di Francesco Faeta [*]
Tutta la filosofia, se perseguita con onestà intellettuale, comincia con una confessione (Ludwig Wittgenstein)
Toutes les sociétés sages […] ont prescript et codifié l’extériorisation du deuil. Malaise de la notre en ce qu’lle nie le deuil (Roland Barthes)
Qualche tempo fa, dovendo preparare una relazione per un convegno scientifico tenutosi a Roma [1], ho riletto, tutto d’un fiato, il saggio di Susan Sontag, Regarding the Pain of Others, uscito in libreria, sia negli Stati Uniti, sia in Italia, nel 2003, un solo anno prima della traumatica scomparsa dell’autrice [2].
Mentre lo rileggevo, per un inevitabile accostamento mentale, pensavo al dolore di Maria e delle pie donne al cospetto del corpo inanimato di Cristo, qual è raffigurato nei numerosi compianti quattrocenteschi e cinquecenteschi che ho avuto modo di osservare così spesso in Val Camonica, durante il mio lavoro di ricerca sulla Passione di Cerveno. O ad altre rappresentazioni pittoriche, del tardo Medioevo o della prima modernità a esempio, che questo dolore, procurato dalle armi degli assassini o dei torturatori, lo mettono sotto gli occhi di tutti i fedeli quale fondamentale strumento di catechesi e di elevazione spirituale.
Sontag stessa, del resto, e con lei numerosi altri esegeti (Giorgio Agamben, a esempio, Georges Didi-Huberman, David Freedberg), ricorda come gli archetipi figurativi della morte violenta, del pianto e dell’afflizione, vadano cercati nel contesto cristiano e cattolico.
La mia relazione, più ristrettamente, affrontava il tema della legittimità della rappresentazione fotografica della sofferenza altrui, quando questa si colloca in un contesto meramente contemplativo ed estetico, quali possono essere un museo o una galleria.
«Nella misura in cui – scriveva Sontag – le fotografie di soggetti seri o strazianti sono arte – e quando sono appese a una parete lo diventano, a dispetto di qualunque smentita –, esse condividono il destino di tutte le opere d’arte appese o installate in uno spazio pubblico. Diventano stazioni nel corso di una passeggiata, spesso fatta in compagnia» [3].
Sulla scorta di Sontag, la mia posizione, che ho cercato di motivare in occasione della giornata di studio, è decisamente contraria all’uso, ampiamente invalso ai nostri giorni, di portare tale sofferenza sulle pareti di luoghi espositivi (e sulle pagine di patinati e costosi volumi d’arte). Contraria in nome di un’istanza etico-politica, innanzitutto, ma anche per il profondo snaturamento dell’immagine cui si va incontro, mutandone gli spazi discorsivi che, come ricorda Rosalind Krauss, largamente determinano la percezione semeiotica dell’immagine, in altri termini, il suo stesso significato [4]. Un’immagine pensata e realizzata in un contesto giornalistico, caratterizzata da un forte tratto indicale, viene poi instradata verso nuove e complesse torsioni iconiche e simboliche, con risultati, a mio avviso, non condivisibili e, a tratti, riprovevoli.
Ricordavo, mentre stendevo il mio testo, come molti anni or sono avessi rifiutato di pubblicare le mie fotografie che illustravano un contesto di profonda indigenza (pur se non di sofferenza) in Calabria, all’interno di un libro strenna pubblicato da una influente quanto discussa banca del Mezzogiorno. Già allora questo fatto non mi sembrava corretto, sia in rapporto alle persone ritratte e alle loro vicende esistenziali, sia in rapporto alla natura stessa delle mie fotografie. Va incidentalmente detto che, se è vera la mia contrarietà a un uso meramente estetico delle immagini, è pur vero che io quelle immagini le ho adoperate numerose volte in contesti didattici e scientifici. Si tratta certamente di altra cosa – lo abbiamo visto –, ma che non elude un nodo centrale, quello legato alla documentazione e alla rappresentazione di condizioni umane caratterizzate da afflizione e pena.
