di Antonio Ingoglia
Sulla guerra nella dottrina canonistica dell’epoca “d’oro”: da Graziano a Rufino
Al suo primo affermarsi come religio pubblica, il cristianesimo si trovò di fronte al problema della liceità del ricorso alle armi da parte dei fideles contro i propri simili, che erano sovente anche correligionari. Già alcuni esponenti della patristica dei secoli in cui era cessata la persecuzione, s’industriarono ad affrontare l’accusa in realtà non nuova di indebolire, con il loro costante richiamo al principio evangelico della pacifica convivenza “quae est effectum charitatis”, l’ordine costituito dell’Impero [1].
Indubbiamente l’esistenza della tragica realtà della guerra, nella quale il potere secolare trascinava di frequente la societas divenuta in gran parte cristiana, influì notevolmente sulla considerazione del ricorso alla forza come un male minore e «un fatale risultato della corruzione della natura umana» [2]. Così, la tesi precedentemente avanzata da Lattanzio, alla quale possiamo aggiungere quella di Tertulliano [3], apertamente contraria alla guerra e alla attività militare, ebbe un diverso sviluppo e una ulteriore elaborazione con Gerolamo e Agostino. Soprattutto quest’ultimo, nella linea del pensiero stoico-ciceroniano arricchito dalla spiritualità cristiana, giustifica il ricorso alla guerra solo se causata da un illecito altrui e quando si prospetti come unico mezzo per garantire la pacifica convivenza che sia stata ingiustamente turbata: «Iniquitas enim partis adversae justa bella ingerit gerenda sapienti» [4].
Tale affermazione, che potrebbe sembrare ardita, non vuole essere una condiscendenza verso la guerra, ma una presa di posizione a tutela della pace, vista come condizione di stabilità di ogni consorzio umano, e definita dal medesimo come «ordinata concordia hominum» [5], la quale può talora venire minacciata dalla ingiusta aggressione altrui. Sicché, pur biasimando l’uso della forza militare, Agostino non esclude che la stessa possa configurarsi come un mezzo per assicurare la pace, la quale non coincide unicamente con l’assenza di guerra, ma con la «tranquillitas animi» [6] di ciascuno nel rispetto di tutti, e cioè di una pax ab intus spiritualmente motivata da un moto di fraterno affetto per il prossimo, chiunque esso sia.
L’evoluzione successiva, quanto alla dottrina sulla guerra, sarà contrassegnata dal progressivo dispiegamento in atto dei princìpi agostiniani, giungendo fino al cuore del Medioevo ed alla cosiddetta “epoca d’oro” del diritto canonico, nel corso della quale si abbozza l’ideale di una società cristiana ordinata [7], e in cui si elabora un vero e proprio corpus giuridico sul ricorso all’uso legittimo della forza. Una prima esposizione sistematica della materia si trova in un’opera che sarà di capitale importanza per tutto lo sviluppo seguente della scientia canonum, ossia il Decretum o Concordia canonum discordantium redatto dal monaco camaldolese Graziano, che ebbe tanta notorietà da meritare, com’è risaputo, di essere ricordato nella Commedia dantesca come colui «che l’uno e l’altro foro unì sì che piace in Paradiso» [8].
Quest’ultimo, affrontando la questione della guerra lecita e dei testi patristici ad essa attinenti, mentre esalta la disponibilità alla carità vicendevole, frutto di «patientiae in preparatione cordis», prevede che il ricorso all’uso della forza possa trovare un fondamento lecito nella urgenza di «recuperare i beni sottratti» e «ob iniuriam repulsandam», statuendo appositi canoni anche sulla legittimità per i fedeli cristiani di fare parte della militia, la quale «non ostentatione coporis est», ma uno strumento di cui lo Stato cristiano si serve, sul terreno temporale, per garantire l’ordinata convivenza, e porre un freno alla naturale malizia e alle umane bramosie [9].
