per l’italiano
di Rosario M. Atria
Sono trascorsi pochi anni da quando, nel 2015, l’Italia e il mondo hanno celebrato il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri: e allora, come oggi, nella 700a ricorrenza della morte, la ricostruzione puntuale della vicenda biografica e la ricerca delle ragioni dell’universalità del suo messaggio si segnalano tra le operazioni maggiormente in voga [1].
Che altro di nuovo si può dire a distanza di un solo sessennio? Nulla forse; o forse sì! Giacché la condizione nella quale l’umanità è frattanto sprofondata appare talmente eccezionale da consigliare il tentativo di ulteriori ri-attraversamenti della Commedia, indiscusso capolavoro del Sommo e apice di una tradizione letteraria, quella italiana, che di vette può vantarne in gran numero. Balena anzi il sospetto che, nel tempo pandemico, smarritasi l’umanità nella selva oscura di un interminabile presente distopico, più d’un utile consiglio questa giovinetta immortal, con i suoi sette secoli sulle spalle, possa ancora dispensarlo.
Perché? La risposta non può che esser di lapalissiana evidenza: i grandi classici non tramontano mai, sono sempre sorprendentemente attuali. E giova chiamare in causa l’eterno Calvino che, in un notissimo articolo scritto nel giugno 1981 su «L’Espresso» – poi confluito con mutato titolo, Perché leggere i classici, nella raccolta postuma di scritti saggistici pubblicata da Mondadori –, ha sintetizzato in quattordici definizioni, con impareggiabili lucidità e leggerezza, l’una e l’altra prerogative inconfondibili del suo stile, le principali ragioni per cui di tornare a confrontarci con certe opere capitali, capaci di inscriversi indelebilmente nella memoria collettiva e individuale, non possiamo proprio farne a meno [2]. È d’obbligo, tuttavia, un’avvertenza preliminare rispetto ai rischi che ogni tentativo di attualizzazione di testi (e testimoni) del passato nasconde, con facilità di scivolare in interpretazioni semplicistiche, se non in forzature concettuali.
Nella settima delle sue definizioni, Calvino ci ricorda che «i classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato» [3]. Opere aperte, opere-mondo, capaci di mettere in relazione il passato che hanno alle spalle con il tempo che verrà, il noto con il nuovo, fungendo da ponti e insieme da bussole.
Ebbene, la conoscenza della Commedia è patrimonio che precede la nostra lettura: quando noi, oggi, seguiamo Dante agens nel suo viaggio ultraterreno, assaporando – non senza fatica d’interpretazione – i versi poeticissimi di Dante auctor, sappiamo già dell’eccezionalità dei personaggi che affollano le tre cantiche. Di più: accade che taluni quadri risultino già noti, sia pure in modo impreciso e vago, giusta la memorabilità del poema, ovvero la sua pervicace persistenza nelle pieghe della memoria [4].
Se è vero che le grandi opere, in letteratura come nelle arti, comunicano al lettore significati diversi secondo la sensibilità, la cultura e gli orientamenti ideologici imperanti, non può sussistere dubbio alcuno – come suggerisce Ugo Dotti – che esse siano germinate da un preciso progetto del loro autore [5].
Nelle pagine dantesche della sua Storia della letteratura italiana, De Sanctis esprimeva una particolare concezione della poesia dantesca, quale espressione finale e sintesi massima di una visione del mondo condivisa da tutta una civiltà, quella medievale due-trecentesca: «[…] la Divina Commedia non è un concetto nuovo, né originale né straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L’Allegoria dell’anima e la Commedia dell’anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto»; mentre «nel Convito la sostanza è l’etica» – precisava il critico –, nella Commedia «il problema è rovesciato» e sostanza divengono «le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell’anima, il concetto di tutt’i misteri e di tutte le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo» [6].