La preparazione della relazione ha comportato, nei giorni immediatamente seguenti, un supplemento di riflessioni che vorrei partecipare al lettore. Riflessioni che tangono certamente la fotografia ma che ineriscono al rapporto che anche l’antropologia culturale e sociale intrattiene con il dolore presente nelle vite degli esseri umani. La professione di antropologo ha comportato spesso, infatti, e comporta, un confronto diretto con la sofferenza altrui; basti pensare a quelle antropologie che si sono occupate di popoli in via di estinzione, di guerre e migrazioni, di comunità colpite da catastrofi ecologiche e da genocidi più o meno accelerati.
A fronte dei problemi di carattere deontologico, epistemologico, metodologico posti da questa prossimità e da queste frequentazioni l’antropologia è stata abbastanza distratta. Le riflessioni, per lo più presenti nel contesto internazionale, sono state legate alla considerazione culturale e sociale della violenza e del dolore in gruppi umani definiti (si pensi al Naven di Gregory Bateson o ai rituali gnau studiati da Gilbert Lewis). Altre volte sono appartenute all’antropologia medica (sin dai suoi prodromi ottocenteschi), alla disanima dell’afflizione portata dalle malattie del corpo e della mente; altre volte ancora sono scaturite dall’osservazione del corpo, delle qualità senzienti, delle emozioni nel regolare i meccanismi di costruzione individuale e collettiva. Qualche volta, infine, si sono concretate in riflessioni sistematiche: penso, sul piano internazionale, al lavoro di David Le Breton, ovvero, per quel che concerne casa nostra, a quel pionieristico volume relativo al dolore elaborato in occasione di un, ormai lontano, convegno internazionale a Palermo, nel 1986 [5]. Poche volte, invece, l’etnografia e l’antropologia si sono confrontate con il problema costituito per la coscienza misurante del ricercatore e dello studioso da una sofferenza altrui vista da lontano, o comunque da fuori.
(Naturalmente la ricerca scientifica raramente si spettacolarizza ed è, dunque, parzialmente al riparo da quei processi di alterazione comunicativa e semantica che abbiamo visto con riferimento alla fotografia. Anche se a volte, nella sua fase di riproposizione, essa può essere mostrata in uno spazio museale, i suoi fini sono radicalmente diversi da quelli di mera fruizione estetica. Almeno finora; oggi ambigue connivenze tra scienza sociale e rappresentazione artistica rischiano di rendere obsoleto quanto sin qui affermato).
Per tutto il decennio delle sue ricerche sul campo nel Mezzogiorno italiano degli anni Cinquanta, Ernesto de Martino ha avuto a che fare con il dolore, sia quando discendeva in quelli che egli stesso definiva i gironi infernali della Rabata di Tricarico, abitati da miseria e infermità, sia quando incontrava le condolenti o i pazienti affetti da gravi disturbi fisici o psichici delle altre desolate plaghe lucane, sia quando fronteggiava quello, convogliato nell’alveo rituale o libero di manifestarsi in una sua drammatica irrelatezza nello spazio sacro del tempio, delle sofferenti per il morso della taranta salentina.
Nella sua ricerca, che pur non ha stimolato puntuali e sistematiche considerazioni in merito, de Martino mostra di essere consapevole dell’universo sofferente che fronteggia. Nel saggio sulla Rabata, prima ricordato di sfuggita, egli scrive a esempio:
«dinanzi alla ‘rovina’ della Rabata tricaricese, dinanzi a tanta storia sconosciuta che si consuma in muto racconto, mentre su di voi si leva lo sguardo dolente dei bambini rabatani, io ho provato un sentimento complesso al quale cercherò di dare un lume razionale. Certamente questo mio sentimento non è l’antica pietà cristiana, anche se in me, come figlio della storia, la pietà cristiana non può essere passata invano. Il sentimento che realmente provo è innanzitutto un angoscioso senso di colpa. Dinanzi a questi esseri mantenuti a livello delle bestie malgrado la loro aspirazione a diventare uomini, io […] mi sento in colpa».
