«Molte delle cose che sembrano democratiche mandano in rovina le democrazie, (…) poiché ignorano che, come c’è un naso che, benché sia deviato (rispetto alla linea diritta, che è la più bella) verso una forma aquilina o schiacciata, tuttavia è ancora bello e gradevole alla vista, però, nel caso che uno lo tenda ancora di più verso l’eccesso, dapprima perderà la proporzione della parte e alla fine non sembrerà più nemmeno un naso, (…) allo stesso modo stanno le cose per le diverse forme costituzionali» (Aristotele, Politica 1309b 20 sgg.).
Democrazia o Democratura?
Le dittature sono regimi politici inaccettabili. Nessuno di noi ha dubbi su questo. Forse, però, è il caso di averli sulla qualità da attribuire alle forme politiche ‘nostre’, del cosiddetto mondo libero, che chiamiamo democrazie. Nel 1940, Gandhi definiva la democrazia occidentale «una forma diluita di nazismo o di fascismo», e aggiungeva, pensando in particolare al modo in cui l’Inghilterra si era impadronita dell’India, che «al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo» (Gandhi 1996; 140-141). E già nel 1938 il Mahatma aveva scritto: «Gli Stati che oggi sono formalmente democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire nonviolenti» (Gandhi 1996: 270-271).
Certamente dal 1938 ad oggi la teoria e la pratica della nonviolenza si sono diffuse e lotte portate avanti con paziente determinazione, con la noncollaborazione e la disobbedienza civile – una per tutte, che è sotto gli occhi di chiunque e che forse non siamo abituati a mettere dentro il contenitore «nonviolenza» ma che di fatto vi rientra a pieno titolo, quella delle donne contro la violenza del patriarcato – hanno prodotto risultati straordinari. Al contempo, non è certo possibile dire che le democrazie siano divenute nonviolente, e anzi esse hanno seguito esattamente la traiettoria alternativa che il Mahatma aveva previsto.
Lombardi Vallauri (1989: 26) ha scritto che la ‘normale’ quotidianità della cultura moderna, «contiene, in atto o in potenza, delle componenti criminogene, o in ogni caso crimino-compatibili, intrinseche, strutturali, non accidentali, su una scala molto grande». Bisogna dire di più: essa contiene, in potenza o in atto, componenti intrinseche, strutturali, non accidentali, di violenza e generatrici di violenza – o, come diceva Gandhi, di totalitarismo.
La questione esula dagli specifici colori politici dei vari Governi. Parole e atti appartenenti all’ambito della Destra, che dell’autoritarismo in politica interna e dell’idea che la violenza sia legittima nella risoluzione dei conflitti internazionali non ha mai fatto mistero, sono diventati da un pezzo, in barba a qualsiasi Costituzione (da noi l’art. 11 che sancisce il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), lessico (cioè mentalità) e pratica diffusa trasversalmente nell’arco parlamentare e negli strati sociali di qualsiasi orientamento politico. Per questo motivo l’attuale Parlamento (mi riferisco in particolare all’Italia, ma la considerazione si può estendere a tutto l’Occidente) andrebbe considerato, direi, come costituito da una Destra-destra, una Destra-centro e un Centro-destra.
Tutte le parti ormai da tempo danno per scontata la liceità del ricorso alla forza militare nei rapporti internazionali. E non è questione di attacco o di difesa, di invasione o di liberazione, perché le “cose” vengono fatte dalle parole: per esempio, i Russi, entrando con le armi in Ucraina, l’hanno invasa e attaccata, ma la ‘nostra’ Nato, entrando con le armi in Iraq e in Afghanistan, ci ha difeso – per non parlare del fatto che praticamente non c’è stato nessuno dei nostri politici e dei nostri giornalisti che non abbia serenamente preteso che la violenza russa in Ucraina aveva portato la guerra in Europa dopo settanta anni che il nostro continente ne era stato lontano obliterando del tutto con la più grande spudoratezza la guerra nell’ex-Jugoslavia, con i bombardamenti della Nato, nel 1999, e che non abbia sostenuto l’invio delle armi all’Ucraina. D’altronde, il rapporto non solo tra democrazia e belligeranza ma anche tra democrazia e bellicismo è ampiamente attestato: dal fatto di garantire formalmente libere elezioni, di rispettare i diritti umani, di avere la pace interna «deriva anche l’autocompiacimento delle democrazie, il sentimento di appartenere a un “Commonwealth di democrazie” col diritto, e il dovere, di belligeranza» (Galtung 2000: 106) – si ricordi la nozione di guerra umanitaria; anzi, poiché ‘i buoni’ non fanno mai guerre, di intervento umanitario.