La stessa concezione è del resto evidente in alcuni decretisti, ossia nei commentatori, che soprattutto attraverso le glosse svilupparono i contenuti della riflessione grazianea sulla guerra trasfusa nel Decretum, e fra i quali ultimi spicca Rufino, canonista tra i più sensibili del proprio tempo al tema in questione. Nella Summa decretorum, un’opera rinomata, a giudicare dai costanti richiami che ad essa si fecero nei secoli successivi, questi non esita nel ritenere la illiceità di qualsiasi intervento bellico che non sia «pro pace iustitia tuenda», ritenendo consentita solo la guerra che si fondi su un titolo giuridico valido, come quello di una ingiusta aggressione [10].
Risulta di massima portata in questa dottrina scorgere un elemento che costituirà la base dell’accezione della guerra nella odierna realtà internazionale, la quale può costituire un’opzione lecita solo di fronte ad un’aggressione ingiusta, per ristabilire l’ordine che una potenza belligerante è responsabile di avere violato. Nella pratica politica tanto equivaleva a dire, secondo il paradigma offerto da Rufino, e ripreso da altri decretisti come Stefano di Tournay e Uguccione da Pisa, che ogni azione bellica che non si restringesse a siffatta ragione di restaurazione dell’ordine vigente contro un trasgressore, e non avesse dunque un carattere effettivamente riparatorio, mancherebbe in realtà di qualsiasi fondamento giuridico, sicché in tal caso «absolute iustum bellum esse non potest» [11].
Enrico da Susa, l’interposizione del “superior” nei conflitti armati e la “tregua Dei”
Al vertice della riflessione canonistica sulla guerra, impegnata in un primo tempo ad individuare il discrimine tra “bellum iustum” et “iniustum”, sta il pensiero del cardinale Enrico da Susa, l’Ostiense, cui si riconosce comunemente il merito di avere, nel titolo De tregua et pace della sua Summa aurea, gettato le basi canonico-giuridiche del ricorso alla trattativa come alternativa all’uso della forza per risolvere i conflitti, a prescindere dai motivi che li giustificano.
Significativa si prospetta, sotto questo profilo, l’asserzione dell’Ostiense secondo cui una guerra potrebbe essere “illecita” non solo «quoad substantiam», per l’assenza di valide motivazioni giuridiche, ma anche qualora essa «pur incardinata su una giusta causa di diritto sostantivo, venga però mossa senza avere riguardo a certe speciali competenze a certe speciali procedure»[12], quali appunto la definizione in via equitativa da esperirsi nella fase preliminare del conflitto, o senza che lo stesso sia stato adeguatamente intimato dall’autorità competente all’altro contendente. «Iustum bellum est quod ex edicto geritur», e sempre che il «legitimus superior” proceda “interponendo auctoritatem suam» [13].
Si chiarisce così e si afferma un principio fondamentale, che influenzerà nei secoli a seguire anche lo sviluppo della teorica sulla guerra, e cioè che essa possa dirsi lecita solo se si fonda su due postulati: si può avere il diritto di ricorrere all’azione di forza (ius ad bellum) soltanto in quanto essa sia dichiarata formalmente dall’autorità alla quale spetta provvedere alla difesa dell’ordine violato; arbitro di tale decisione, pertanto, non è che il legittimo principe o l’autorità gerarchicamente competente in virtù del suo ufficio. Quest’ultimo, specialmente nella fase delle schermaglie iniziali, è tenuto sempre nella logica gerarchica a richiedere l’interposizione di una “auctoritas superior” o della “auctoritas iudicis” in grado di vagliare le ragioni del contendere e interporre i buoni uffici per la composizione “de plano” del contenzioso in atto, onde si riteneva che «nulli enim licet arma sumere ad alium impugnandum sine auctoritate iuris vel iudicis» [14]
Sebbene non si abbiano notizie di maggior dettaglio sulla procedura segnalata dall’Ostiense circa questa “interposizione” da effettuarsi in limine litis, essa sembra seguire in ogni caso lo schema tipico del contenzioso giudiziale, mediante una vera vocatio in iudicio di entrambi i contendenti, con conseguenze negative per quello tra i due che risultasse contumace: «hi tamen proprie hostes non sunt, sed quod de suo ad nos pervenit nostrum fit de iure, quod autem de nostro ad ipsos pervenit ipsorum fit de facto» [15]. Ne seguiva che solo a seguito della decisione resa dal “superior” (e sempre che non fosse possibile ricorrere in appello ad un’autorità diversa) si poteva attivare «il meccanismo della guerra, inteso come estremo rimedio praticabile», ovvero in altre parole «quale ultima risorsa, cui ricorrere le volte che fosse stato invocato inutilmente (o fosse rimasto senza effetto) ogni altro procedimento autoritativo di attuazione coercitiva»[16].