Più oltre, nello scritto che rende conto del suo incontro con Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro, compreso nella stessa opera, colpiscono il partire dalla descrizione del pianto rituale e il progressivo immergersi nel dolore del ricordo; cose che si snodano di fronte all’antropologo, il quale le registra e trae da tale registrazione considerazioni di ordine teorico [6]. E le Note di viaggio, colme di riflessioni diverse, molte delle quali improntate da consapevole pietas per quanto si osserva, s’inoltrano, a partire dal ricordo della tragica e repentina fine dello zampognaro che doveva suonare per l’antropologo, dentro un universo d’ininterrotta e dolorosa evocazione funebre [7].
Tuttavia de Martino, animato dal suo fuoco euristico, non affronta in modo ravvicinato il nodo rappresentato dal suo osservare e tradurre in oggetto di ricerca le manifestazioni del dolore altrui. La domanda classica “che cosa ci faccio io qui?”, declinata tante volte e in logiche dissimili (da Claude Lévi-Strauss a Bruce Chatwin), se è presente, come abbiamo visto, alla sua mente, non viene declinata in questa prospettiva. Anzi, la tensione verso il raggiungimento di un obbiettivo conoscitivo gli fa fare scelte, a volte, discutibili. Una terribile morte per incidente può essere simulata per un film, in modo da promuovere negli astanti un condolente comportamento cerimoniale (si ricorderà il Lamento funebre lucano di Michele Gandin); le lamentatrici di Pisticci possono essere stimolate a ripetere il pianto di fronte ai microfoni della RAI, e all’obbiettivo di Franco Pinna, certamente con la consapevolezza del carattere rituale del lamento, ma anche con la parallela consapevolezza di innescare una sofferenza reale, del tutto evidente.
Direi che la ricerca demartiniana è stata un lungo viaggio attraverso la sofferenza delle contadine e dei contadini di Lucania e del Salento, un intimo confrontarsi, per un decennio, con una condizione umana dimidiata. Di tale condizione vi è eco nella scrittura partecipata delle tre monografie meridionaliste, naturalmente, ma anche, sia pur percepita attraverso un distanziamento temporale e spaziale, nelle note che andranno a comporre l’opera postuma, La fine del mondo, che già nel suo stesso titolo evoca la perdita, la deiezione, una condizione apocalittica e luttuosa.
E, per ricondurci momentaneamente al livello che avevo evocato in apertura, le immagini prodotte intorno alla ricerca demartiniana, o al suo interno, rappresentano un lungo viaggio nella sofferenza altrui, attraverso obbiettivi ravvicinati, di volta in volta appartenenti alle macchine fotografiche e alle cineprese, di Arturo Zavattini, Franco Pinna, Ando Gilardi, Diego Carpitella, Annabella Rossi, Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini, Gianfranco Mingozzi; un lungo, ininterrotto film di povertà, alienazione, dolore. L’atto fondativo della ricerca antropologica contemporanea dedicata alla realtà domestica italiana è inscritto, insomma, nella dimensione del rapporto irrisolto con la sofferenza altrui e con la sua rappresentazione.