Credo pertanto che non sbaglieremmo affatto a considerare i nostri regimi politici occidentali come «democrature», parola con cui si indica una varietà di regimi politici che, formalmente democrazie, presentano nella sostanza più o meno forti caratteristiche di dittatura (con un correlato consistente tasso di corruzione).
Innanzitutto, con quelle che, situate ovviamente fuori dall’Occidente in senso stretto, si è soliti denominare in tale modo – come il regime di Putin o quello di Erdogan, con cui rispettivamente abbiamo fatto affari fino a prima del 24 febbraio 2022 o stiamo continuando a farli – abbiamo in comune il concetto di pace intesa come assenza di guerra e salvaguardia della libertà rispetto ad un Paese straniero. Alla luce di tale nozione di pace appiattita sull’idea che la guerra sia semplicemente una violenza diretta, fisica, che mira a soggiogare uno Stato con la forza delle armi, basta che ciò non avvenga e ci si considera in un regime di pace. In questo caso, non importa occuparsi preventivamente della costruzione di rapporti pacifici duraturi, si chiude tranquillamente un occhio sui conflitti armati che restino limitati e non ci ‘disturbino’ (come quelli tra Russia e Ucraina esistenti già dal 2014, e tra Israele e Palestina dal 1948 ad oggi), e si ignorano del tutto i conflitti latenti per la soluzione dei quali invece bisognerebbe adoperarsi da subito senza attendere che deflagrino apertamente quando risulta più difficile (più difficile ma non impossibile) intervenire senza fare ricorso alle armi.
Dal punto di vista nonviolento, invece, la pace è concepita dinamicamente e consiste nella risoluzione dei conflitti non distruttiva lavorando appunto anche sui conflitti latenti in modo da evitare che poi giungano allo stadio di violenza esplicita o di rischio di allargamento. Di più, la pace nonviolenta non si limita a considerare i rapporti interstatali ma guarda anche ai rapporti intrastatali (perché vi sia giustizia), ai rapporti tra le persone e tra le persone e la natura (perché siano quanto più possibili armonici ed ecologici), e a quelli intrapersonali (perché vi sia benessere psico-fisico individuale): per questo, lavora anche per l’eliminazione della violenza strutturale e culturale (nell’ambito dell’economia, della religione, della scienza, del linguaggio, dell’educazione, dell’istruzione…). «Se vuoi la pace, prepara la pace in ogni campo» è la sua regola.
Democratura e (apparenza di) libertà
Certamente, sul fronte interno il nostro regime politico ci appare diverso da quello dell’attuale “nemico” Putin (che è capo di una Repubblica semipresidenziale) e da quello dell’attuale “amico” Erdogan (anch’egli a capo di una Repubblica presidenziale) che non esitano troppo a reprimere il dissenso popolare con la forza poliziesca. In realtà, di tale esibizione di forza la nostra democratura, che come quella della Repubblica presidenziale statunitense, è fondata sulla connessione e sulla comunicazione, semplicemente non ha bisogno. Tale suo carattere infocratico (o mediacratico)
«rende obsolete tecniche disciplinari come l’isolamento spaziale, la rigida regolamentazione del lavoro o l’addestramento fisico. La docilità (docilité), che significa anche arrendevolezza e remissività, non è l’ideale del regime dell’informazione. Il soggetto sottomesso nel regime dell’informazione non è docile né ubbidiente. Piuttosto si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso» (Han 2023: 3-4).
La nostra democratura si basa sulla parola d’ordine «libertà» non solo nei rapporti internazionali ma anche in quelli interni ai singoli Stati. È dunque sufficiente che ognuno si creda libero perché tutto funzioni senza troppi intoppi. La libertà è innanzitutto libertà di espressione, tendenzialmente assicurata in quanto nei confronti dell’opinione pubblica eventualmente dissidente le nostre democrature tendono ad adottare la tecnica del «muro di gomma» (cioè semplicemente a ignorarne le proteste), e, più o meno, a lasciarle il ruolo decisionale al momento del voto.