A queste affermazioni dell’Ostiense, ancora vaghe anche se importanti, sulla fase prebellica se ne unisce un’altra che concerne la sospensione temporanea delle ostilità, una volta che esse siano divenute effettive: quella che riguarda la denominata “tregua Dei” fatta coincidere, generalmente, con periodi di festività liturgiche o giorni di particolare rilievo ecclesiastico. Tali interventi, sebbene destinati a porre dei limiti temporali alle operazioni belliche, non escludevano (ed anzi vi erano talora preordinati) un accordo più stabile di pace tra i contendenti, specialmente ove il conflitto fosse insorto “inter catholicos”, ovvero tra poteri secolari afferenti alla “societas christiana”. In tutto questo è poi centrale l’ingabbiamento della violenza militare dei milites entro una rete di divieti circa il ricorso a determinate armi (“balistae” e “arcus”) e a particolari tecniche di guerriglia (“insidiae”), anche se non mancano deroghe notevoli al loro concreto utilizzo.
In questa prospettiva si guardava alla “tregua Dei”, come al preludio di una vera e propria “pax Dei”, istituto quest’ultimo nel quale si richiedeva l’intermediazione della Chiesa e quella dei prelati locali, e di cui vi erano già stati in passato precedenti assai significativi, culminati nell’indizione dei denominati “concili di pace” (più verosimilmente di appositi sinodi particolari o regionali). Tra questi ultimi spicca in particolare, quello convocato nel 989 a Charroux in Francia, destinato a rivendicare alle strutture curiali un generale potere di supplenza dell’autorità imperiale nel dirimere controversie insorte tra i signori locali e le loro milizie armate, e quello del 1054 a Narbone in cui l’opera di intermediazione si dispiega fino a ricomprendere veri e propri accordi territoriali con cui le autorità signorili si impegnano a limitare l’esercizio della “vindicatio” e a reprimere le violenze nell’ambito della propria giurisdizione, con la garanzia e l’aggiunta di sanzioni di tipo spirituale comminabili ai trasgressori di quanto veniva dedotto “in pactum” [17].
Del resto quello di prendere il posto dell’autorità cesarea, le volte che fosse necessario supplire alle negligenze di quest’ultima nell’assicurare l’ordine e la pacifica convivenza, sarà un portato della plenitudo potestatis dell’autorità pontificia che troverà più tardi la sua compiuta formulazione dottrinale nella bolla Ineffabilis amoris, con cui Bonifacio VIII affiderà al Papato il ruolo di intermediario nelle contese in atto tra Inghilterra, Francia e Germania, la cui soluzione, «coinvolgendo questioni peccaminose», doveva considerarsi affidata (non dai poteri secolari, né dalla gerarchia, ma da Cristo stesso) alla sua competenza [18].
Ovviamente l’opera di intermediazione ecclesiastica si poneva a diversi livelli e in diversi termini, a seconda che venissero in considerazione le contese tra autorità e unità politiche minori, oppure si trattasse di attività belliche tra potentati nazionali e di più alto rango gravitanti nell’orbita imperiale, i quali fossero comunque disponibili a riconoscere un potere di supremazia suo proprio (ratione peccati) all’autorità di vertice della Chiesa cattolica.