Se queste indicazioni illuminano il rapporto che la Commedia instaura con la tradizione precedente, fornendo al contempo chiare indicazioni sulla fortuna dell’opera al tempo dell’autore e offrendo una prospettiva di lettura sulle ragioni che hanno spinto i commentatori a considerarla la maggiore delle opere medievali, meno concorrono a sciogliere il nodo della sua mirabile capacità di comunicare con i secoli a venire.
In altri termini: che Dante occupi il più alto scranno tra i poeti della civiltà comunale e che nella sua opera converga il patrimonio dell’intero Medioevo, non è argomento da discutersi, al di là del magistero di De Sanctis; ed è acquisizione parimenti consolidata che l’opera dantesca non si limiti ad essere la summa che ingloba la cultura del passato, intercettando essa con forza i fermenti di un presente caratterizzato da repentine trasformazioni, nel tempo del trapasso del potere dalla feudalità nobiliare all’alta borghesia dei commerci. Ma qual è la traccia che il capolavoro dantesco ha lasciato nelle culture che ha attraversato? Quale la traccia che potrà imprimere sulla nostra epoca?
Erich Auerbach, nel saggio Dante als dichter der irdischen welt, del 1929, affermava che l’altezza della poesia dantesca risiede nella sua fedeltà al reale, nell’evidenza empirica che essa comunica a chi la legge [7]. Non semplicemente un viaggio immaginario nell’aldilà, ma un attraversamento che porta il lettore a riconoscere nell’oltretomba l’immagine del mondo terreno e a misurarsi con la figura dell’uomo, colta e osservata nella sua storicità [8]:
«le anime dell’aldilà di Dante non sono affatto dei morti, ma sono piuttosto i veri viventi che attingono sì i dati concreti della loro vita e del loro essere atmosferico dalla passata vita terrena, ma mostrano questi dati in una completezza, contemporaneità, presenza e attualità, quali non hanno forse mai raggiunto durante il loro tempo sulla terra e quali certo non hanno mai rivelato a uno spettatore» [9].
La conoscenza dell’essenza umana passa attraverso gli incontri di Dante pellegrino, che – riprendendo ancora la lezione di Auerbach – non hanno luogo «in questa vita», dove proprio «l’intensità» dell’azione «rende difficile la consapevolezza di sé e quasi impossibile l’incontrarsi», ma non avvengono nemmeno «in un aldilà in cui la natura più personale dell’individuo sia spenta dalle ombre di morte scese su di lei» [10].
La Commedia, offrendo una galleria straordinaria di microstorie diverse (su ciascuna delle quali – vissuta o immaginata, vera verosimile o frutto d’artificio – si sono spesi prima di noi fiumi d’inchiostro, con esplicitazione del significato allegorico e del valore di esemplarità, e dopo ancora se ne spanderanno), inscena la riflessione dell’uomo su se stesso e sul suo destino: essa può dunque comunicare con ogni lettore, non ultimi noi lettori di oggi, proprio in ragione della forza poetica, della potenza plastica, della connotazione storica e, insieme, metafisica che Dante ha saputo infondere ai personaggi che vi campeggiano, nei quali è possibile riconoscere debolezze e vizi, virtù ed altezze, che sono dell’umanità di sempre. In ragione, ancora, di un coacervo di temi e motivi (il viaggio, la patria, l’esilio, l’avventura, l’anima), di sentimenti e desideri e stati e aspirazioni (l’amore, l’amicizia, la paternità, la nostalgia, la conoscenza) che sono motore della vita su questa terra e fondamento non sempre razionale delle azioni umane.
Non risulti ridondante, a sostegno di queste minime considerazioni, prelevare dal testo, nel quadro di una lettura giocoforza cursoria, talune tessere sparse (ordunque sì, le più inflazionate, perché su queste si è costruita la vasta popolarità dell’opera), muovendo dal verso incipitario di Inf. I e da quel sintagma universalizzante, «nostra vita», prima scintilla a partire dalla quale viene a definirsi l’atemporalità del poema, declinabile anche in attualità rispetto al nostro tempo: se vale anzitutto vita di Dante personaggio-poeta e dei lettori suoi contemporanei, è formula che ha il potere di chiamare in causa tutti i possibili lettori dell’opera, siano essi del Trecento, del Duemila come noi o di un imprecisato futuro.