Non è questa, naturalmente, la sede in cui ricostruire una sorta di memoria della vicenda dell’antropologia italiana sub specie doloris, anche se non sarebbe disagevole seguire tale filo rosso (si pensi, per restare nell’alveo di temi demartiniani a Il ponte di San Giacomo di Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana). Un frequente fronteggiare l’indigenza, la sofferenza, il dolore, spesse volte la morte, il lutto, il cordoglio; una quasi sempre presente solidarietà umana con quanto si osserva; però anche una notevole inconsapevolezza rispetto al tema epistemologico e deontologico della legittimità dell’osservazione e della descrizione. Come pure appare assente il dolore come movente e motore della ricerca antropologica. La domanda, a esempio, circa l’utilità del proprio dolore per comprendere il dolore, di Philippe Ariès, domanda che mette in moto alcune sue importanti considerazioni storiografiche sulla morte e sul lutto; o quella che sottende le riflessioni sul rapporto tra dolore, lutto e rabbia presso i cacciatori di teste Ilongot di Renato Rosaldo, propiziata dalla propria personale dolenza per la perdita della moglie Renate, sono relativamente desuete nelle scienze sociali, e direi assenti, a quel che mi consta, nell’antropologia italiana. Quel dolore che, come ricorda Le Breton, se può distruggere l’uomo e annientarne le capacità intellettive, può anche divenire elemento di costruzione e di elaborazione culturale, di comprensione di se stessi e degli altri, non è lezione facilmente recepita.
Non rappresento una eccezione in tale contesto (pur se questa nota indica una mia sensibilità al problema e un mio disagio). La mia prima ricerca di terreno in Calabria, prese le mosse da un lutto corale, collettivo, fondatore di una dimensione comunitaria. Si svolse a Melissa, lontano villaggio del versante ionico della regione, sperso tra franose argille e terre riarse. Qui nel 1949, a opera della polizia scelbiana, era avvenuta un’efferata strage di contadini poveri e braccianti senza terra, durante l’occupazione di un feudo incolto e per l’attuazione dei Decreti Gullo di riforma agraria. La vicenda ebbe una vastissima eco politica nazionale e determinò un esteso movimento di solidarietà verso la minuscola cittadina calabrese. Attraverso una lunga indagine di terreno ho tentato di ricostruire, ricorrendo soprattutto alle fonti orali, la memoria di quei fatti e la sua incidenza nella vita sociale, culturale e politica degli abitanti. E mi sono ovviamente imbattuto nel dolore. Quello relativo ai fatti del 1949, collettivamente evocati, divenuti elemento fondante dell’identità locale.
Sintetizzavo, nei miei taccuini di ricerca, la narrazione di un interlocutore privilegiato che raccontava
«come nei giorni successivi alla strage il paese apparisse interamente addobbato con festoni bruni, come per un’oscura festa funebre, e il panno nero del lutto fregiasse ogni persona. Come i defunti fossero pianti da tutti e la ricorrenza del 29 ottobre [giorno dell’eccidio] fosse divenuta, nel tempo, occasione per essere insieme come umanità che in loro si riconosce» [8].
Dentro questo lutto collettivo, fatto di autentica e partecipata sofferenza, si stagliava il dolore dei congiunti dei caduti, venuti meno tutti in giovane età, che fondavano la propria rimemorazione sulle pratiche consuetudinarie del lutto. Direi che il motore della vita comunitaria era proprio il dolore, ampiamente socializzato, che si alimentava nella memoria e che andava a costruire le modalità della sopravvivenza individuale e collettiva. Osservavo, nella mia monografia dedicata al piccolo paese calabrese, che i fulcri della sua organizzazione morale erano rappresentati dal cimitero e dal cippo commemorativo della strage posto sul feudo Fragalà, dove essa era avvenuta. Una bipolarità segnata da sofferenze individuali che divenivano, attraverso le pratiche di rimemorazione e di culto, sofferenze clettive [9].