Il dibattito tra Vitoria e Sepùlveda intorno al “bellum iniustum” e le ricadute sull’ordine globale
Al tema della illiceità della guerra, quale si è venuto sviluppando nella canonistica del periodo classico, guarderà con particolare interesse il Vitoria, cui si ascrive il merito di essere intervenuto nel dibattito precedente inquadrando la questione su nuove basi, esaminandola cioè «da un angolo visuale diverso, con prospettive più ampie che abbracciano anche considerazioni fondamentali sul bene comune del mondo intero» [19]. La sua posizione, trasfusa nella Relectio de jure belli [20], si contestualizza infatti in un tornante storico del tutto peculiare, connotato dalle scoperte geografiche e dall’allargamento al Nuovo Mondo dei tradizionali confini della cristianità, la cui unità risultava peraltro messa a rischio in Europa dalla riforma protestante, e dal sempre incombente pericolo dei turchi, accentuato «dal definitivo tramonto dell’ideale crociato» [21].
In contrasto con Sepulveda (con cui, insieme al canonista Las Casas, intreccia un’acre ed aspra polemica a distanza circa l’allora attualissima questione dei nativi americani), il Vitoria ribalta la percezione negativa di tali popoli, che erano stati definiti barbari, e quindi privi «della naturale capacità ad esercitare il dominio sulle loro terre» [22], e condanna i metodi usati da conquistadores ed encomenderos per assoggettarli al loro dominio. Egli quindi supera, nello sforzo di vedere riconosciuta la dignità degli originari amerindi, sia la cosiddetta dottrina giuridica della conquista, che affidava agli imperi ispano-portoghesi i diritti esclusivi sui territori raggiunti dalle loro scoperte [23], sia la liceità della guerra mossa contro gli stessi, per affermare che neppure il fatto che essi siano estranei alla civiltà cristiano-occidentale giustifica la violenza perpetrata a loro danno.
Per quanto il suo sia un messaggio che l’Europa del Cinquecento, impegnata nelle guerre di espansione coloniale, non è ancora in grado di fare interamente proprio, esso tuttavia otterrà l’adesione dei vertici ecclesiastici, i quali fin dal 1537, sulla scia della bolla Veritas Ipsa emanata da Paolo III e indirizzata al cardinale di Toledo, mutano il tradizionale appoggio alla conquista, contrastando con quanti negavano ai nativi americani la dignità di persona umana [24]. È segno più che evidente di questo mutamento, in particolare, il divieto di riduzione in schiavitù e l’affermazione circa l’invalidità di ogni contratto redatto in tal senso, contenuti nel breve che accompagna la suddetta bolla, insieme a parole di inusitata forza nei riguardi delle carenze morali dei conquistadores iberici e delle virtù naturali dei nativi delle Indie occidentali che venivano invece esaltate e messe in rilievo:
«ad ipsum ovile toto nixu exquirimus, attendentes Indos ipsos, ut pote veros homines, non solum christianae fidei capaces existere, sed ut nobis innotuit ad fidem ipsam promptissime currere, ac volentes super his congruis remediis providere, predictos Indos et omnes alias gentes ad notitiam christianorum in posterum deventuras, licet extra fidem christianam existant, sua libertate ac rerum suarum dominio huiusmodi uti et potiri et gaudere libere et licite posse, nec in servitutem redigi debere».
Di tutt’altro avviso Sepùlveda il quale, nell’Apologia pro libro de iustis causis belli [25] pubblicata nel 1550, distanziandosi dalle argomentazioni degli scrittori salmaticensi (e fra essi dello stesso Las Casas, cui si deve peraltro la denunzia degli eccessi e delle crudeltà dei coloni ispanici, nonché una perorazione accorata per l’evangelizzazione pacifica degli indigeni [26]), si fa propugnatore della sottomissione di questi ultimi con ogni mezzo, coniando il concetto di un bellum iustum contra Indios, sviluppato teoricamente in accordo con i principi aristotelici [27], e basato sulla naturale propensione alla servitù di tali popoli, che egli riduce peraltro alla categoria di similitudini hominis.
