Lo stabilimento Fiat di Termini Imerese viene ufficialmente dismesso il 31 dicembre del 2011, al termine di una complessa e pluriennale vertenza tra sindacati, istituzioni locali e nazionali e gruppo industriale. La fabbrica era sorta nel 1970, grazie a cospicue agevolazioni fiscali – previste dalla legislazione nazionale per l’industrializzazione del Mezzogiorno d’Italia – e a un contributo economico significativo da parte dell’ente regionale siciliano. L’installazione dello stabilimento rientrava in una specifica fase della storia politica ed economica siciliana, quella della transizione da un’economia prevalentemente agricola ad una a vocazione industriale (Cancila 1995). L’installazione di Termini Imerese, tuttavia, si inseriva parimenti all’interno di una peculiare strategia aziendale perseguita dal gruppo Fiat, interessata ad un ampliamento del fronte produttivo nel sud Italia, ove avrebbe potuto non solo godere di benefici economico-fiscali ma anche reclutare una manodopera quasi per nulla sindacalizzata e, dunque, assai poco conflittuale (Lerner 2010; Germano 2008).
Quali ricadute ha generato sul tessuto sociale del distretto termitano quell’esperimento economico-produttivo? Possono essere ravvisati dei mutamenti nel rapporto tra soggettività e lavoro, rapporto mediato da cangianti riferimenti culturali, centrali nella mediazione tra il Sé e l’ambiente circostante e di volta in volta rimodulati secondo le trasformazioni cui vanno incontro le relazioni produttive e i sistemi di norme e di valori che le sostengono? E quale impatto ha determinato la fine dell’esperienza del lavoro in fabbrica, dalla connotazione economica salariale e più o meno direttamente riconducibile a una specifica – ma non per questo immutabile – cultura del lavoro, sintetizzabile nella formula deduttiva della ‘coscienza operaia’, la cui angosciante ma tutto sommato prevedibile conclusione ha schiuso innanzi a sé un orizzonte di precarietà e destrutturazione esistenziale per i lavoratori direttamente coinvolti e per tutto il territorio di Termini Imerese?
Pensare la deindustrializzazione.
A queste domande prova a dare una risposta Tommaso India, autore di Antropologia della deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese, apparso nel 2017 per i tipi di ‘editpress’. Il volume ripercorre la fase temporale immediatamente successiva alla chiusura dello stabilimento termitano, ricondu- cenendo la vicenda locale entro il più generale quadro dei processi di deindustrializzazione che caratterizzano la transizione economico-produttiva globale verso uno scenario post-industriale. L’autore propone a tal riguardo un’ampia rassegna di studi dedicati al fenomeno, presentando così al lettore una variegata e interessante sequenza di monografie e casi studio riferiti principalmente al contesto europeo, nordamericano e africano. Nonostante la diversità degli attori sociali e delle agenzie esaminate, è possibile scorgere dei tratti comuni che marcano l’esperienza sociale della deindustrializzazione.
La prospettiva antropologica su questi processi non si limita a ricostruire la fitta maglia di relazioni produttive che attraversano il mondo (lasciando ugualmente ‘scoperte’ e isolate dai nodi dello sviluppo ampie porzioni del pianeta, come ricorda James Ferguson (2006) a proposito del continente africano) secondo le flessibili necessità della globalizzazione economica capitalistica, ma si incarica di indagare i mutamenti nelle modalità con cui le persone si rapportano al lavoro; l’apporto della dimensione lavorativa alle auto ed etero rappresentazioni identitarie; le trasformazioni negli status sociali dei lavoratori precedentemente impiegati nel settore industriale; i cambiamenti nelle percezioni temporali e spaziali degli attori sociali e delle comunità di cui fanno parte.
Ne consegue che l’antropologia della deindustrializzazione è un tentativo di lettura dei nostri tempi di crisi che si propone di non fermarsi all’analisi quantitativa dei dati che riportano la contrazione dei volumi della produzione, la fine della crescita economica o i tassi di occupazione e disoccupazione. Essa mira piuttosto a restituire la dimensione del ‘significato’, assai cara, del resto, all’antropologia. Si tratta cioè di comprendere, rispetto alla situazione di crisi, in che modo individui e gruppi immaginino e rimodulino il proprio Sé in rapporto al lavoro che cambia o che viene a mancare.
