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Del “mobil-uomo” contemporaneo

9788815386694_0_536_0_75di Orietta Sorgi 

Cosa succede nella postmodernità quando ci si allontana dalle proprie radici, quando si perde il senso dell’appartenenza al luogo dove si è nati e cresciuti e dove si resta in qualche modo legati dai ricordi del passato e dalle trame di relazioni affettive ed emozionali? Quando, per dirla con Ernesto de Martino, si perde il “centro” e la patria, in altre parole la propria identità culturale? Accade probabilmente quello stesso senso di smarrimento, quell’angoscia esistenziale per la paura dell’ignoto, che avvolge il pastore calabrese durante il tragitto con l’etnologo napoletano, quando vede svanire a poco a poco dal suo orizzonte visivo il campanile di Marcellinara, ultimo punto di riferimento di uno spazio consolidato.

Nel tempo della globalizzazione tutto è accelerato secondo la logica del “qui e ora” che rende estremamente labili ed evanescenti i confini e le distanze spaziali in nome di una mobilità sempre crescente. Viviamo in una società liquida per usare un termine di Zigmunt Bauman, oggi un po’ abusato, ma sempre efficace nel sintetizzare il disintegrarsi delle coesioni sociali, di quei vincoli comunitari che garantiscono il perpetuarsi della vita associata.

Queste nuove tendenze della post-modernità vengono esaminate da più punti di vista da due sociologi, Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, nel loro ultimo volume dal titolo Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud d’Italia, edito dal Mulino. Si tratta di una conversazione, o meglio di un confronto incalzante, sul tema del viaggio o della spartenza per richiamare la condizione di sofferenza del contadino meridionale Tommaso Bordonaro che nel secondo dopoguerra è costretto a emigrare negli Stati Uniti, separandosi dai luoghi d’origine.

Nel nostro caso si tratta di una condizione ben diversa da quella degli emigrati dello scorso secolo che dal Sud si spingevano al Nord in cerca di occupazione o attraversavano l’oceano per il nuovo continente; diversa anche dai nuovi migranti in fuga dai loro paesi oppressi da guerre e carestie. E diversa ovviamente anche dal turista occasionale o dal viaggiatore curioso che si sposta continuamente per svago o per arricchire le proprie conoscenze.

Qui i due protagonisti sono esponenti del ceto medio-alto, di una classe intellettuale costretta a spostarsi per far fronte a una moltiplicazione degli impegni di lavoro e di esigenze sociali e familiari. Più che di annullamento dell’identità, come voleva de Martino, o di una crisi della presenza, ci troviamo di fronte a una scomposizione di identità, di più identità che si dispiegano lungo esperienze di vita frammentate in tanti luoghi e in varie occasioni. Gli spaesati sono dunque un effetto del mondo contemporaneo e rappresentano una categoria di viaggiatori sempre più numerosa e diffusa al giorno d’oggi, la cui quotidianità trascorre quasi sempre in transito, fra aeroporti e stazioni ferroviarie.

I due autori, rispettivamente il maestro e il suo allievo, sono due docenti universitari, interpreti, per ragioni professionali, di “vite mobili”, in direzioni inverse: l’uno, il primo, viaggia da Nord verso Sud, da Milano a Cosenza; il secondo, al contrario, dalla Calabria all’Italia settentrionale. Un dialogo fra due generazioni che hanno condiviso le medesime scelte ma in momenti storici diversi: Paolo Jedlowski, studente nella Milano negli anni 70, post Sessantotto, ai tempi della contestazione universitaria, quando si gridava “Nord e Sud uniti nella lotta”, un desiderio non realizzato e probabilmente mai realizzabile. Massimo Cerulo, generazione anni 80 del Novecento e studente nell’Arcavacata (Cosenza) del Duemila, sorta sul modello dei campus americani e della stagione Erasmus. Il primo, dopo un lungo peregrinare, approda in Calabria e vi rimane, anche per ragioni sentimentali – la moglie riceve un incarico in quella Università. Il secondo, conclusi gli studi ad Arcavacata, sogna di andare via e dare seguito a diversi progetti e nuove prospettive: perché mai restare – si chiede – «se quel Sud, magari dopo averci permesso di studiare con profitto, ci ha ostracizzati, cacciati via, asfissiati?».

L’aver fissato dimora al Nord o al Sud non costituisce tuttavia un punto d’arrivo permanente, una condizione di stabilità in quanto la vita stessa dei due studiosi si configura come un perenne movimento. Jedlowski ha casa a Cosenza, ma i genitori a Milano, mentre la moglie è a Roma con figli e nipoti e un altro figlio in Francia. Cerulo è originario della Calabria dove ha lasciato i genitori e dopo una lunga gavetta universitaria all’estero e in molte città del Nord e del Centro Italia, è approdato a Milano, ma insegna a Napoli.

md31128863986In questo continuo movimento sorge la necessità di creare delle nuove abitudini, dei comportamenti standardizzati, occasioni rituali e condivise che si svolgono in certi luoghi di sosta come i caffè degli aeroporti o delle stazioni ferroviarie o le librerie: i cosiddetti “luoghi terzi”, che si pongono come spazi intermedi fra le partenze e gli arrivi.

