Esuberanza immaginifica, estro creativo iconoclasta, inventiva lessicale, scavo psicanalitico, richiami etno-antropologici, allusioni simboliche. C’è di tutto in Horcynus Orca, il romanzo fiume che Stefano D’Arrigo consegnò a Mondadori nel 1974 dopo una lunghissima gestazione, uno dei casi letterari più eclatanti del nostro Novecento.
Cerchiamo di ripercorrerne la genesi premettendo alcuni dati biografici essenziali dell’autore [1]. D’Arrigo nasce ad Alì Terme (allora Alì Marina), un borgo sulla costa ionica del Messinese, il 15 ottobre del 1919. La sua famiglia non naviga nell’oro e il padre, quando lui è ancora piccolo, emigra in America. Stefano frequenta il liceo classico a Milazzo e la facoltà di lettere all’università di Messina e si laurea con una tesi su Hölderin, un poeta che l’attrae e di cui si avranno riflessi nella sua produzione letteraria.
Gli studi sono interrotti dalla chiamata alle armi: è sottotenente a Palermo durante la Seconda Guerra Mondiale. Nella metà degli anni Quaranta si stabilisce a Roma: si occupa di critica d’arte, scrive sui giornali, s’introduce negli ambienti artistici e letterari e fa amicizia, tra gli altri, con Renato Guttuso, Giuseppe Ungaretti, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano. Nel 1948 sposa Jutta Bruto, conosciuta all’università, musa e vigile critica delle sue opere.
Il 1950 è un anno cruciale: in una lettera alla moglie manifesta il proposito di scrivere un romanzo d’ampio respiro e, in occasione di una mostra del pittore romano Giovanni Omiccioli, cura il catalogo Omiccioli sino a Scilla che firma col suo primo nome Fortunato [2]. Nella sua presentazione descrive la dura vita dei pescatori («ulissidi») che, nella loro cruenta lotta contro i pesci, s’avventurano in «un pauroso viaggio di conoscenza»; è significativo che nella nota al catalogo ritroviamo identico l’endecasillabo che chiude Horcynus Orca: «Circoscritta ma disperata, vasta avventura quotidiana di questi pescatori che remano chini e assorti, in un gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetuto di condurre l’imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è il mare». Da queste righe, e non solo dall’endecasillabo che già gli risuona dentro, si può desumere come D’Arrigo abbia in mente il romanzo che pubblicherà dopo 25 anni di estenuante elaborazione.
Nel 1957 l’esordio letterario: dà alle stampe con l’editore Scheiwiller Codice siciliano [3], una raccolta di poesie che anticipa motivi presenti in Horcynus Orca [4] e che l’anno dopo è insignita del Premio Crotone (in giuria, tra gli altri, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda e Giacomo Debenedetti). Che Codice siciliano contenga in nuce il romanzo per il quale lo scrittore siciliano spenderà buona parte della sua vita lo si evince leggendo le poesie che evocano il suo singolare universo fantastico: in particolare in Sui prati, ora in cenere è richiamato il tema – centrale nel romanzo – del reduce della guerra che torna sconfitto dalla madre e vi è una variante del citato endecasillabo di chiusura di Horcynus Orca: «Desidero tornare spalla a spalla / coi miei amici marinai che vanno / sempre più dentro nei versi, nel mare». L’intimo nesso tra le due opere non sfugge a Giuseppe Pontiggia che nella quarta di copertina della successiva edizione di Codice siciliano (nel 1975 per i tipi della Mondadori nella prestigiosa collana dello Specchio) sottolinea come la silloge preannunci il romanzo
‹‹non solo per l’affiorare dei temi centrali, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma anche per i primi segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio che troverà nell’opera maggiore la sua realizzazione più completa››.
La prima stesura di Horcynus Orca risale alla fine del 1956 e agli inizi del 1957. Il testo, scritto in 15 mesi, s’intitola La testa del delfino e, con alcune revisioni, è inviato nel 1959 al premio Cino Del Duca riservato a opere in gestazione di cui s’intuisce il rilievo. D’Arrigo se l’aggiudica. Tra i giurati vi sono tantissimi nomi prestigiosi: Carlo Bo, Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Luciano Anceschi ed Elio Vittorini. Ed è proprio Vittorini – scopritore di talenti come pochi – che gli propone la parziale pubblicazione di quel testo nella rivista «Menabò» da lui diretta con Italo Calvino. D’Arrigo accetta e due brani del romanzo, ulteriormente revisionato, appaiono, nel 1960, sul numero monografico – il terzo della rivista – dedicato alla narrativa meridionale col titolo I giorni della fera [5]. La rivista però pretende che i brani siano accompagnati da un glossario per i tanti termini dialettali presenti. Il che fa andare su tutte le furie D’Arrigo, uomo dal carattere assai spigoloso [6].