Questa impostazione attinge in parte a una tradizione di studi collocabili tra l’antropologia economica e l’economia culturale, tra i cui più insigni rappresentanti possiamo senz’altro annoverare Clifford Geertz e Marshall Sahlins, secondo i quali la diade pensiero/comportamento economico altro non è che l’espressione di valori afferenti a un preciso piano simbolico, determinante (molto più della dimensione strettamente materiale) entro ogni specifica configurazione culturale. Ne consegue l’invito a relativizzare il concetto di razionalità economica, non generalizzabile nei modelli di analisi elaborati dagli economisti (Sahlins 1994; Wilk 2007).
Descrivendo sinteticamente l’impianto del volume, a partire dal nesso intercorrente tra lavoro, individuo, comunità e valori culturali l’autore dedica un capitolo all’indagine delle strategie e delle rappresentazioni identitarie a cui i lavoratori dello stabilimento termitano hanno aderito, pervenendo così alla demarcazione di importanti elementi di distinzione tra le diverse generazioni di operai.
L’attenzione alla dimensione del corpo e al suo sfruttamento trova spazio in un altro capitolo in cui, attingendo alla lezione foucaultiana, vengono ravvisati nella gestione del lavoro in fabbrica e nel controllo capillare delle azioni degli operai quei processi di plasmazione del soggetto cui la governamentalità neoliberale fa ricorso per disciplinare silenziosamente gli aspetti più intimi della vita delle persone. È questo un tema che nelle ultime settimane ha suscitato grande dibattito per via dell’ipotesi, paventata dai vertici di Amazon, di dotare i lavoratori della grande azienda multinazionale di un braccialetto elettronico in grado di verificarne e guidarne i movimenti. Al di là del clamore che ciò ha suscitato – nel pieno della campagna elettorale per le prossime elezioni politiche – giova ricordare che quel tipo di controllo ‘biopolitico’, premessa di una depoliticizzazione della realtà sociale, in fondo, non è nuovo. Basti pensare al referendum che nel 2010 in un altro stabilimento Fiat, quello di Pomigliano d’Arco, vedeva come oggetto di consultazione un nuovo modello contrattuale che prevedeva, tra l’altro, la riduzione delle pause durante la produzione, ivi compresa quella per la mensa, da rinviare a fine turno.
Più in generale, è difficile non riscontrare nella microfisica delle relazioni di potere esistenti sui luoghi del lavoro, oggi, un tentativo di disciplinamento della soggettività del lavoratore, che riproduce, sotto nuove insospettabili sembianze, inedite dinamiche di alienazione, sovente legittimate mediante il ricorso ai motivi della responsabilità individuale e dell’autoregolamentazione di cui si nutre la narrativa neoliberale (Wacquant 2012). Tuttavia, non siamo in presenza di un asimmetrico dominio verso cui non vi è possibilità di opposizione, dal momento che gli operai riescono ad attuare pratiche quotidiane di micro-resistenza, come Tommaso India riesce a mostrare anche in riferimento a Termini Imerese.
In un successivo capitolo, l’autore mutua concetti e metodiche dell’antropologia politica – specialmente britannica – per ricostruire l’affresco dei rapporti e della conflittualità tra sindacati e Fiat, ma anche tra sindacati e istituzioni e tra le stesse sigle sindacali, durante la lunga e complessa vertenza. Non potendo dilungarmi esaurientemente al riguardo, mi limito a segnalare la brillante intuizione con cui vengono considerate le similitudini tra i plurimi livelli di conflittualità che hanno marcato le varie fasi delle relazioni industriali tra i soggetti politici attivi a Termini Imerese e la vita politica delle società lignatico-segmentarie che, da Durkheim a Evans-Pritchard e fino a Michael Herzfeld, ha costituito una delle più abusate ma feconde ‘zone di teoria’ (Abu-Loghud 1989) della riflessione etnoantropologica. Provocatorio e allo stesso tempo stimolante, a proposito dell’efficacia dei sindacati e dell’utilità della loro azione nei contesti del lavoro contemporaneo, appare poi la questione del ‘gioco’ della rappresentanza sindacale, e della sua persistenza ben oltre la dismissione produttiva dello stabilimento, quasi a suggerire una contesa per il potere della rappresentatività che sfocia in un’autoreferenziale ‘rappresentazione senza rappresentanza’ (Bourdieu 1988).