Pilastri della ancor moderna intelligenza dell’opera restano il mistero dell’anima [11], la forza dell’amore (anche quando è colpevole, esemplato dalle tre terzine in ripresa anaforica di Inf. V, 100-108, con l’accorato racconto di Francesca e il pianto silenzioso di Paolo) e dell’amore divino su tutti (guardando ai due estremi dell’ultima cantica, di «colui che», in Par I, 1, «tutto move» e, nell’endecasillabo conclusivo dell’opera intera, Par. XXXIII, 145, è eternato come «Amor che move il sol e l’altre stelle»); il motivo politico (l’Italia «nave senza cocchier in gran tempesta» di Par. VI, 77), che si salda all’indagine psicologica dell’umanità di tutti i tempi («superbia, invidia, avarizia», nel cui segno si chiude la profezia di Ciacco – in Inf. VI, 74-75 – non sono solo «le tre faville c’hanno i cori accesi» nella Fiorenza descritta da Dante esule, ma quei mali capaci di minare qualunque edificio sociale e politico, come peraltro «i sùbiti guadagni» stigmatizzati in Inf. XVI, 73, chiamano in causa, unitamente all’amata patria, ogni organismo che alla speculazione economica sacrifichi il valore antico dell’onestà); il tema del viaggio e della conoscenza, sintetizzato da quell’immagine superba del «folle volo» d’Ulisse (Inf. XXVI, 125), che Primo Levi riprenderà in Se questo è un uomo, quando dalla reclusione del lager racconterà al piccolo Jean, sperimentando la bellezza e l’insufficienza della memoria, dell’eroe che incita i compagni a navigare «per l’alto mare aperto» (Inf. XXVI, 100), oltre le soglie del mondo conosciuto [12].
La Commedia è poi – come a più riprese segnalato da Giulio Ferroni – uno straordinario campionario di espressioni e sintagmi connotanti l’Italia in senso geografico, etnico, linguistico, politico, morale [13]. Già nel canto proemiale (Inf. I, 106-108) – riprendendo Virgilio (Eneide III, 522-523: «humilemque videmus / Italiam») – Dante riconosce la lacerazione scaturente dal frazionamento in identità particolari e ci consegna il ritratto di un’Italia umile, secondo l’accezione morale del termine, cioè decaduta, immagine rafforzata dalle successive connotazioni di serva e misera (Purg. VI, 76 e 85). E, anche quando conia l’espressione bel paese, destinata a secolare fortuna, la inscrive nella fiera invettiva contro una delle tante realtà in cui essa è disgregata, Pisa, vituperio delle genti (Inf. XXXIII, 79-81) [14].
Insomma, se Carducci poté prendersela con il principe di Metternich – osservando che l’Italia, ancor prima che «una espressione geografica», dovesse considerarsi «un’espressione letteraria, una tradizione poetica» [15] – è perché, sulla scia di Dante, si è consolidata l’identità nazionale, venendo sancita l’unità sul piano culturale ben prima che su quello politico [16].
Unità letteraria, morale, politica, dunque, ma anche – e forse primieramente – linguistica. L’immagine di Dante come «padre della lingua e della letteratura italiana» si salda all’immagine di Dante come primo costruttore della nostra tradizione nazionale: come ha osservato Carlo Dionisotti, del resto, dopo Dante non può più sussister questione in merito a quale sia la lingua comune d’Italia [17].
