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De bello gaddico

il-castello-di-udine-ediz-adelphidi Antonio Pane 

Alla nuova stampa a sua cura di Il castello di Udine, ennesima pigna del rigoglioso abete gaddiano allevato da Adelphi, Claudio Vela potrebbe lecitamente attaccare lo slogan «Prendi due paghi uno». Il lettore vi trova infatti annesse le due edizioni di riferimento: la rarissima princeps solariana del 1934 che vi è integralmente riprodotta e la vulgata Einaudi (apparsa per la prima volta nel 1955, al centro del trittico I sogni e la folgore), che vi si può intraleggere con due leggere manovre: tralasciandone i tratti racchiusi da emiparentesi quadre (⌠⌡), ossia le espunzioni che la contrassegnano (riguardanti in massima parte l’ampio corredo di note); e consultando, nella enciclopedica Nota al testo (alle pp. 266-267), il breve compendio delle sue numerate varianti. La convenienza del ‘prodotto’ è ulteriormente accresciuta dalla preziosa Appendice di materiali contigui (le recensioni a Guerra del ’15 di Giani Stuparich, a La guerra di Emilio De Bono e a La grande guerra di Mario Monicelli, le risposte a una Inchiesta tra gli scrittori laureati, le Postille a una analisi stilistica, ovvero i caparbi rilievi ai rilievi ‘udinesi’ del linguista Giacomo Devoto) e, dentro la detta Nota al testo, a colmare il bisogno di «ricostruzione informativa» invocato dall’autore in una lettera a Giuseppe De Robertis, da succosi estratti degli avantesti oggi disponibili (distribuiti in cinque fondi archivistici), da nutritive notizie sulla costituzione dell’opera e sui ‘pezzi’ giornalistici che vi confluirono, e dall’inventario delle lezioni difformi che ne derivarono.

Così ‘aumentato’, e con istruzioni per l’uso (80 pagine) più esaustive di un bugiardino, il libro ci introduce nel gabinetto del nostro ingegnere, ci consente di sbirciare le manipolazioni del «convoluto Eraclito di Via S. Simpliciano» che si sporge dal suo stranamente esteso esergo sotto le mentite spoglie dell’‘infernale’ (IV, 144) «dott. feo averrois» chiamato a firmarne le caparbie chiose con un piglio beffardo subito trasferito nel prologo, Tendo al mio fine, dove, nell’alea della «brutale deformazione», il principe dei «comodini da notte» fornisce un quadro pressoché esaustivo delle sue «oscure e vivide», ragionevolmente irragionevoli «ragioni»: la denuncia della «inutilità marmorea del bene» e della «saluberrima stupidità, supersite e pascolante sopra la vana fatica del pensiero»; la «sozza dipintura della mandra e del suo grandissimo e grossissimo intelletto»; la requisitoria sui disastri economici della famiglia e il rammarico del «poco denaro»; la misoginia (qui rivolta alle «sazie di seme», «condutte a sconciarsi in luogo acconcio» e alla «plastile carne delle infarinate bagasce»); i saporiti sarcasmi sull’«ingegnoso ingegnere, quello che fa tanto belle case a Milano» e sui «laureati scrittori della Italia»; la tentazione della corda elegiaca (toccata nel solenne «Quando si tingerà di oro, per il venente autunno, la selva, imàgini della tristezza leverà il boreal vento, dal platano al prato»).

