di Mariano Fresta [*]
Nell’Inferno di Dante il sostantivo ronciglio e il verbo che da questo deriva, arroncigliare, sono i termini su cui poggia buona parte della grottesca sceneggiata tra diavoli e dannati, messa in atto nei due canti (XXI e XXII) relativi alla quinta bolgia, luogo dove i barattieri espiano le loro colpe immersi per l’eternità nella pece bollente.
Le prime due ricorrenze sono nel canto XXI, 71: volser contra lui tutt’i runcigli, dove il termine indica gli attrezzi con cui i diavoli tormentano e puniscono i peccatori che cercano di sfuggire alla pena; e nel seguente verso 75: e poi d’arruncigliarmi si consigli. La terza si trova nel successivo canto XXII, al v. 36: li arruncigliò le ‘mpegolate chiome, quando si narra del diavolo Graffiacane che cattura, ghermendogli con il ronciglio i capelli intrisi di pece, e immerge di nuovo nella pozza bollente il barattiere Ciampolo che aveva tentato di alleviare la sua sofferenza mettendo la testa fuori del liquido, come fanno le rane negli stagni. Poco più oltre, al v. 71, il sostantivo ritorna nell’episodio di un altro diavolo, Libicocco che, infuriato per la lentezza con cui Ciampolo ad arte si muove, preseli ‘l braccio col runciglio, strappandogli un lacerto, un pezzo di carne.
Ma che specie di attrezzo è questo ronciglio? Che forma e che funzione ha? Il Vocabolario Zanichelli alla voce ronciglio dà la seguente definizione: “ferro adunco per uncinare”, cui fa seguire i sinonimi “raffio, rampino, uncino”. La spiegazione dello Zanichelli corrisponde in linea di massima con quelle con cui tutti i commentatori della Commedia chiosano i versi citati. Dalle loro considerazioni apprendiamo che il ronciglio o runciglio viene inteso come una lunga asta di ferro, ricurva, che ha in cima un uncino. Un attrezzo simile può certamente avere la funzione di prendere qualche cosa da sollevare da terra e comunque da una parte bassa e portarla in alto, ma data la sua conformazione può realizzare questa azione solo se l’uncino entra nel corpo da sollevare, così come succede con l’arpione usato dai pescatori di tonni e di altri pesci di grossa dimensione.
Il verso 36 del canto XXII, però, ci parla di un attrezzo capace di attorcigliare i capelli impeciati di un dannato tanto da poterlo tirare su, operazione che è difficile se non impossibile da svolgere se l’asta è dotata di un solo dente anche se ricurvo. E difatti, come si può vedere, Gustave Doré nell’illustrazione dell’episodio disegna l’attrezzo con due rebbi, mentre tutti i commentatori della Commedia nello spiegare il tipo di strumento e l’azione di Graffiacane si limitano a ripetere quanto riporta il dizionario, che oltretutto riprende gli stessi termini usati da Dante, il quale lo indica sia col nome principale di runciglio, sia con i sinonimi raffio e uncino (XXI, 52 e 85; XXII, 69). Vista la contraddizione tra la funzione che l’attrezzo è chiamato a svolgere in altri luoghi dei due canti e quella descritta nel v. 36 del XXII, mi è sembrato opportuno fare una verifica semantica più approfondita. Per questa ragione ho consultato il Grande Dizionario del Battaglia; il risultato, tuttavia, non ha aggiunto altro di nuovo alla definizione dello Zanichelli.
Le definizioni dei due dizionari sembrano, infatti, essere tautologiche, e poiché sono prive di qualsiasi riferimento connotativo non ci aiutano a capire a che tipo di attrezzo Dante abbia voluto riferirsi. Il Battaglia, però, riporta in più, rispetto allo Zanichelli, citazioni di brani di diversi autori di vari periodi storici in cui compaiono il termine e la funzione che lo strumento svolge. Tra queste citazioni si trova anche la seguente:
… fra questi … vivi,
che ancor movean gli occhi non chiusi
ma palpitanti col ronciglio fitto
nella gola [1].
Sono versi tratti dalle Visioni di Alfonso Varano, poeta ferrarese del Settecento che Giacomo Leopardi inserì nella sua Crestomazia italiana. Questo esempio rafforza l’idea che il runciglio sia un’asta di ferro fornita ad una estremità di una punta simile a quella di una lancia, che può essere [con]fitta nel corpo di un uomo, ma non ci spiega il significato del verso XXII, 36.
Per risolvere l’aporia, oltre ad indagare nei dizionari della lingua italiana, c’è tuttavia sempre la possibilità di andare a rovistare nelle varie parlate locali in cui l’antica lingua toscana si è frammentata, e cercare soprattutto nei glossari relativi al lavoro contadino. Anche questo tentativo è stato fatto, con risultati che sembrano poter aiutare a sciogliere la questione.