Della sua iraconda reazione si ha testimonianza nella lettera che scrive al fedelissimo amico Rino Zipelli:
«Per completare ci mancava questa storia del Menabò a sconvolgermi: perché – ti dico in due parole – all’ultimo momento mi arriva – non da Vittorini, ma dalla redazione del Menabò – un elenco di vocaboli cui volevano mettessi accanto la traduzione. Una specie di vocabolario, capisci? Insomma, una pazzia, una cretina pazzia. Io nemmeno gli risposi […]. Vittorini, ho saputo, m’ha cercato con telefonate per tutta Roma […] voleva spiegarmi la cosa? Che cosa? Io ho visto vocaboli, glossario e sono diventato una belva. Torno, trovo un espresso dal Menabò, dentro l’elenco dei vocaboli tradotti – non si sa da chi – e inviatomi perché lo visionassi come, capisci?, fossi la vedova di me stesso defunto».
L’autore sospetta che in quell’iniziativa vi sia lo zampino di Guttuso col quale aveva rotto l’amicizia. Invia un telegramma a Calvino esprimendogli il suo deciso diniego e pretendendo che, nel caso di pubblicazione del glossario, vi sia un’avvertenza ai lettori che li informa della mancata accettazione dell’autore. Il glossario è pubblicato e ai lettori è comunicata la contrarietà dell’autore; nella nota di presentazione de I giorni della fera infatti si legge:
«È un testo dotato d’una sua riottosa, grezza ma talora elaboratissima forza, come immagini e come lingua – una lingua ampiamente intrisa di voci dialettali; tanto che la redazione del Menabò – contro lo stesso parere dell’autore – ha creduto opportuno corredare il testo di un glossario».
Potremmo chiederci perché tanto accanimento in D’Arrigo contro il glossario in tempi, diversissimi dagli attuali, nei quali le incursioni dialettali nella prosa costituivano eccezioni e perciò potevano disorientare i lettori. Ma, a parte il temperamento dell’autore incline alla polemica e per nulla alla mediazione, D’Arrigo è consapevole di avere inventato con Horcynus Orca una lingua efficace ed espressiva che non andava confusa col dialetto da cui comunque trae diversi lemmi; come lui stesso dichiarerà in un’intervista concessa nel 1966, la lingua a cui dà vita è un «italiano rinvigorito dal dialetto, senza essere una fusione tra i due linguaggi». Si tenga conto peraltro che l’esigenza di un glossario – oggi anacronistica – era più avvertita nel testo de I giorni della Fera – che Vittorini avrebbe voluto pubblicare integralmente e non in due soli capitoli – in cui i termini di derivazione dialettali abbondavano.
Se si raffrontano le pagine de I giorni della fera e di Horcynus Orca, come hanno fatto alcuni studiosi, si nota un’evoluzione linguistica che conduce a una sensibile diminuzione di lemmi tratti dal siciliano e a un più convinto ricorso a costrutti sintattici dialettali a testimonianza di una assai meditata ed elaborata ricerca nella scrittura linguistica e lessicale del suo capolavoro. A proposito Pierino Venuto sostiene «che gran parte – l’85% – di quei lessemi ritenuti da Vittorini e dalla redazione di Menabò eccessivamente dialettali permangono nella stesura definitiva» [7] perché l’autore «all’interno del testo riesce sempre ad offrire il corrispettivo significato tale da renderli intelligibili ai lettori», mentre «su circa il 15 % di lessemi prettamente dialettali (24 su 145) D’Arrigo interviene in modo deciso con l’eliminazione o l’adattamento fonomorfologico all’italiano» [8].