Credo di essere stato attento rispetto ai sentimenti della gente di Melissa; sono stato solidale politicamente (la mia antropologia in quell’occasione, anche a costo di ingenuità e forzature, è stata pienamente militante); ho avuto cura di non invadere, non offendere, non esasperare il dolore che vedevo presente ovunque; sono stato attivo nel sostegno politico verso un’umanità ancora indigente e bisognosa di elaborare completamente il proprio lutto; sono stato amico di tantissimi dei miei interlocutori privilegiati con cui ho condiviso momenti di gioia e di pena. Ma non ho mai pensato, allora, che la mia antropologia si costruiva sul dolore altrui, né mi sono interrogato sulla legittimità della mia osservazione. Ho fotografato tutto ciò che ritenevo utile alla ricostruzione della vicenda culturale e sociale che osservavo. Ho raccolto attraverso il videotape, struggenti momenti di ricordo dei defunti, accompagnati da commozione e da pianti. Anche molti anni dopo, in uno dei miei tanti ritorni in loco che ho effettuato (come spesso si usa), poco dopo la morte della mia compagna, Marina Malabotti, che era stata collaboratrice sul terreno, fotografa e operatrice video, non ho pensato di mettere in relazione, attraverso un’attivazione sentimentale, alla maniera di Rosaldo, il dolore di chi aveva perso il figlio sulle terre di Fragalà, con il mio.
Il mio percorso di ricerca è poi proseguito con la lunga indagine sul cordoglio e sul pianto commemorativo in occasione del due novembre in una vasta area rurale della Calabria centrale; un’indagine durata dieci anni, il cui ineludibile oggetto era il dolore di persone che, in tempi vicini o lontani, avevano perso i loro congiunti. Qui la sofferenza perdeva quel carattere composto e sommesso che avevo osservato a Melissa, e diveniva violenta, ostentata, gridata. A distanza di tempo dall’evento luttuoso, il modulo cerimoniale di contenimento, quel pianto rituale che de Martino, Lombardi Satriani e Meligrana avevano variamente evocato, nella sua continuità e nelle sue variazioni, veniva frequentemente meno e il ricercatore si trovava di fronte a una prassi lacerata e scomposta. Non era possibile ignorare di essere di fronte al dolore degli altri nei cimiteri di Sambiase, Gizzeria, Accaria e degli altri mille paesi e villaggi visitati. Nei camposanti, negli interni delle dimore contadine dove giaceva il corpo composto del defunto, nei mille luoghi delle case dove i morti, tramite le loro immagini, ancora parlavano ai vivi, trasmettendo una sofferenza niente affatto domesticata, negli spazi cerimoniali del due novembre, animati dal sommesso colloquiare con gli scomparsi e dalle improvvise urla delle donne sofferenti, io e Malabotti (che anche in questa occasione condivideva con me il terreno) eravamo costantemente in punta dei piedi, con il fiato sospeso, partecipi e silenziosi) [10].
Ma anche in questo caso l’ordine di riflessioni che prima ho ricordato non era presente. Sono divenuto ancor più timido e prudente che a Melissa, attento a non esacerbare ulteriormente quanto già dava sì grande affanno. Direi che, in quelle situazioni, la mia attenzione si è concentrata sull’aspetto deontologico e metodologico del mio operato (come non offendere, come ottenere il miglior risultato documentario), ma l’interrogazione sul senso profondo per la ricerca sociale dello stare di fronte al dolore, di appropriarsene al fine di comprenderlo e rappresentarlo, non mi è appartenuta.
Così come non mi è appartenuta durante l’altra sistematica ricerca, condotta avanti per molti anni, quella sui riti della Settimana santa, prima in Calabria, nella sua calendarizzazione propria e nelle forme consuete in ambito popolare, sia, molti anni più tardi, nella forma di una rievocazione spettacolare (la Passione), de-calendarizzata rispetto al periodo canonico, in Lombardia, nel villaggio camuno di Cerveno [11].