Nella Val di Chiana, tra Arezzo e Chiusi, i contadini avevano un attrezzo, chiamato scarcatoio, ma anche runciglio, come in Dante, o runciglione, che serviva loro per scaricare il letame dai carri quando si concimavano i campi. L’attrezzo, simile al forcone usato per la raccolta del fieno e della paglia, aveva un manico lungo tanto da permettere di arrivare alla sommità del carico; inoltre non aveva i rebbi ricurvi, bensì disposti ad angolo retto e più robusti e grezzi di quelli del forcone; ciò lo rendeva molto efficace per tirare giù lo strame, più pesante e più difficile da manovrare dell’erba secca, e poterlo distribuire in cumuli nel campo. Scarcatoio era, però, il termine tipico della parlata chianina che conviveva con i sinonimi ronciglio e ronciglione, termini diffusi e largamente conosciuti nel mondo contadino di tutta la Toscana fino a quando l’agricoltura non si è trasformata radicalmente, relegando nell’oblio le tecniche tradizionali e gli strumenti relativi con le loro denominazioni.
Una testimonianza che la funzione del ronciglio fosse quella poco più su descritta ci è fornita da un illustre poeta come Giovanni Pascoli, attento ed acuto osservatore della vita e del lavoro dei contadini. La citazione riguarda un passo dei Poemi conviviali:
… E nudo un uomo traea giù da un carro,
presso la strada, con un suo ronciglio,
il pingue concio [2].
In questi versi il Pascoli, come è sua abitudine, ci dà un chiaro e puntuale esempio della funzione a cui era destinato l’attrezzo che, insieme con la denominazione comune nella Toscana, corrisponde esattamente allo scarcatoio in uso presso i contadini della Val di Chiana. Forse, in tempi lontani da noi, chi leggeva quei versi di Dante non trovava difficoltà ad identificare il runciglio dei diavoli con l’attrezzo che tutti potevano vedere addossato ad una parete della stalla; oggi dobbiamo accontentarci delle definizioni che ci danno il Battaglia e gli altri vocabolari di uso scolastico e famigliare.
Se tutte queste considerazioni sono fondate, allora possiamo ritenere che il ronciglio menzionato da Dante sia proprio lo scarcatoio, l’attrezzo che i contadini toscani usavano, fino a poco tempo fa, per scaricare il letame dai carri e che il poeta mette in mano a Graffiacane quando arronciglia le ‘mpegolate chiome di Ciampolo; solo uno strumento come lo scarcatoio può infatti, afferrandolo, attorcigliare i capelli di una persona per essere in grado poi di sollevarla (il Battaglia, a proposito del v. 75 del canto XXI, suggerisce che arruncigliare equivale a “ghermire con gli artigli”, tipico dei rapaci). Ovviamente lo stesso strumento può lacerare e asportare un lacerto di carne dal braccio del dannato.
Rimane, però, insoluta l’altra contraddizione, quella suggerita dai versi del Varano che vuole che l’arma sia conficcata nel collo tanto da ferire mortalmente una persona, come fosse un’asta di ferro fornita di una punta. Qui si può avanzare solo l’ipotesi che il Varano non avesse diretta conoscenza dell’attrezzo e che abbia usato il termine conosciuto attraverso la lettura di testi letterari (magari la stessa Commedia dantesca); oppure ipotizzare che strumenti non del tutto identici potessero essere indicati con diverse denominazioni sinonimiche, come i versi di Dante dimostrano. Beninteso: anche con un ronciglio si può eliminare una persona trafiggendogli la gola con un solo rebbio. Tra l’altro, mi ha fatto notare Giancarlo Cherubini, collega di insegnamento e tenace custode delle tradizioni contadine, che in occasione delle antiche jacquerie le armi dei contadini erano forconi e probabilmente roncigli.
È possibile a questo punto districare i nodi formatisi con l’aggrovigliarsi di più nomi? Una comparazione tra i sinonimi che abbiamo incontrato può darci una possibile e soddisfacente soluzione? Proviamoci.
Finora non abbiamo preso in considerazione il termine raffio usato da Dante in alternativa a ronciglio e al quale viene assegnato un significato equivalente dai dizionari. Secondo costoro esso è “arnese di ferro a denti uncinati, con manico, per afferrare oggetti [tale definizione si adatta perfettamente allo scarcatoio]; uncino di ferro, innestato”; e poi anche: “gancio in acciaio con manico metallico per arpionare il pesce”. Lo Zanichelli aggiunge che si tratta di un nome derivato dal longobardo krapfo, “uncino”: cioè, gancio. Alla luce di ciò, si può concludere che ronciglio e raffio vadano oltre la sinonimia e indichino nonostante qualche piccola differenza strutturale lo stesso attrezzo e che quindi Dante abbia potuto usare indifferentemente i due termini. Più difficile è dimostrare la fratellanza con uncino, specialmente quando lo si descrive come strumento per attorcigliare capelli e sollevare pesi. L’unica cosa che li può far stare insieme è che tutti e tre gli attrezzi finiscono con denti o rebbi uncinati, e nonostante il gancio ne abbia uno solo e gli altri due ne hanno qualcuno in più, essi possono essere considerati, se si può dir così, della stessa famiglia, magari un po’ allargata, e usati, quindi, come sinonimi.
Più semplice stabilire la differenza tra ronciglio/raffio e rampino: questo ha forma di una L e si usa generalmente fissato ad una parete per appendervi qualcosa. Solo la forma uncinata può permettere di usarlo come sinonimo dei primi due.