E vien da osservare, con Eco, che se, in anni a noi vicini, Benigni ha potuto proporre la lettura pubblica della Commedia è perché «Dante è linguisticamente attuale» [18]; l’operazione da lui condotta, attraverso una quanto mai efficace spettacolarizzazione dell’esegesi, ha avuto il merito di richiamare l’attenzione su un impegno etico-culturale di riforma delle umane coscienze, progetto eternamente valido ed oggi più che mai necessario [19].
Tante le molteplici ragioni che devono indurci a leggere e rileggere, indagare, approfondire e tramandare la Commedia: tornare alle radici della nostra italianità, riconoscendoci figli di una tradizione non comune, la cui eccezionalità assai spesso ci sfugge, venendo invece esaltata a livello mondiale; esercitarci a riconoscere il vizio, il malcostume, la corruzione, riscoprendo il valore della virtù e della retta via, in un orizzonte celeste o semplicemente terreno; ridestare l’aspirazione alla segreta complessità dell’umano e alimentare l’amore per il sapere, pur sorretto dal monito che esistono dei limiti da non travalicare. Il desiderio di conoscenza suprema condusse Ulisse al folle volo, perché essa è ontologicamente preclusa all’uomo, è sacrilega curiositas, peccato di superbia, sfida al limite imposto e, inesorabilmente, thanatos. Un insegnamento che – segnati da un’emergenza planetaria senza precedenti, frutto di scellerate scelte politico-economiche che hanno violentato l’ambiente naturale e le nostre società in nome di un cieco profitto, e sempre più schiacciati da un’accelerazione tecnologica sbandierata come inevitabile, necessaria e salvifica – tutti quanti dovremmo tenere bene a mente. Senza più starcene con le mani in mano, ma rivendicando alla cultura umanistica il diritto-dovere di tracciare rotte di salvezza e immaginare un nuovo ordine che ci riconduca tutti all’invocata luce. Magari a partire dalla difesa della lingua di cui Dante è stato il padre, muovendo dall’orgoglio di utilizzarla nella sua ricchezza e dalla volontà di opporsi all’imperversare degli anglismi innecessari.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Cfr., tra i tantissimi contributi apparsi ultimamente, A. Barbero, Dante, Bari-Roma, Laterza, 2020; A. Casadei, Perché Dante non è più soltanto un classico, in Id., Dante. Storia avventurosa della ‘Divina Commedia’ dalla selva oscura alla realtà aumentata, Milano, Il Saggiatore, 2020: 145-186; F. De Nicola, La ‘Divina Commedia’: un’attualità di 700 anni, in Id., Dante tra noi, De Ferrari, Genova, 2020: 9-39.
[2] I. Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, «L’Espresso», 28 giugno 1981: 58-68; poi in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 2009: 5-13.
[3] Ivi: 7-8.
[4] Ha osservato Gianfranco Contini che «se esiste un criterio per misurare quella discussa categoria che è la grandezza di un poeta, esso non può che essere la sua traducibilità […] da un sistema culturale in un altro»: cfr. G. Contini, Un’interpretazione di Dante (1965-66), in Id., Un’idea di Dante, Saggi danteschi (1970), Torino, Einaudi, 2001:72. Esiste un sottile legame tra memoria e memorabilità di un testo, essendo il «passaggio nella memoria» un «riflesso storico dell’oggettiva memorabilità» dello stesso (ivi: 74).
[5] U. Dotti, La Divina Commedia e la città dell’uomo. Introduzione alla lettura di Dante, Roma, Donzelli, 2006: 129.
[6] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, con introduzione di R. Wellek, Milano, Rizzoli, 2006: 215.
[7] E. Auerbach, Dante, poeta del mondo moderno (1929), in Id., Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2008: 82. Cfr., anche D.M. Pegorari, Il Dante di Auerbach, in Id., Il codice Dante. Cruces della ‘Commedia’ e intertestualità novecentesche, Bari, Stilo: 49-63.