Per quel che concerne la Calabria, poi, il lavoro si è prolungato e ampliato in una complessa indagine d’équipe, con la partecipazione di numerosi ricercatori e fotografi e una capillare analisi del territorio regionale (e anche qui non ho avuto percezione che i miei collaboratori custodissero attenzione per la problematica che sto delineando). Dentro questo contesto d’indagine, in particolare, mi sono occupato del rito di flagellazione che si tiene a Nocera Terinese (CZ), che mi poneva di fronte a un dolore fisico, anche cocente per via delle ferite auto inferte su ampie zone del corpo con uno strumento irto di tredici affilate schegge di vetro. Un dolore fisico che si poneva come necessario mezzo di passaggio verso una piena condizione virile e verso posizioni di prestigio all’interno del contesto locale. Un dolore fisico che si agganciava, sul piano mitico, a quello archetipico della Passione, sul piano evenemenziale ed esistenziale, a sofferenze incombenti nella dimensione quotidiana, essendo l’occasione della flagellazione connessa con un trauma, più o meno remoto, e con le conseguenti pratiche votive. Ci si flagellava, insomma, per un dolore subìto, e tale dolore, con l’annesso spargimento del sangue e l’impiego del corpo, era atto di ringraziamento offerto alla divinità. Ho assistito per molti anni alla flagellazione rituale e, benché il dolore fisico fosse sopportato con assoluto stoicismo e considerato elemento di iscrizione in una cerchia di aristoi della comunità, il dolore dell’animo che promuoveva quello fisico, ritornava nelle forme di una generale, anche se ben controllata, commozione.
A livello più generale il dolore legato agli eventi del Venerdì santo assume una forma diversa, più soffusa e più convogliata dentro alvei cerimoniali predisposti; si piange frequentemente, ma senza avere sempre precisa percezione del perché si pianga, se per le sofferenze del Cristo morto o per la miseria del mondo. Il dolore assume una veste paradigmatica, diventa cristallizzazione di qualcosa che è accaduto in illo tempore, ma che rimorde, per adoperare concetti e definizioni demartiniani. Nelle celebrazioni quaresimali, specialmente in Calabria (ma ho visto piangere attori della sacra rappresentazione e pubblico anche a Cerveno, in un contesto socialmente assai complesso, ma caratterizzato anche da un tratto mondano marcato), si rievocano le mille morti del passato individuale e collettivo, e il Cristo patiens diviene emblema di ogni pena esistenziale. Dunque, anche rispetto al pianto delle donne al passaggio dei simulacri divini nelle cerimonie rievocative degli eventi mitici della Passione, o alla sofferenza fisica e alla rattenuta commozione dei battenti di Nocera, si entra in una zona, sia pur meno drammatica (proprio perché drammatizzata), di afflizione.
Ho voluto evocare tratti del mio percorso di ricerca per suscitare nei lettori antropologhi riflessioni a partire dai loro percorsi di ricerca. È questo il solo intento di queste righe; porre sul tavolo, per cenni e senza alcuna pretesa di esaustività, un problema che mi pare spesso ci siamo buttati alle spalle. Naturalmente, quanto noi ci siamo buttati alle spalle, sul terreno della riflessione filosofica e intellettuale, è stato sovente affrontato, anche per via del tremendo shock visuale rappresentato dall’Olocausto (penso ad Agamben, a esempio, a Didi-Huberman, alle riflessioni di tanti altri su “quel che resta di Auschwitz”, sulla rappresentabilità dell’irrappresentabile). Il nostro problema è peculiare, tuttavia, e richiama (specialmente per quel che concerne le antropologie, oggi sempre più numerose, che fronteggiano condizioni di inaudita violenza), le vicende e le posizioni dei reporter al seguito degli eserciti alleati che entrarono per primi nei campi di concentramento appena liberati, Lee Miller, Margaret Bourke-White, George Rodger, Eric Schwab, Germaine Krull, Walter Rosemblum (ecco che torna un confronto illuminante con la fotografia). Di fronte a ciò che osservavano, queste donne e questi uomini rimanevano sgomenti, non soltanto per quel che vedevano («ho incontrato la mia parte di gente malvagia e so di cosa è capace. Ero presente alla liberazione del campo di Dachau…», Rosemblum), ma anche per il ripensamento della cultura visiva che intuivano si andava imponendo. Rodger, a esempio, rispetto alle visioni del campo di concentramento di Bergen Belsen, in Germania, nel 1945, con riferimento problematico al suo operato, scriveva:
«non si trattava nemmeno di quello che stavo fotografando, ma di quello che mi era successo durante il processo. Quando ho scoperto che potevo guardare l’orrore di Belsen – 4000 morti e affamati in giro – e pensare solo a una bella composizione fotografica, ho capito che mi era successo qualcosa e dovevo smettere. Sentivo di essere come le persone che gestivano il campo: non aveva alcun significato» [12].