È nel contesto di questo dibattito che, a parere di Vitoria, occorre rivisitare la questione della liceità della guerra, il ricorso alla quale è consentito unicamente «dopo che siano state esaurite tutte le forme di persuasione pacifica, non solo a parole, ma anche attraverso fatti concreti che mostrino la volontà pacifica degli spagnoli di instaurare un rapporto con i nativi americani su basi di reciproca utilità» [28]. La guerra contro tali popolazioni è vista quindi non solo come un’extrema ratio, ma può considerarsi lecita, unicamente ove essa rivesta un carattere prevalentemente difensivo,
«Quod si reddita ratione barbari nollent acquiescere, sed vellent vi agere, hispani possunt se defendere et omnia agere ad securitatem suam convenientia quia vim vi repellere licet. Et non solum hoc, sed si aliter fieri non posset, possunt artes et munitiones aedificare. Et si acciperent iniuriam, illam auctoritate principis bello persequi et alia belli iura agere» [29].
Altrove poi, lo stesso precisa che sebbene talora sia lecito muovere guerra come difesa all’altrui provocazione, possa rappresentare un vero e proprio obbligo opporvisi quando questa, malgrado «la sua utilità per una provincia causerebbe un danno all’Universo e alla cristianità» [30], valutandone gli effetti e le ricadute, come si accennava, nell’ambito delle relazioni tra tutti i soggetti che costituiscono la comunità dei popoli, allora gravitanti nell’orbita della societas christiana. Può risultare importante ricordare, a questo proposito, come tuttavia egli si fosse lasciato alle spalle «gli universalismi medioevali, incentrati sulla figura dell’imperatore e del papa», ai quali negava un potere specifico nel dichiarare le guerre, al di fuori della comunità totius orbis, tanto da ritenere che l’indizione delle medesime potesse effettuarsi unicamente «iure gentium et orbis totius auctoritate» [31].
Senza entrare nel merito delle differenti valutazioni sull’apporto di Vitoria alla riflessione sul tema della guerra nel moderno diritto internazionale, a proposito del quale vi è una varietà di posizioni [32], va ascritto a suo merito certamente l’avere ricondotto entro termini più ampi la valutazione circa la liceità del ricorso all’uso della forza, sicché mentre nel Medioevo si riteneva che gli altri popoli potessero rimanere estranei all’azione promossa dai belligeranti, mantenendo uno stato di indifferenza, il giudizio sulla opportunità della guerra, secondo il nostro, si allarga fino a ricomprenderne le ricadute sulla universalis respublica, intesa come rappresentativa di tutto il genere umano e retta dallo jus gentium, dimodoché il ricorso ad essa si giustifica unicamente «ex fine et bono totius orbis».
Si tratta certamente di una visione che presenta molti aspetti innovativi e che, sebbene risulti problematico estendere alla odierna realtà internazionale, ci sembra non si discosti assai dalla posizione oggi divenuta prevalente, secondo la quale il ricorso all’uso (anche unilaterale) della forza e alle azioni coercitive armate, non possa consentirsi se non per il conseguimento degli interessi comuni dei popoli, fermo restando che ciò rimane un’ipotesi del tutto residuale, esercitabile unicamente allorché siano stati esperiti tutti i rimedi alternativi, volti a gestire gli inevitabili conflitti della convivenza, all’interno comunque del sistema di sicurezza collettiva e globale.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] F. Hübler Petroncelli, Considerazioni sul diritto di guerra nella dottrina cattolica, LSE, Napoli, 1969: 9.
[2] O. Giacchi, Lo Stato laico, in Vita e Pensiero, I, 1978: 23. Per una sintesi ed una valutazione critica della dottrina sulla guerra come “male minore” nella riflessione patristica v., tra gli altri, W. Regout, La doctrine de la guerre juste de Saint Augustin à nos jours, Pedone, Paris, 1935; Y. (de) La Brière, Le droit de juste guerre, Parigi, Pedone, 1938; P. Bellini, “Bellum inter catholicos”. Considerazioni canonistiche sulle contese militari fra i Principi della Repubblica cristiana, in Raccolta di scritti in memoria di Raffaele Moschella, Grafica ed., Perugia, 1985: 553-56; Id., Il gladio bellico, Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell’età classica, Giappichelli, Torino, 1989.
[3] Per gli scritti di Tertulliano (De Corona et de Idolatria) e di Lattanzio (Divinae institutiones) v. J. P. Migne, Opera Omnia, Patrologia Latina, voll. VI e VII, Auctorum omnium alphabeticus.