I due capitoli de I giorni della fera suscitano un notevole interesse tra gli addetti ai lavori. La notizia che quelle pagine fanno parte di un testo innovativo di sicuro successo gira tra le maggiori case editrici italiane. Nello stesso anno dell’assaggio offerto dalla rivista di Vittorini e Calvino, Arnoldo Mondadori propone a D’Arrigo la pubblicazione del testo. Da quanto D’Arrigo scrive a Zipelli in una lettera del 26 ottobre 1960, Mondadori la spunta sulla più assortita e titolata editoria italiana:
«Mondadori è venuto appositamente a Roma per concludere, perché appena uscito il “Menabò”, prima Einaudi, poi Garzanti, poi Feltrinelli mi hanno fatto offerta di pubblicare il romanzo da loro. Mi dicono che non è mai successo di un fatto simile, di quattro editori (e quali) che si offrano insieme di pubblicare un romanzo».
Che qualcosa di simile non sia mai successo, è vero, e ciò rende ancora più eclatante il caso letterario di Horcynus Orca: basti pensare alle difficoltà a essere stampati cui si sono imbattuti fior d’autori e romanzi poi entrati di diritto nella storia della letteratura e alle traversie editoriali, solo pochi anni prima, de Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. D’Arrigo dice sì e invia a Mondadori il dattiloscritto «definitivo» – ora intitolato «I giorni della fera» – nel 1961. «Definitivo» si fa per dire perché l’editore gli sottopone le bozze per la revisione nel giro di un mese, ma D’Arrigo lo fa aspettare per oltre dieci anni: una modifica dopo l’altra tra violente emicranie e crisi epilettiche. Walter Pedullà, tra i maggiori sostenitori dell’opera fin dall’inizio e curatore della presentazione delle ultime edizioni, è cattivo profeta annunciando che «il 1961 sarebbe stato l’anno di D’Arrigo». Chi invece predice tempi lunghi nella realizzazione del romanzo è Vittorini che conosce la pignoleria, le stranezze di un autore di singolare bizzarria e il testo de I giorni della Fera; nella Notizia su Stefano D’Arrigo pubblicata sul Menabò accanto al testo de I giorni della fera, lo scrittore siracusano scrive:
«Quanto ora pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di una “work in progress” ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa essere soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio».
Mondadori, che ha una pazienza straordinaria e crede nel romanzo, non demorde, lo sostiene economicamente e lo sprona: «Ho cominciato con D’Annunzio e voglio finire con D’Arrigo» gli dice per incoraggiarlo. L’8 novembre del 1974 il tanto atteso annuncio dello scrittore siciliano: «Ho definitivamente alzato la penna dal libro». Nel marzo del 1974 il romanzo è nelle librerie italiane. La critica si divide: per alcuni è un autentico capolavoro, per altri un romanzo pretenzioso. Maria Corti lo definisce un «poema epico in prosa», Pedullà è il più convinto estimatore, Primo Levi, per quanto prediliga tutt’altra scrittura – chiara e comunicativa – confida: «Eppure mi piace, non mi stanco di rileggerlo e ogni volta è nuovo». Pontiggia, che da consulente di Mondadori ha seguito la redazione del romanzo e ne scrive la presentazione alla ristampa del 1982, lo considera ‹‹un mitico ed epico poema della metamorfosi. Metamorfosi che non solo sconvolge il paesaggio, devastandolo con le ferite della guerra, ma intacca la coscienza dei pescatori, trasformandoli in speculatori […] e che imprime un corso imprevedibile al linguaggio di D’Arrigo››. Geno Pampaloni sul Giornale lo definisce un capolavoro «grandioso, sofferto, solenne»; per Lorenzo Mondo della Stampa con D’Arrigo «la letteratura assume il valore di un’esperienza assoluta, totalizzante»; Giuliano Gramigna sul Giorno acclama il «lungo viaggio tra mito e romanzo» intrapreso da D’Arrigo con Horcinus Orca.
Esprime riserve, per quanto vi riconosca limpidezza estetica, Pietro Citati che sul Corriere della Sera scrive: «[D’Arrigo] ha rovinato il suo bellissimo libro perché si è inconsciamente convinto che l’ispirazione poetica sia una forma di ossessione o di droga, con la quale intontire il lettore e se stessi». Enzo Siciliano lo stronca con un articolo sul Mondo che s’intitola «Quest’Orca la cucino in fritto misto» e considera i suoi personaggi evanescenti e sciatti (e chissà se in questa bocciatura vi sia l’eco del risentimento del suo amico Pier Paolo Pasolini [9], che D’Arrigo aveva conosciuto partecipando a un suo film e sul quale aveva espresso un giudizio negativo).