giornale-di-guerra-e-di-prigionia-ediz-sansoniLa tirata-manifesto denunzia, credo, la nuova consapevolezza dell’autore, originata dalla scelta, a quest’altezza non più negoziabile, di abbandonare la controversa professione per aderire alla non meno dubbia consorteria degli scrittori, e altresì testimoniata dalla accorta architettura del volume che, dopo il doppio vestibolo, allinea tre sale di cubature equipollenti: quella che ne detta il titolo e il tono, ospitando i cinque testi bellici di cui, nell’appunto che la licenzia, si rivendicano «i vincoli di rigorosa unità infino dalla gestazione»; quella che, intestata alla Crociera mediterranea, ne costituisce, con le cinque puntate del reportage che vi corrisponde, l’intermezzo ‘ricreativo’; e quella che, sotto il cartello Polemiche e pace, accoglie, insieme a tre articoli eterogenei, i tre episodi del racconto Polemiche e pace nel direttissimo, dialogando a distanza con l’argomento della prima. Dopo La Madonna dei Filosofi, la relativamente castigata utilitaria dell’esordio, Gadda sperimenta qui si può dire il prototipo delle fuoriserie a targa Adalgisa, Cognizione, Pasticciaccio, il solido, elaborato telaio che meriterà il prestigioso «Bagutta»; vara, giusta la condivisibile formula di Claudio Vela (confortata dai «collegamenti tematici» che ne attraversano le sezioni), il «libro di rielaborazione della guerra».

Il suo centro pulsante sarà dunque, come vuole l’anonimo ma tutt’altro che anodino risvolto di copertina, «il lutto insanabile per chi è caduto in guerra». Cordoglio che, ampiamente officiato nella parte eponima (con diffusi rimandi, alcuni dei quali rivolti ai destini di singoli sacrificati), toccherà la seconda (nel finale di Sabbia a Tripoli, quando il solitario turista approda al Piazzale della Vittoria e alla Rotonda del Brasini, «la quale accolse gli eroi e la loro memoria») e la terza (in chiusura di Festa dell’uva a Marino, con il rammarico per l’impossibilità di elencare i «centoventidue nomi» del monumento alla Grande Guerra, e al termine del conclusivo Sibili dentro le valli, mediante l’immagine dell’«artigliere chino verso le ombre al traino, come al Calvario»), raggiungendo, in fondo al volume, l’insolito esergo oraziano (absint inani funere neniae | luctusque turpes et quarimoniae) che ne tradisce il cuore segreto: la mormorazione per il fratello ucciso pudicamente sillabata in Dal castello di Udine verso i monti («Alla stazione di Udine mancai persino ad un incontro, fissato con persona che dovevo non più rivedere sulla terra!») e riverberata, in Compagni di prigionia, dall’«immagine d’un fanciullo, ch’era oggi soldato d’Italia, che non dovevo più rivedere sulla terra!».

Quanto ai veri e propri «articoli di guerra», dei «vincoli» di cui si parla nella menzionata ‘nota di coda’ fanno fede i richiami incrociati fra Elogio di alcuni valentuomini (dove, nel segno di Cesare, sono, fra altro, esumati segmenti di pugne latine) e il testo immediatamente successivo, Impossibilità di un diario di guerra. Il primo contiene il cruciale annuncio delle stazioni della via crucis bellica e concentrazionaria percorsa nei capitoli che vi fanno seguito: il sinestetico flash che fulmina l’alba fatale del disastro di Caporetto («La feroce fanfara dell’assalto lacerò i veli delle nebbie, sopra le sinuosità vagabonde del fiume»). Con moto opposto, il secondo risale al suo antecedente: «Accadde a molti di dover combattere due guerre in un tempo: l’ho già stampato dicendo d’antiche legioni».

Dopo le spigolature erudite e gli aforismi ‘a vocazione narrativa’ snocciolati nell’Elogio, il polittico che sorpassa in preterizione la rinuncia iscritta nel primo dei suoi pannelli si può suddividere in due coppie (spie anch’esse di un impianto ben bilanciato) che ‘coprono’ rispettivamente le memorie di guerra e quelle di prigionia. Se l’una (completata da Dal castello di Udine verso i monti) soddisfa anche un movente ‘speculativo’ (il bisogno di delineare lo scenario degli eventi e di giustificare il gioco del testimone che dice dicendo di non poter dire) [1], l’altra, formata da Compagni di prigionia e Imagine di Calvi, ha un’allure più distesamente narrativa, un passo quasi rapsodico, consegnato al «Camminavo e camminavo, fagotto di cenci [2] sulla strada buia dell’eternità» che, suggellando il primo, s’inarca nel «Camminavo e camminavo» proteso alla «notte stellata» e ai «mondi di momenti futuri» del suo gemello.