[8] All’auerbachiano «realismo figurale cristiano, come fondamento della poesia dantesca» e tratto eminente di attualità si è riferito anche Edoardo Sanguineti, che a metà degli anni Sessanta, in occasione della ricorrenza del settecentenario della nascita di Dante, ha indicato nell’inesauribile carica di realismo il tratto fondante dell’atemporalità della Commedia: cfr. E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze, Sansoni, 1966: 4.
[9] E. Auerbach, Dante, poeta del mondo moderno, cit.: 123.
[10] Ivi: 122.
[11] Per quest’aspetto, tra i contributi più recenti, cfr. R. Morabito, Da Dante agli umanisti, in Id., Dante e dopo. L’idea della scrittura tra Medioevo e Umanesimo, Roma, Carocci, 2018: 11: «Per Dante l’anima non è un essere astratto: impercettibile al tatto (una «vanità che par persona» Inf. VI, 36), ha una sua concretezza, una sua corporeità: la si può vedere, se ne può sentire la voce e con lei si può interloquire».
[12] Cfr. P. Levi, Il canto di Ulisse, in Id., Se questo è un uomo (1947), Torino, Einaudi, 1989: 98-103.
[13] Cfr. G. Ferroni, Prima lezione di letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari, 2009: 10-12, 91-95; Id., L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della ‘Commedia’, Milano, La nave di Teseo, 2019.
[14] Altre occorrenze del termine «Italia» si rinvengono in Inf. XX, 61-63; Purg. XX, 67-69; Purg. XXX, 85-90; Par. XXI, 106-111; Par. XXX: 131-138.
[15] G. Carducci, Presso la tomba di Francesco Petrarca, (1874), in Id., Opere, ed. nazionale, vol. VII, Discorsi letterari e storici, 1935: 346.
[16] Cfr. M.S. Sapegno, «Italia», «Italiani», in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. V, Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986: 169-172. Su Dante e l’identità nazionale, cfr. anche il recente libro di A. Cazzullo, A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia, Milano, Mondadori, 2020.
[17] Cfr. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967.
[18] U. Eco, Recitare Dante, in R. Benigni, Il mio Dante, Einaudi, Torino, 2010: 6.
[19] Per Dotti è questa la «grandiosa tematica che sta al fondo di tutto il poema» e su cui si fonda con originalità indiscutibile il disegno del Paradiso: «La sua forza noi abbiamo creduto di avvertirla in quel vigore etico-politico che, sostenuto dalla certezza di avere finalmente conquistato la verità mediante la fede, pone il poeta nelle condizioni di guardare al mondo con l’occhio di Dio e di giudicarne la storia non solo, o non tanto, per semplicemente condannarla, ma per riformarla e rinnovarla. In questo senso, potremmo persine concludere, la poesia di Dante non cessa di risuonare come una «poesia manifesto» (U. Dotti, La Divina Commedia e la città dell’uomo, cit.: IX-X).
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Rosario M. Atria, dopo la laurea magistrale con lode in Letteratura all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo. Dal 2014 è, presso lo stesso ateneo, cultore di Letteratura italiana. Autore di studi sulla poesia italiana del Due-Trecento, sul romanzo storico, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento e del Duemila, si interessa anche di storia e letteratura archeologica della Sicilia e di questioni mediterranee. Dal 2017 è Presidente della Società Dante Alighieri di Castelvetrano e promotore di molteplici attività culturali. Ha redatto diverse voci per il Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec. XVIII, edito nel 2018 in dodici volumi, a cura di F. Armetta, per i tipi dell’editore Sciascia. Tra il 2018 e il 2020 ha curato, insieme a I.T. Ginevra, per la collana “Gli Introvabili” de I Buoni Cugini Editori, la pubblicazione di diversi romanzi storici. Dal 2019 è direttore per Lithos, insieme a G.L. Bonanno e F.S. Calcara, ed editor-in-chief di «Tρισκελής. Collana mediterranea di storia, letteratura e varia umanistica», progetto editoriale che ha contribuito a fondare.
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