Il rischio è quello tuttavia di una polverizzazione delle esperienze e delle molteplici vite possibili: di una disintegrazione, come avvertiva Walter Benjamin individuando nell’atrofia dell’esperienza una caratteristica saliente dei nostri tempi. Dove la velocità, l’offerta crescente di nuovi stimoli moltiplica di fatto le esperienze, ma al tempo stesso le vanifica. I vissuti non si legano – osserva Benjamin – non lasciano nulla, non si impara, non creano consapevolezza. L’esperienza non è data dal mero fatto di vivere, ma dal processo che della vita ci rende consapevoli. La riappropriazione del vissuto, la consapevolezza delle esperienze può avvenire solo attraverso il racconto. Nel richiamare Benjamin, Jedlowski sostiene che le vite mobili sono vite frammentate, poco integrate fra di loro, e il racconto è un dispositivo di costituzione di nessi, dunque reintegra. Proprio al racconto il nostro autore ha dedicato tempo fa un libro dal titolo Il racconto come dimora a commento di un’opera cinematografica di Edgar Reitz, Heimat, in cui si nota l’incapacità dei reduci dalla Prima guerra mondiale di raccontare a casa ciò che avevano vissuto al fronte. Il paese natio e la trincea erano ambiti di esperienza inconfrontabili, non era possibile integrarli.

Così le molteplici esperienze del nostro “mobil-uomo” contemporaneo, non comunicano fra di loro, non hanno neanche il tempo di diventare racconti, a volte non vengono neanche percepite, restano inconsapevoli come frammenti scollegati. Solo la scrittura a questo punto può avere una funzione reintegrativa per la capacità di dare un nome alle esperienze, di ordinarle e portarle a compimento. Ha il potere di ricomporre le lacerazioni. Così Jedlowski fa appello a una sociologia narrativa con ampio ricorso a opere letterarie, cinematografiche e musicali a dimostrazione dell’efficacia simbolica dei diversi registri espressivi.

9788833919614_0_536_0_75Una lettura stimolante che per questo lascia molte questioni aperte, come quella della nostalgia ad esempio. Da nostos, ritorno e algos, dolore ma anche desiderio, la nostalgia esprime non solo il desiderio di ritornare ma al tempo stesso quello di ripartire. Uno struggimento determinato dalla consapevolezza che è impossibile ritrovare i luoghi così come si erano lasciati dove si era stati felici e dunque ancorare il passato ai propri ricordi.  Lo esprime, con estrema lucidità, Cesare Pavese ne La luna e i falò e nel rapporto di due amici Anguilla e Nuto, di chi è partito e di chi è rimasto.

La nostalgia è un fatto e non può essere cancellata, è piuttosto una condizione esistenziale, una tensione verso l’altrove, che sia un passato irrimediabilmente perduto, o un qualcosa che deve ancora venire (Teti, 2020; 2022). Anche quando la si liquida come il padre di Jedlowski, esule da Zara, o la si coltivi nel rimpianto, con la nostalgia bisogna sempre fare i conti. Cerulo ricorda a questo proposito due tipi di nostalgia: restaurativa che invita al ritorno, alla ricostruzione di una dimora originaria e perduta; riflessiva quando accetta la perdita e si tenta di elaborarla.

Emblematici sono i due protagonisti del film di Woody Allen, Midnight in Paris: la ballerina sceglie volutamente di fermarsi a vivere negli anni venti della capitale francese, l’età d’oro dei caffè chantants e di Tolouse Lautrec; mentre il giovane scrittore americano decide di ritornare nell’attualità dopo aver vissuto e incontrato per magia i grandi intellettuali di quel tempo, da Hemingway a Scott ed Zelda Fitzgerald, Picasso e la Steine. L’eterno dilemma di chi fugge e chi resta, ancora una volta.

«Essere a casa o essere in viaggio: cosa cerchiamo?» – si chiedono in chiusura gli autori. Forse entrambe le cose. È uno stato d’animo destinato a non trovare risposta nel corso di queste conversazioni. È vero che una vita mobile può procurare vantaggi, ma lascia sempre una tensione di fondo. Qualcosa di irrisolto. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Riferimenti bibliografici 
Bauman, Z. 2023    Modernità liquida, Bari, Laterza 
Benjamin, W. 1976    Angelus Novus, Torino, Einaudi 
Bordonaro, T. 1991    La Spartenza, Torino, Einaudi 
De Martino, E. 1977    La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi 
Jedlowski, P. 2008    Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri 
Pavese, C. 2005    La luna e i falò, Torino, Einaudi 
Teti, V. 2020    Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Bologna, Marietti
   –           2022    La Restanza, Torino, Einaudi

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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