[4] De Civitate Dei, XIX: 7.
[5] Ivi: 13.
[6] Ivi, XIX: 14.
[7] L. Musselli, Storia del diritto canonico. Introduzione alla storia del diritto e delle istituzioni ecclesiali, Giappichelli, Torino, 1992: 11 ss.
[8] Paradiso, Canto X, 104-105.
[9] Decretum, Qu. I, C. XXIII. Inoltre Qu. I, C. VII, dove si afferma “Ex his omnibus colligitur, quod militare non est peccatum”.
[10] Summa decretorum, Qu.2, c.23.
[11] Ibidem.
[12] P. Bellini, Il gladio bellico, Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell’età classica, cit.: 75.
[13] Summa Aurea, tit. De tregua et pace, n.4, folio 59 r-b.
[14] Ibidem
[15] Summa Aurea, tit. De tregua et pace, n.3 folio 58 v-b.
[16] P. Bellini, Il Gladio bellico, cit.: 84-85.
[17] Voce “Tregua di Dio”, in: Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 05.03.2015(traduzione dal tedesco). Online: https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/008952/2015-03-05/. Inoltre, E. Bollati, Di un inedito documento sulla tregua di Dio, Stamperia Reale, Torino, 1878.
[18] C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, Il Mulino, Bologna, 1996: 83. In argomento, per approfondimenti cfr. M. Rizzi, Plenitudo potestatis”: dalla teologia politica alla teoria dello stato assoluto, in Annali di storia moderna e contemporanea, 16, 2010: 153-164; nonché C. Cardia, Universalità della funzione petrina (ipotesi ricostruttive), I: Fondamento e sviluppo storico del primato. II: Funzione petrina, modernità, era globale, in Ius Ecclesiae, 23, 2011: 33-55; A. Marongiu, Alle favolose origini di un potere legislativo pontificio unico ed esclusivo, in Ephemerides iuris canonici, 45, 1989: 309-322; C. Fantappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Il Mulino, Bologna 2011: 89-101.
[19] F. Hübler Petroncelli, Considerazioni sul diritto di guerra nella dottrina cattolica: 15.
[20] Per il testo v. Relectio de jure belli. Escuela española de la paz. Primera generación 1526-1560, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Escuela Española de la Paz, Madrid, 1981.
[21] Cfr. C. De Frede, Cristianità ed Islam, Tra la fine del medio evo e gli inizi dell’età moderna, 2 ed. riv., De Simone, Napoli, 2002: 17 ss.; M. Pellegrini, La crociata nel Rinascimento. Mutazioni di un mito (1400-1600), Le lettere, Milano, 2014: 33 ss.
[22] P. Costa, “Classi pericolose” e “razze inferiori”: la sovranità e le sue strategie di assoggettamento, in Il governo dell’emergenza. Poteri straordinari in Europa tra XVI e XX secolo, Viella, Cesena, 2007: 12 ss.
[23] Sulla denominata dottrina “della scoperta” la bibliografia risulta assai ampia. Per un approccio generale cfr. A. Pirotto, La bula de Alejandro VI como título a la conquista de América, in Segundo Congreso Internacional de Historia de América, Academia Nacional de la Historia, Vol. IV, Buenos Aires, 1938: 331-339; A. Antunes de Moura, La posesión de la mer dans les Bulles d’Alexandre VI, in Actes du XXVIIIe Congrès International des Américanistes, Musée de l’Homme-Société des Américanistes, París, 1947: 149 ss.; M. Giménez Fernández, América, ‘Ysla de Canaria por ganar’, in Anuario de Estudios Atlánticos, 1, 1955: 309-336; A. Garcia Gallo, Las bulas de Alejandro VI y el ordenamiento juridico de la expansiòn portuguesa y castellana en Africa e Indias, in Annario de Historia del Derecho español, vol. 27-28, 1957-1958: 461-829; A. De La Hera, La Santa Sede e l’evangelizzazione dell’America, in L. Vaccaro (a cura di), L’Europa e l’evangelizzazione del Nuovo Mondo, Centro Ambrosiano, Milano, 1995: 71-86; A. Fernández de Córdova Miralles, Alejandro VI y los Reyes Católicos. Relaciones político-eclesiásticas (1492-1503), Università della Santa Croce, Roma, 2005: 489 ss.