Naturalmente, al di là di queste riflessioni radicali, credo che ognuno degli studiosi di scienze sociali che vadano in contesti difficili – siano le luttuose sofferenze di donne e uomini che celebrano una vita scomparsa, siano guerre e migrazioni – senta il dovere di testimoniare, e senta di essere profondamente vicino agli uomini di cui offre testimonianza. Che fare, però, per trascendere la generica solidarietà umana e l’immediata identificazione politica? Occorre pensare, a mio avviso, ad alcune condizioni imprescindibili per porsi di fronte al dolore degli altri.
La più importante di tali condizioni riguarda l’Einfühlung. La riflessione filosofica che ha affrontato il dolore ci ha avvertito, in numerose occasioni, come esso appartenga soltanto a chi lo prova e come lo strumento essenziale del linguaggio, nella misura in cui è mero tramite, lasci fuori il corpo del sofferente e lo separi da quello dell’osservatore. Però, per noi che incontriamo uomini concreti che fanno cose concrete, la legittimità dell’osservazione del dolore fonda sulla possibilità che esso diventi anche nostro. Che l’osservatore, in altre parole, non resti meramente tale, ma partecipi della condizione di sofferenza, vi si immedesimi, la faccia sua. Non è facile questa postura, particolarmente in un contesto euristico che richiede, al contrario, distanziamento. Ma alla realizzazione di essa occorre dedicare la massima attenzione e il massimo impegno, tentando di attingere a una distanza razionale dentro un’intensa partecipazione, un’assunzione affettiva dell’altro (forse con un ritorno alla declinazione psicologica dell’empatia, che postula il rapporto tra immediata comprensione dell’altro e capacità di contenimento dell’emozione, però con un’inversione dei termini).
Sul piano pratico, me ne rendo conto, questa ipotesi è ardua e, direi, largamente congetturale, stante la difficoltà umana del soggetto sofferente ma anche dello stesso ricercatore, con tutti i loro camuffamenti intellettuali e le loro prese di distanza emotive. Vi è comunque, a mio avviso, una strada meno ardua, direi più alla portata di tutti, e questa transita attraverso il ripristino del linguaggio, conferendogli una configurazione ampia, non restrittivamente serrata nella dimensione verbale. La prassi di ricerca nel contesto antropologico suggerisce la molteplicità di linguaggi e di strategie comunicative che è possibile stabilire tra gli esseri umani. Attraverso l’esternazione linguistica del dolore, colui che lo patisce può essere aiutato a superarlo. Nelle mie ricerche sul pianto funebre, che ho prima ricordato, il passaggio dalla mera osservazione della sofferenza alla sua narrazione, verbale, segnica, visuale, corporale, provocava una notevole attenuazione del malessere e un progressivo rientro dentro condizioni di relativa serenità e stabilità. Dunque, una pratica di ricerca che aiuti soprattutto gli altri a fuoriuscire dalla solipsistica condizione data dal dolore, subordinando i risultati personali del ricercatore rispetto a questo prioritario obbiettivo.
Vi è, ancora, un problema di conoscenza e d’informazione. Quando l’osservazione del dolore degli altri resta finalizzata alla nostra prassi scientifica e al conseguimento dei suoi risultati, torna un elemento forte di discutibilità. Quando, invece, attraverso un’opportuna prassi di conoscenza, l’osservazione può divenire fattore migliorativo della condizione di tutti, contribuendo a superare la sofferenza stessa, credo si apra un piccolo spazio di legittimità.