Se per capire cos’è ronciglio è necessario ricorrere alla comparazione tra le varie definizioni dei dizionari e a qualche termine del gergo contadino, l’analisi del verbo arroncigliare ci consente di allargare il suo campo semantico.
Nel toscano antico il verbo arroncigliare era usato anche metaforicamente per indicare situazioni poco ordinate e/o lavori fatti male. Mi informa ancora Giancarlo Cherubini che quando si «roncavano le fave» spesso venivano “arroncigliate”, cioè mietute senza cura, alla carlona, perché avendo i gambi troppo duri era difficile reciderli di netto con la falce, tanto che alla fine del lavoro sembravano tagliati con la roncola, uno strumento impreciso e grossolano, più adatto per le più consistenti piante legnose. Da questo modo di dire facilmente si passava alla metafora: se Giancarlo aveva lasciato la sua camera in disordine, sua madre lo rimproverava così: «Guarda che lavoro hai fatto: hai arroncigliato ogni cosa». Pare, dunque, che ci sia una certa affinità tra arroncigliare e roncare (e forse anche ronzare e arronzare?), dato che la roncola ha lama ricurva somigliante in punta ad un uncino; tra l’altro, col manico lungo può essere usata per afferrare un oggetto o un ramo d’albero e tirarlo in giù: come con lo scarcatoio si scaricava il letame dal carro.
C’è dunque nei verbi arroncigliare e [ar]roncare anche un significato che rimanda ad un’azione dagli esiti poco acconci, materialmente e moralmente. Lia Giancristofaro mi fa sapere che in Abruzzo il roncio è una cosa fatta male, “uno sgorbio, ma anche una ferita mal cucita, un moncherino rattoppato”. Da ciò discende che un attrezzo come il ronciglio, con il quale si ottengono risultati rozzi e non rifiniti, si può usare solo per operazioni basse e volgari, come scaricare il letame dal carro.
Queste considerazioni linguistiche sul ronciglio e su arroncigliare ci aiutano a capire meglio il senso dei termini usati da Dante e nello stesso tempo ci consentono di individuare il giudizio personale del poeta nei confronti dei dannati, in questo caso i barattieri, coloro, cioè, che traggono profitto dalle funzioni pubbliche di cui sono stati incaricati.
Dopo aver chiarito cosa fosse il ronciglio e cosa potesse significare arroncigliare, proviamo adesso a chiederci perché Dante abbia usato proprio questi termini. Se poniamo l’attenzione al contesto in cui essi sono collocati, possiamo infatti fare anche un’altra considerazione, non più riguardante il lessico ma l’austero senso morale di Dante. Egli si trova nella bolgia dei barattieri, nei cui confronti esprime un giudizio molto severo ritenendo fortemente immorale, oltre che illecito, ricavare profitti personali dagli incarichi pubblici (cosa che oggi, purtroppo, non ci scandalizza più); il poeta immagina per questi peccatori una pena divina crudele, quella di essere immersi in una grande pozza di pece bollente, dalla quale cercano di allontanarsi in qualche modo per avere un po’ di refrigerio; ecco perché stanno con la testa al di fuori del liquido, come le rane, e nuotano come delfini, col dorso arcuato rivolto in alto; sfruttano, inoltre, qualsiasi occasione che permetta loro di uscire dal bollore. Dante, infatti, coglie il momento in cui uno dei peccatori sta per scappare, ma un diavolo lo “arronciglia” per i capelli intrisi di pece e lo rimette in acqua come fosse una lontra. Per farlo il diavolo poteva servirsi di altri mezzi, ma usa proprio il ronciglio, lo “scarcatoio” che serve a rimuovere il letame: oltre alla pena divina, dunque, i peccatori in questo modo sono trattati da Dante con sommo disprezzo, non come esseri umani ma come letame, come materia schifosa e puzzolente. Il poeta non ha bisogno di molte parole per esprimere il suo sdegno e la sua disistima, semplicemente usa il verbo arruncigliare, che tutti allora potevano capire senza difficoltà. Oggi a spiegare quel termine occorre fare un po’ di storia agraria spicciola e riandare al tempo in cui in campagna lo scarcatoio era di uso comune e tutti sapevano quale fosse la sua funzione.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
[*] Devo qui ringraziare, per i cortesi e indispensabili suggerimenti che mi hanno elargito, il professor Giancarlo Cherubini di Torrita di Siena; Silvia Cassioli, scrittrice, nonché mia ex alunna; la professoressa Lia Giancristofaro dell’Università “D’Annunzio” di Chieti-Pescara.
Note
[1] I versi del Varano e la notizia intorno all’interesse che il Leopardi ebbe per questo poeta si trovano nell’Introduzione di Mario Fubini a Lirici del Settecento. Introduzione, a cura di B. Maier, I Classici Ricciardi, 1959.
[2] I versi del Pascoli appartengono ai Poemi conviviali – Il poeta degli Iloti – Il giorno, a cura di Giuseppe Nava, IV strofa, vv. 11-14, Einaudi, Torino 2008.
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.
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