Dovranno aspettarsi altri dieci anni per vedere pubblicato un altro suo romanzo. Cima delle nobildonne [10] esce nel 1985 per Mondadori, ed è un romanzo molto diverso dal primo perché assai più breve e per i temi trattati sebbene, come Horcinus Orca, sia ricco di richiami simbolici legati alla vita e alla morte. Il romanzo vincerà più di un premio ma oggi, dimenticato, è introvabile. Nello stesso anno D’Arrigo concede un’intervista (evento eccezionale per un uomo per quanto eccentrico molto riservato qual era) a Stefano Lanuzza [11] nella quale, soffermandosi sulla sua poetica, si legge, tra l’altro, con riferimento alla sua ricerca linguistica: «Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall’obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi di testo – restino un fondamentale punto di filtraggio delle lingue del mondo». Ma il suo romanzo rimane Horcynus Orca, alla cui stesura ha dedicato buona parte della sua vita: se non bastasse, nel 1989 ne scrive la riduzione teatrale rappresentata al festival di Taormina con la regia di Roberto Guicciardini.
Purtroppo si vive una volta sola e l’arco dell’esistenza è comunque limitato. Diversamente D’Arrigo avrebbe scritto un altro romanzo, «un’opera che sarebbe pari e diversa da Horcynus Orca» [12] come confida in una lettera a Zipelli del 30 settembre, rammaricandosi di non avere più la salute di una volta e vent’anni a disposizione. E ha ragione: nemmeno un anno dopo, il 2 maggio 1992, D’Arrigo esce di scena dalla vita nel modo più silenzioso, trafitto dall’Orca nel sonno.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Per quanto D’Arrigo abbia detto pochissimo di sé, la sua biografia assume rilievo perché strettamente legata al suo capolavoro Horcynus Orca.
[2] D’Arrigo F., Omiccioli sino a Scilla, Studio d’arte Palma, Roma, 1950.
[3] D’Arrigo S., Codice siciliano, Scheiwiller, Milano, 1957.
[4] D’Arrigo S., Horcynus Orca, Mondadori, Milano, 1974.
[5] D’Arrigo S., I giorni della Fera, in Il Menabò di letteratura, 3: 3-109, gennaio1960.
[6] Balzelli.I , Dalla “Fera” all’ “Orca”, in Critica Letteraria, a. III, f. 2: 287-310.
[7] Venuto P., La risposta europea a Moby Dick; Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Aspetti lessicali, in Humanities, anno II, numero 1:165, gennaio 2013.
[8] Venuto P., Op.cit.:166.
[9] D’Arrigo veste i panni del giudice istruttore in Accattone. Lo scrittore siciliano condannava Pasolini moralmente per certi suoi comportamenti sul set di quel film e non ne apprezzava i suoi scritti
[10] D’Arrigo S., Cima delle nobildonne, Mondadori, Milano,1985.
[11] Di Stefano Lanuzza, uno dei più appassionati studiosi di D’Arrigo, leggasi Scill’e Cariddi. Luoghi di «Horcinus Orca», Lunarionuovo, Acireale, 1985.
[12] Su questo progetto di romanzo si sa poco. Da quanto si apprende da Gianni Bonina (https://giannibonina.blogspot.com) l’idea risalirebbe agli anni Cinquanta, nello stesso periodo in cui è in embrione, nella mente di D’Arrigo, Horcynus Orca. Il romanzo non scritto – su cui prevalse la traversata nello Stretto di ‘Ndrja Cambria – ripreso in considerazione da D’Arrigo nei suoi ultimi anni, avrebbe avuto un’ambientazione marina con richiami alla mafia e al contrabbando. Vi è poi un romanzo inedito di D’Arrigo, questa volta breve, di cui si ha traccia in tre copie del manoscritto conservate al Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze: Il compratore di anime, un rifacimento delle Anime morte di Nicolay Vasil’evič Gogol. Anche l’ideazione di questo romanzo risale agli anni Cinquanta, leggasi Bonciani. S., Un Bildlungsroman mai pubblicato, in https.//finzioni.unibo.it.
_____________________________________________________________
Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia e col quotidiano La ragione.
______________________________________________________________