Infine, la cessazione della produzione a Termini Imerese provoca una destrutturazione e una conseguente rimodulazione delle categorie spazio-temporali con cui i lavoratori esperivano la realtà sociale circostante e le loro stesse traiettorie esistenziali. Se prima lo stabilimento costituiva uno spazio identitario riconosciuto da una vasta ed eterogenea schiera di attori sociali ed agenzie, cosa ne è oggi di quella ‘località’ – intesa à la Appadurai (2001) come sito sociale foriero di riconoscimento reciproco e intessitura di relazioni sociali significative, un tempo codificate entro la dimensione totalizzante del lavoro? Come possono, gli ormai ex lavoratori dello stabilimento, dotare il proprio agire di una qualsivoglia parvenza di profondità storica, sospesi come sono in un asfittico ed eterno presente di precarietà economica ed esistenziale, costellata di assunzioni a tempo determinato, incerte ricollocazioni, evidente impossibilità di pianificare un progetto di vita stabile e duraturo?
Vorrei adesso soffermarmi su tre tracce metodologiche particolarmente pregevoli nell’architettura complessiva del libro e che l’autore suggerisce di adattare ai contesti attraversati dai processi di ristrutturazione del capitale globale.
Geografie produttive globali
La prima concerne l’opportunità di inserire fatti sociali e contesti locali in un continuum in cui il globale è indissociabile dalle azioni e dagli immaginari con cui gli attori sociali in carne ed ossa si rapportano, in ogni angolo del globo e nella fattispecie nel distretto termitano, a flussi culturali ed economici più ampi.
In questo senso, Tommaso India attinge a una tradizione di studi socio-antropologici che ha rivolto gran parte dei suoi sforzi a cogliere nelle relazioni economiche globali l’impalcatura di modelli di sviluppo incaricati di estendere all’intero pianeta modernizzazione e benessere, in particolar modo ai Paesi non ancora assestati su di un livello ritenuto adeguato di sviluppo. Esemplificativa di tale impostazione è la cosiddetta ‘teoria dei sistemi mondiali’. Il suo maggior esponente, Immanuel Wallerstein (1982), organizzò la storia mondiale dividendola tra cicli di espansione e crollo dei sistemi economici.
Lo studioso tedesco Andre Gunder Frank (1969) aveva già aggiunto un elemento di ulteriore complessità alla questione, asserendo che le cosiddette società tradizionali non fossero rimaste ancorate ad uno stadio precapitalistico, ma che avessero subìto una trasformazione prodotta direttamente dall’abbattimento su di esse del capitalismo, diventando così una varietà di capitalismo periferico. Il tema è particolarmente complesso per poter essere trattato approfonditamente in questa sede. Sulla liceità di una differenzazione tra capitalismo ‘centrale’ e capitalismo ‘periferico’, distinzione weberianamente sorretta da specifiche configurazioni di razionalità economica con cui gli attori sociali perseguono gli obiettivi di accumulazione e massimizzazione, molti autori si sono interrogati (Yanagisako 2002 ).
La scuola marxista americana colse nell’incontro tra culture ed economie locali e il sistema capitalistico in espansione globale la presenza di una resistenza che le prime riescono spesso a mettere in pratica. Eric Wolf (1990), in particolare, confutò la tesi secondo cui il capitalismo avrebbe esercitato un’azione di annullamento delle diversità economiche e culturali locali incontrate sulla sua strada, rendendole uniformi ed omogenee. Venne piuttosto posta attenzione all’interazione reciproca tra capitalismo e sistemi locali, il cui esito è tutt’altro che scontato e in cui la ‘cultura’ gioca un ruolo nella rinegoziazione dei significati prodotti dall’impatto di un sistema di produzione su di un altra organizzazione della sussistenza umana.
Credo rientri in questa prospettiva storico-antropologica l’operazione con cui l’autore riconduce l’apertura dello stabilimento termitano della Fiat a una delocalizzazione ante litteram e interna al territorio nazionale, frutto dell’incontro tra le strategie di mercato del gruppo industriale e il bisogno di crescita economica che la classe politica siciliana avvertiva in tutta la sua urgenza. L’accostamento tra l’apertura dello stabilimento e un’operazione di delocalizzazione richiama inoltre quei complessi processi di globalizzazione economica che prevedono la continua istituzione (e interruzione) di connessioni tra spazi ed aree geografiche. L’attuale vicenda della Fiat lo testimonia efficacemente.