i-sogni-e-la-folgore-prima-ediz-einaudiLe considerazioni adunate nel primo dittico ruotano sul giovanile e mai rinnegato interventismo che, pur consapevole di diffondere una «retorica patriottarda e militaresca», non teme di censurare a suo rischio («So bene che mi metterò contro la gente»), insieme a ogni sorta di filantropi e pacifisti, i militari, più o meno graduati, che non avevano corrisposto al compito, lo «spirito antimilitare […] mascherato di ideologie variopinte e tutte in sul tènero». Ma la rivisitazione della «cumulata strage, nel monte e nella petraia infernale» e dei «fatti perentorii e banali della vita di guerra» è poi un modo di esporre al pubblico ludibrio il «sistema cerebro-spinale» dello scrivente, la capoccia «dissimmetrizzata da indecifrabili anomalie», i «preesistenti miei proprî complessi, cioè l’insieme delle mie cinquecento disgrazie, ragioni e irragioni», l’anima intrisa di «aberrante crudeltà», il «cuore disumano», «la caduta del mio vivere in una vana e disperata sopravvivenza»: di mettere insomma in scena (all’insegna dell’«Essere era disparire: sopravvivere significò non essere») l’amletico personaggio del Gaddus, con le sue ‘bizze di capitano in congedo’ e con il fervido metaforificio che sforna il «rabido rinculo degli affusti» e i «gargarismi lontani e immortali delle autocolonne», che agguaglia il «povero diavolo di “shrapnel”» a un «entomologo inglese, in cerca di inesistenti farfalle», l’anima stanca a un «regolamento scaduto», i telefoni fuori uso a «nervi paralizzati d’una baldracca fràdicia», le cannonate a «pompose matrone dalla dignità sistematica», la notte a «bagascia disfatta».

le-bizze-del-capitano-in-congedoCome si diceva, Compagni di prigionia e Imagine di Calvi testimoniamo il limbo della interminabile detenzione in terra tedesca. Invertendo l’ordine cronologico dei fatti, il primo ne ritaglia monograficamente la fase finale, trascorsa nel Lager di Celle, mediante una lineare sequenza di aneddoti (immersi, diresti, nella kantiana «luce sistematica di un giorno uguale» del suo incipit e nell’ombra del narratore «tranquillo come un trelire») che disegnano briosi profili dei ‘pensionanti’: un esercizio letterario non a caso portato a privilegiare, e non senza un certo compiacimento, il sodalizio con i già affermati colleghi Ugo Betti e Bonaventura Tecchi. Il secondo, che retrocede ai frangenti della cattura e della fame sofferta nel Russenlager e nella fortezza di Rastatt (ma recuperando da Celle il crepuscolare incontro con l’ufficiale morente «venuto fuori dai regni baraondeschi della pluralità e della miseria»), ha una sceneggiatura più mossa e variata, comprensiva del lungo flashback che riconduce alle operazioni di guerra e alla morte onorata nel titolo, e disposta a ricevere il comico dei «baffi a ripetizione» e dei «congiuntivi inverosimilmente circonflessi» (esibiti, con «temperamento di ginevrino», da un non meglio identificato «insegnante di francese» che parla «come il groom dell’Albergo del Gallo, all’arrivo degli sposi di Oggiono supposti svizzeri»): l’umorismo doppiato dalle «magnifiche» mutande femminili con «due sbuffi di pizzo campaniformi» indossate da un recluso al modo di «una damigella d’onore della Regina Vittoria».

