentasse un valore aggiunto. Il semplice fatto di sentirsi cittadine del mondo, di non appartenere ad un’unica terra o cultura ma abbracciare e cogliere il meglio da entrambe, le rendeva già di per sé speciali, uniche, glocali. Tra loro, c’è chi ha scelto di muoversi verso l’Italia per curiosità, chi per desiderio di avventura, chi per necessità e chi semplicemente per scappare da un passato violento, motivazioni diverse che però hanno portato allo stesso fine, laddove l’arrivo da temporaneo è diventato permanente. Qui hanno saputo ricreare nuovi affetti, hanno saputo reinventarsi e mettersi in gioco, conoscere e perfezionarsi, senza però mai dimenticare da dove sono partite.

«Avere nulla e ritrovarsi con tutto» è stata la naturale conseguenza dei loro sacrifici e delle loro rinunce e ora, a distanza di anni da quella prima partenza verso l’ignoto o l’altrove, si ritengono fiere e fortunate per ciò che hanno ottenuto. Sono donne, mogli, alcune madri che della loro femminilità hanno fatto un’arma e della propria resilienza hanno tratto forza. Non sono più donne invisibili e la loro non è più una rivoluzione silenziosa. Sono donne fatte di carne, voce, idee e progetti e basta questo a renderle oltre che visibili, indispensabili. L’incontro transculturale produce glocalismi innovativi e le diverse appartenenze culturali vengono rimescolate come le diverse storie di vita dimostrano, contribuendo a fare dell’Italia un Paese sempre più transculturale.

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] A. Di Nuzzo, Minori migranti. Nuove identità transnazionali, Carocci, Roma, 2020.
[2] A. Di Nuzzo, La morte, la cura, l’amore, CISU, Roma,2009.
[3] M. Maffesoli, Du nomadisme. Vagabondages initiatiques, Libraire Générale Francaise, Parigi, 1997
[4] G. Sapelli, Antropologia della globalizzazione, Bruno Mondadori, Milano, 2008
[5] B. Ehrenreich, A. R. Hochschild, Donne globali, Tate Colf e Badanti, Milano, Feltrinelli, 2004.
[6] S. Sassen, Globalizzati e scontenti, il Saggiatore Milano, 2006
[7] M.P. Nanni, Rapporto immigrazione e imprenditoria 2016. Aggiornamento statistico, Ediz. Bilingue, IDOS Ricerche Studi Sociali, Roma, 2016.
[8] D. Frigeri, Osservatorio sull’inclusione socio-economica e finanziaria delle imprese gestite da migranti, Unioncamere, Roma, 2021.
[9] Centro Studi e Ricerche IDOS, Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2019-2020, Roma
[10] Fondazione ISMU, Ventisettesimo Rapporto sulle Migrazioni 2021, Franco Angeli, Milano,2022.
[11] M. Agier, Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità, Raffaello cortina, Milano, 2020
[12] https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/migranti_e_banche_marcocci
_la_vera_integrazione_si_ha_con_la_cittadinanza_economica_  Intervista 2 Gennaio 2012,
Marco Marcocci Presidente dell’associazione di volontariato che promuove l’inclusione finanziaria dei migranti. 
[13] A. Smorti, Il sé come testo, Giunti, Firenze 1997.

______________________________________________________________

Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani.  È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Migrazioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>