Vi è, infine, un problema di cultura della sofferenza, contro la cultura della rimozione. L’ho in qualche misura introdotto attraverso la brevissima citazione di Barthes in epigrafe (il malessere della nostra società sta nel fatto che essa nega il lutto). La possibilità di restare con qualche legittimità di fronte al dolore degli altri sta nel non negare il dolore, nel fronteggiarlo e non rimuoverlo, nell’assumerlo come elemento fondante la vita individuale come quella sociale.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
[*] Le fotografie che corredano questo articolo, eseguite da Marina Malabotti e me, sono tratte dai volumi, citati in nota, Imago mortis e La Passione secondo Cerveno.
Note
[1] Si veda Il fratello minore. Virtù e crisi di una professione. Il caso italiano, Roma, Federazione Nazionale della Stampa, 17-18 novembre 2022.
[2] Cfr. S. Sontag, Regarding the Pain of Others, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2003, Davanti al dolore degli altri, trad. di P. Dilonardo, Milano, Mondadori, 2003, ora Milano, Nottetempo, 2021. La scomparsa di Sontag è evocata dal figlio in un intenso volume che si raccomanda, assieme a quello di Roland Barthes scritto in occasione della morte della madre, come letture illuminanti nella prospettiva critica di questo articolo. Si vedano, D. Rieff, Swimming in a Sea of Death: A Son’s Memoir, New York, Simon & Schuster, 2008, Senza consolazione. Gli ultimi giorni di Susan Sontag, trad. di G. Iacobaci, Milano, Mondadori, 2009; R. Barthes, Journal de deuil, Paris, Seuil, 2009, Dove lei non è, trad. di V. Magrelli, Torino, Einaudi, 2010.
[3] S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, cit.: 139.
[4] Cfr. R. Krauss, Le Photographique, Paris, Macula, 1990, Teoria e storia della fotografia, trad. e cura di E. Grazioli, Milano, Bruno Mondadori, 1996.
[5] Si vedano D. Le Breton, Anthropologie de la douleur. Paris, Éditions Métailié, 2012, Antropologia del dolore, trad. di R. Capovin, Milano, Meltemi, 2016; G. D’Agostino, J. Vibaek (a cura di), Il dolore. Pratiche e segni, Palermo, Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 32-33, 1989.
[6] E. de Martino, Furore Simbolo Valore, con pref. di L. M. Lombardi Satriani, Milano, Feltrinelli, 1980 (la citazione in testo è a p. 184).
[7] Si veda, E. de Martino, Note di viaggio, in R. Brienza (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata Editrice, 1975: 107-133.
[8] Cfr. F. Faeta, L’albero della memoria. Scritture e immagini, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021: 31.
[9] Si veda F. Faeta, Melissa. Folklore, lotta di classe e modificazioni culturali in una comunità contadina meridionale, Firenze, La Casa Usher, 1979.
[10] Si veda F. Faeta, M. Malabotti, Imago mortis. Simboli e rituali della morte nella cultura popolare dell’Italia meridionale, Roma, De Luca, 1980.
[11] Si vedano F. Faeta, A. Ricci (a cura di), Le forme della festa. Studi e materiali sulla Settimana Santa in Calabria, Roma, Squilibri, 2007; F. Faeta, La passione secondo Cerveno. Arte, tempo, rito, Milano, Ledizioni, 2019.
[12] Le dichiarazioni di Rosemblum e Rodger sono in P. Hill, Th. Cooper (eds), Dialogue with Photography, Stockport (UK), Dewi Lewis Publishing, 2002. Le traduzioni sono mie.
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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora come professore esterno presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019; L’albero della memoria. Scrittura e immagini, Palermo, Museo Pasqualino 2021; Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2022; L’occhio e le cose. Cinque lezioni sullo sguardo, Milano, Meltemi, 2023.
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