Ma l’individuazione di tale analogia consente soprattutto di inquadrare la presenza della Fiat in Sicilia all’interno delle pratiche e degli immaginari della narrativa sviluppista, cui India dedica diverse pagine. Le poetiche dell’ineluttabilità e dell’infallibilità dello sviluppo, declinato spesso dalle agenzie che si incaricano della sua esportazione in termini di convergenza rispetto agli standard economici e politico-sociali neoliberisti, hanno una duplice valenza. Come tutti i miti, anche quelli dello sviluppo forniscono le categorie con cui le persone immaginano e modellano la propria esperienza del e nel mondo, ma soprattutto conducono a una comprensione della storia e della realtà sociale funzionale alla risoluzione simbolica delle sue contraddizioni più evidenti e difficilmente tollerabili – come la persistenza e addirittura l’estensione del sottosviluppo nonostante i piani per lo sviluppo (Ferguson 1999; 2006) [1].
Se la globalizzazione si nutre di connessioni finanziarie e produttive è anche vero l’inverso: la dismissione dello stabilimento di Termini Imerese è un esempio di ‘disconnessione’: quando gli introiti non giustificano più un investimento altrove, il capitale cerca un’altra strada, e si rilocalizza dove le condizioni appaiono maggiormente convenienti – un tema già affrontato dall’antropologo scandinavo Fredrik Barth (1963), che attingeva al concetto di nicchia ecologica ricorrente nelle scienze ambientali per comprendere il comportamento degli imprenditori alla perenne ricerca di un ecosistema capace di garantire sicurezza economica e possibilità di accrescimento dei profitti.
Infatti, benché la modernità venga correntemente rappresentata, nel discorso comune e nelle scienze sociali, in termini di flussi globali, i percorsi del capitale nell’economia capitalistica globalizzata assumono piuttosto una traiettoria puntiforme, che unisce i singoli nodi caldi dello sviluppo (delle vere e proprie enclaves) lasciando tuttavia ‘scoperte’ le immense porzioni di mondo che intercorrono tra di essi.
L’immaginario sviluppista, in effetti, naturalizza i processi di globalizzazione attraverso un linguaggio che li rende analoghi ai processi della natura: il termine ‘flusso’ richiama lo scorrimento incessante dell’acqua, che lambisce tutto ciò che incontra durante il suo percorso. Ma la globalizzazione non ‘scorre’, seleziona la materia che le interessa ‘lambire’ e accresce condizioni di evidenti disparità e asimmetrie (Ferguson 2006).
Orizzonti di crisi
La ricerca che Tommaso India ha condotto gli ha permesso di attraversare lo smarrimento e le ansie degli ormai ex lavoratori della fabbrica, così come di confrontarsi con la necessità che questi avvertono di rimodulare il declino e la fine di un’epoca (storica e al contempo individuale) in un orizzonte di senso in cui rendere intelligibile la fine del lavoro e delle aspettative che questo aveva generato, quanto meno in una prima fase. Questa esigenza di comprensione – cognitiva e morale – corrisponde a un tentativo di riaffermazione personale e comunitaria sull’imprevedibilità degli eventi che hanno portato alla chiusura di Termini Imerese (nonostante una prima grossa crisi dello stabilimento, già registrata nel 2002, e nonostante che negli ultimi anni i lavoratori avessero avuto modo di conoscere sin troppo bene la cassa integrazione, i contratti a tempo determinato e i trasferimenti continui tra più aziende, anche esterne al gruppo Fiat). Non è del tutto inutile ricordare infatti come appena un anno prima che la Fiat decidesse di avviare a conclusione la produzione nella fabbrica siciliana, l’ex amministratore delegato dell’azienda, Sergio Marchionne, ebbe pubblicamente a dichiarare che quello stabilimento era il migliore d’Italia.
Tale imprevedibilità affonda poi le sue radici nelle dinamiche non agevolmente districabili del capitale nelle sue transnazionali forme contemporanee. Lo affermano chiaramente alcuni dei lavoratori con cui Tommaso India interloquisce, quando manifestano tutto il loro disorientamento nella difficoltà che hanno a individuare una controparte (in altri tempi si sarebbe detto un ‘padrone’) alla quale rapportarsi. È difatti emblematica, anche da questo punto di vista, la vicenda di Termini Imerese, laddove l’ex amministratore delegato Sergio Marchionne addusse ai motivi che imponevano la chiusura dello stabilimento la perifericità della Sicilia rispetto al mercato nordamericano, cui la produzione si sarebbe dovuta indirizzare. Eppure per una Termini Imerese che chiude c’è uno stabilimento nei Balcani che apre, e il mercato di riferimento resta pur sempre quello italiano ed europeo.