[24] Conosciuta anche col nome di Sublimis Deus o di Excelsus Deus, la bolla papale risolve la questione sulla natura degli indigeni americani e quindi sulla loro capacità a ricevere i sacramenti. Per il testo F. J. Hernaez, Collección de bulas, breves y otros documentos relativos a la Iglesia de America y Filipinas, Kraus, Bruselas, 1879:102-103
[25] L’opera venne stampata, si presume non senza l’avallo ecclesiastico, a Roma per i tipi di “Valerium Doricum & Ludovicum fratres”, nel 1550. Per la restante produzione letteraria dello stesso autore cfr. A. Losada, Juan Ginés de Sepulveda a través de su Epistolario y nuevos documentos, CSIC, Madrid, 1949; U. Castilla Urbano, El pensamiento de Juan Ginés de Sepúlveda: Vida activa, humanismo y guerra en el Renacimiento, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2013.
[26] Per una bibliografia sugli scritti di Las Casas, nei quali denunzia gli eccessi e le crudeltà di conquistadores ed encomenderos, vedi, in particolare, D. C. Gutierres, Fray Bartolomé de las Casas, sus tiempos y su apostolado, Fortanet, Madrid, 1878; A. M. Fabié, Vida del P. Fray B. de L. C., in Collección de doc. inéditos, Vol. LXX, Ginesta, Madrid, 1879; M. Brion, B. de L.C., père des Indiens, ed. Plon, Parigi,1927; G. Gutiérrez, Dio o l’oro. Il cammino di liberzione di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, 1991; L. Iglesias Ortega, Bartolomé de las Casas: Cuarenta y cuatro años infinitos, Siviglia, Fundación José Manuel Lara, 2007.
[27] Si veda G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573), “Veri domini” o “servi a natura”?, in Studio Dominicano, 1, 2018: 9-13.
[28] M.Geuna, La teoria della guerra giusta e il dibattito sulla conquista in Francisco de Vitoria,in Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2006, in juragentium.org.
[29] De Indis, I, 3, 5: 83
[30] De potestate civili, n.3
[31] M.Geuna, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, in G. Daverio (a cura di), Dalla concordia dei greci al bellum iustum dei moderni, University Press, San Marino, 2013: 145.
[32] Per un approccio alla questione cfr. BERTI, Enrico, Francisco de Vitoria nell’interpretazione di Carl Schmitt, in “L’universalità dei diritti umani nel pensiero cristiano del ’500”, contributi al 47”, Convegno di studi di Gallarate, R. & Sellier, Milano, 1995: 139 ss.
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Antonio Ingoglia, è professore Associato presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, dove insegna Diritto ecclesiastico italiano e comparato e Diritto matrimoniale canonico. Ha conseguito l’abilitazione scientifica all’Ordinariato per il settore scientifico IUS/11. È stato coordinatore scientifico del master di II livello in “Gestione e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici” e del master di I livello in “Welfare migration”. Ha diretto il summer course internazionale su “Fenomeni migratori, diritti umani e libertà religiosa”, organizzato in partenariato con l’Università autonoma di Madrid e con l’Università di Alcalà de Henares. Ha pubblicato in Italia e all’estero numerosi articoli scientifici ed è autore di alcune monografie: La partecipazione dello Stato alla nomina dei vescovi nei Paesi ispano-americani (Giappichelli, 2001), La separazione tra coniugi in diritto canonico. Profili processuali (Giuffrè,2004); Ut filii habentur”. La rilevanza canonica della filiazione adottiva (Aracne, 2017), e infine L’America dei Concordati. Sistemi pattizi e di cooperazione nel subcontinente (Liberiauniversitaria, 2020). È anche curatore dei volumi Fenomeni migratori, diritti umani e libertà religiosa (Libreriauniversitaria, 2017) e Governo della Chiesa e Curia Romana. Tra riformismo e tradizione (Pellegrini, 2023).
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