Dinanzi alle cinque puntate del ‘servizio’ Crociera mediterranea, che costituisce la seconda parte del volume, non si può non pensare alle pagine di A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again. Ma il ritmo rap e la perfidia freak della pirateria caraibica di David Foster Wallace lasciano decisamente indietro le pigre cadenze e le benevole prese in giro del borghesissimo Gadda: il Conte Rosso cede al bianchissimo Zenith come i suoi «terzi-cuochi» in calzoncini soccombono, sia pur di misura, ai marinai-calciatori della Royal Sovereign. Sapendo che il resoconto gaddiano doveva in qualche modo ripagare il trattamento di favore ottenuto dal Lloyd Sabaudo proprietario del piroscafo, siamo senz’altro propensi a condonarne la ‘funzione-reclame’ che enumera con zelo le tappe del viaggio, segnala panorami, ripete ‘notizie ricevute’ in siti e musei, e non manca di rendere omaggio ai frutti del lavoro italiano nelle colonie o all’italianità di certi edifici (perfino di quelli riconducibili all’aborrito modello Lissone/Garbagnate). Il suo onore Gadda lo salva con la satira appesa alla sua parte di viaggiatore (scandita dai memorabili «Voglio un’altra avventura!», «Voglio un’avventura mediterranea!») e alle figurine che, illustrando lo spirito ‘crocievoyeuristico’ dei suoi consorti, potrebbero tranquillamente confluire in un documentario di Jean Vigo: per tutte, il pensionato «in paglietta, pantaloni bianchi, gilè bianco, un fiore bianco all’occhiello», «ilare e lesto come uno zéfiro», e la signorina «in pigiama, giacca di seta nera, pantaloncini bebè di seta verde pisello».

il-castello-di-udine-ediz-solariaLa composita Parte terza offre invece un significativo compendio della varietà di registri convocati in queste pagine, completando il ritratto di un autore maturo, padrone dei suoi mezzi, pronto a dar corso ai suoi capolavori. Se Della musica milanese rappresenta bene il polemista alle prese con le sue molteplici idiosincrasie (qui con «il bruttissimo tantarellare degli organetti a ruote e il malissimo chitarrare di certi garzonacci» associato al «grammofono-digestiome», al «pianoforte-signorina» e alle impagabili ragazze che immolano «tredici anni alla sonatina del Gatto balbuziente e quattordici alla sonata dell’Uccello zoppo»), La fidanzata di Elio guarda all’‘area Adalgisa’, ha già i tratti dei futuri «disegni milanesi» (ad esempio nell’esilarante «Anche l’adagio della Patètica, sotto il tocco magico di quelle dita si trasformava in un budino»), mentre, ormai libero da committenti navali, il para-reporter di La festa dell’uva a Marino si aggira nella sagra paesana con le movenze di un Tati-Jour de fête senza biciclo intento a dispensare tinte e pennellate bruegeliane. La biografia del «Papa Paparé» di La chiesa antica, il tassello introduttivo del tripartito Polemiche e pace nel direttissimo, sarà a sua volta supportata dalla tavolozza caravaggesca che ne dipinge il milieu malavitoso e plebeo (penso ai notturni barlumi del «Senza dir nulla, ansimavano chini, le due lame si vedevano ferocemente nell’aria, cercar la gola e la faccia l’un l’altro», o del «nella guardia i labardieri della porta tiravano i dadi, appesa al vôlto la lanterna metteva fumo ed ombre, e non luci»), e dalla caratura arcaica e ‘bruniana’ della lingua, quasi bandita dal cenno alla «Cena delle Céneri». Viceversa, l’odissea ferroviaria spalmata fra i successivi Il fontanone a Montorio e Sibili dentro le valli avrà il timbro proto-neorealistico del coevo Treno popolare di Raffaello Matarazzo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] Si noti che il giudizio sui commilitoni («Dei miei “colleghi” non posso che dir bene») vi rimbalza, mutato di un capello, dal finale di Impossibilità di un diario di guerra all’attacco di Dal castello di Udine verso i monti («Dei miei “colleghi” non devo che dir bene»).
[2] Dell’immagine si ricorderà forse Ripellino che, nei versi di Fantasia per Emilio, la pluralizza in un «noi, fagotti di cenci bagnati, noi, deliranti arlecchini».

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).

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