Negli ultimi anni in diverse pubblicazioni è emersa la necessità di focalizzarsi sulle trasformazioni economiche in atto (Capello 2017; Kwon, Lane, 2016; Kasmir, Carbonella 2014; Narotzky 2012), privilegiando un registro linguistico e un armamentario concettuale che richiamano potentemente la categoria della crisi, declinata secondo l’apporto dell’antropologia demartiniana (D’Aloisio, Ghezzi 2016). L’adozione di questa prospettiva conduce a considerare la crisi economica in termini di crisi culturale. Se l’economico è ‘l’orizzonte del domestico’ che si rapporta a un progetto comunitario incentrato sul presente così come sul futuro, come De Martino scrive ne La fine del mondo (1977), il venir meno della sicurezza di esserci nel mondo – crisi economica – comporta l’impossibilità di istituire altri orizzonti di valorizzazione del mondo (Signorelli, 2011) – crisi culturale.
Cosa resta oggi della securitas nell’epoca della precarietà elevata a paradigma ontologico dell’essere umano, in cui il capitalismo contemporaneo si alimenta della «capacità di calcolo del rischio» e dello «sfruttamento predatorio della ineguale distribuzione di questa capacità nel manipolare lo stesso confine tra rischio e incertezza»(Mancuso 2017)?
È a questa cornice che l’autore riconduce i percorsi lavorativi ed esistenziali in particolare della terza generazione di operai ed operaie da lui incontrati e considerati per la sua ricerca. Essi costituiscono una generazione intimamente precaria, soggetta al confronto con le scadenze contrattuali e col passaggio repentino da un’azienda a un’altra e che consta – scrive India – di «una identità composita, fatta di esperienze frammentarie e sempre in attesa di definizione e stabilizzazione». Dato che ai nostri tempi il lavoro cessa di rivestire una funzione sociale di integrazione, non costituendo più una dimensione entro la quale si sedimentano significati, aspettative e disposizioni collettive, l’uomo flessibile (Sennett 2001) non vi si rapporta che individualmente.
Nell’era della flessibilità e della produzione integrata, in cui persino i tempi della lavorazione in fabbrica vengono ricalcolati contemplando la simultaneità dei movimenti e il ‘mezzo movimento’ per garantire una maggiore adesione ai frenetici dettami della produzione, si assiste a una progressiva «perdita di competenze professionali nel passaggio dalla produzione taylorista-fordista a quella post-fordista». Il precariato mina le basi di qualsivoglia identità professionale, dunque, ma soprattutto sfalda la capacità dei lavoratori di costituirsi in gruppi organizzati. L’interscambiabilità dei lavoratori perseguita attraverso forme contrattuali sempre meno improntate alla continuità temporale e a solide garanzie economico-esistenziali interroga la possibilità stessa dell’esistenza di una forma di coscienza politica e culturale collettiva in cui chi lavora si possa riconoscere.
In uno scenario del genere, è lecito domandarsi allora quale forma possa assumere oggi la relazione conflittuale tra capitale e lavoro, al di fuori tanto delle grandi narrazioni che hanno infiammato lo scorso secolo quanto dei fragili miti stantii dello sviluppo e dell’industrialismo.
Nella parte conclusiva del volume, l’autore si propone di pervenire a una valutazione complessiva dell’esperienza industriale di Termini Imerese. Pare tuttavia che non riesca a propendere per un giudizio netto e definitivo. Da una parte, infatti, la storia dello stabilimento Fiat rientra a pieno titolo in un’operazione simil-coloniale di delocaliz- zazione interna, interrotta senza alcun scrupolo quando i margini di profitto non risultavano più convenienti. In quest’ottica si inserisce la critica al mito dello sviluppo, inteso come teoria e pratica dell’esportazione-imposizione di sistemi di valori, prassi istituzionali e modelli di razionalità pienamente integrati nel progetto economico neoliberale, le cui contraddizioni sono evidenti nella constatazione dell’ampliamento delle diseguaglianze, del miraggio delle promesse della ‘crescita’, dei costi umani e ambientali insostenibili (di cui la vicenda dell’Ilva di Taranto è tra le più esemplificative).
D’altro canto, tuttavia, la fabbrica e il lavoro salariato hanno apportato benefici economico-sociali innegabili, introducendo nuovi modelli e inedite possibilità di consumo per gli operai e le loro famiglie. Inoltre, l’esperienza della vita in fabbrica, prima dell’avvento del toyotismo e della flessibilità neoliberista, ha contribuito all’esistenza di una cultura politica oppositiva rispetto al capitale, una cultura sovente definita in termini di coscienza di classe.
Quest’ultimo punto merita le nostre riflessioni conclusive. Se risulta ormai insostenibile la meccanica deducibilità della soggettività politica (la coscienza rivoluzionaria) dei lavoratori dalla loro collocazione nei rapporti di produzione – tema su cui ha ampiamente lavorato la scuola di Birmingham – è altrettanto vero che alcuni interrogativi si pongono come perentori ai fini di una comprensione della società post-industriale. Nell’era del lavoro terziario (‘improduttivo’) e della progressiva decadenza di quello in fabbrica (‘produttivo’) vi è da chiedersi, ricollegandosi alla teoria marxiana della produzione del valore economico a partire dal lavoro operaio, e dunque dello sfruttamento del plus-lavoro che genera plus-valore per il capitalista, sino a che punto possa insorgere, oggigiorno, una nuova contrapposizione al capitale, accantonata la stagione del lavoro in fabbrica (Simonicca 2012). Come può iterarsi la riproduzione sociale della classe lavoratrice congiuntamente alla riproduzione culturale di una soggettività politica critica e contestatrice cui tuttavia manca quel contesto storico-economico che ha visto nascere e lottare per i propri diritti il proletariato?
Tommaso India constata che ai lavoratori dello stabilimento di Termini Imerese più recentemente assunti e integrati nel precariato istituzionalizzato manchi qualsiasi orizzonte politico in cui tentare di iscrivere una forma di azione o un progetto rivendicativo. Ne abbiamo già richiamato in parte le cause. Eppure egli si chiede insistentemente se questi giovani lavoratori – ma andrebbe esteso lo sguardo alla maggior parte delle forme del lavoro contemporaneo, non solo agli operai – possano essere considerati ‘proletari’, viste le condizioni contrattuali ed economiche in cui essi forniscono servizi, tempo e competenze. Si tratta di capire se, più in generale, la moderna cittadinanza sociale equivalga all’esclusiva rivendicazione a godere di uno status sociale conforme ai dettami di benessere e consumo delle società occidentali o se possa essere compatibile con la persistenza del conflitto di classe (ibidem).
La questione è delicata e oltremodo complessa, dato che dalla sua risoluzione dipende il possibile riconoscimento di una subalternità politica e culturale contemporanea. È vero che i subalterni sono sovra-rappresentati nelle scienze umane e sociali, in particolar modo nell’antropologia. Ma ciò non è giustificabile solo per il fatto che essi costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale (secondo una distribuzione trasversale e non riconducibile a rigide separazioni tra Nord e Sud globali). Ritengo sia invece imputabile principalmente alla difficoltà di comprensione del ‘senso’ della partecipazione dei subalterni alla vita sociale e delle loro affiliazioni politiche, non sempre (anzi, quasi mai) coerenti con il perseguimento ‘razionale’ dei loro interessi [2].
All’antropologo – annota India – non resta che accettare la sfida di ricostruire la complessità e «la contraddittorietà delle identità culturali, i diversificati momenti di oggettivazione dei sistemi di significati, le manifestazioni differenziate del Sé, la varietà delle funzioni di dominio esercitate in un contesto, la varietà delle soggettività individuali e collettive». Ciò significa restituire centralità etnografica alla dimensione della soggettività, emendandola tanto dalle retoriche olistiche dell’antropologia classica quanto dalle contemporanee letture che inchiodano il soggetto subalterno a una condizione di vittima troppo sbrigativamente asserita.
La scrupolosa indagine con cui in Antropologia della deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese Tommaso India si rapporta a un contesto economico e culturale in via di deindustrializzazione, stimola la produzione di vasti e impellenti interrogativi, e per questo costituisce un contributo prezioso per riflettere su un presente in mutamento a cui applicare lenti conoscitive multifocali.