A tutti i livelli, il mondo dei partiti – la Partitica – ha coltivato il solo valore della libertà. La pressoché esclusiva dedizione a questo non è stata casuale, dato che esso è appannaggio del liberalismo politico e del liberismo economico, insomma del laissez faire in generale. Effettivamente, mentre è dato ampio spazio alla «libertà», sono trascurati totalmente o relegati in posizione del tutto marginale gli altri due valori del trittico che aveva dato vita alla democrazia moderna, cioè uguaglianza e fraternità. Quest’ultima poteva essere declinata almeno nei termini della solidarietà – di una politica della solidarietà – ma è stata abbandonata alla libera volontà della beneficienza.
Provo a spiegare come mi sembra che il dominio unico del valore della libertà ci abbia condotto sulla strada della democratura sia sul piano economico e istituzionale (violenza strutturale) sia su quello simbolico (violenza culturale).
Come sapeva già Platone, da sé sola, la libertà diventa presto oppressiva e selvaggia: «i cittadini sono liberi, la città è piena di libertà e di diritto di dire qualsiasi cosa, e c’è licenza di fare ciò che si vuole? (…) Ma è evidente che, dove c’è licenza, ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli piace» (Repubblica 557b). «Organizzare (si intende, interamente) la propria vita come piace», sia chiaro, non è un valore, perché significa mirare al proprio piacere, indipendentemente dal rispetto e dalla solidarietà. Per Platone, che non conosce i social odierni, si tratta di un atteggiamento che si ritrova, causato dal vino, nell’ubriachezza, quando ognuno si mette a «parlare e ad agire in qualsiasi modo senza alcun indugio» (Leggi 649b). Si tratta, in sostanza, di una libertà sfrenata e anarchica, priva di regole, al di fuori di un ordinamento, cioè di quello che i Greci, mettendo insieme valore politico, valore etico e valore estetico, chiamavano (kósmos) [1].
Tale regime di libertà ‘secondo proprio piacere’, trova la sua espressione nell’edonismo, nell’estetismo, nell’individualismo, nell’insensibilità verso le differenze: «la democrazia (…) avrà dunque queste e altri analoghi caratteri, e a quanto pare sarà una forma di governo piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza a ciò che è uguale e a ciò che non è uguale» (Platone, Repubblica 558c). È questa una libertà che non conosce vincoli di relazione: essa è quel valore democratico che, tirato all’eccesso e non accompagnato da altri principi, come diceva Aristotele nell’esergo all’inizio di queste pagine, manda in rovina le democrazie.
Sulla base di queste considerazioni, torniamo a noi. L’Italia, che non brilla per libertà di stampa essendo al 41° posto, dopo il Montenegro e l’Argentina, nell’Index 2023 di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa in 180 Paesi del mondo (https://rsf.org/en/index), sembra brillare in compenso per ‘libertinaggio’ di stampa, fondato sulla ‘libertà’ di espressione di odio e di vittimismo [2]. Tra le «libertà» recentemente sdoganate anche in un libro delirante dell’ormai noto generale Vannacci, c’è appunto anche «il diritto all’odio».
La connessione social, che ha preso il sopravvento su quella sociale, è un’opzione individuale e in ogni caso una relazione astratta, fatta di individui virtuali di cui possiamo benissimo ignorare tutto, sia prima sia dopo avere dato loro l’amicizia. Più in generale, la libertà si definisce egocentricamente e trova il suo limite, solo teorico e mal tollerato, nell’osservanza delle leggi. Tuttavia, per l’oligarchia politica e/o finanziaria (aggettivi che sempre più tendono a coincidere), che può redigersi leggi ad personam, o ‘ad partitum’ o pagarsi una pletora di avvocati o corrompere, il limite è, appunto, soltanto teorico. Dell’immenso potere della ricchezza, poi, è prova eclatante, per fare un solo esempio, l’incontro alla pari, nella sede istituzionale di Palazzo Chigi, tra l’imprenditore multimiliardario Elon Musk (il cui patrimonio è valutato 251 miliardi di dollari) [3] e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 15 giugno 2023. Inoltre, il 27 novembre 2023 Elon Musk si è recato in Israele, dove ha visitato con Benjamin Netanyahu il kibbutz di Kfar Azza attaccato da Hamas il 7 ottobre, e il 29 novembre è stato invitato da Osama Hamdan, leader di quest’ultima, a visitare la striscia di Gaza. Il fatto che i plutocrati detengano risorse finanziarie, mezzi di informazione o addirittura, come appunto Musk non a caso ‘tirato per la giacca’ da tutti, satelliti attraverso cui è possibile gestire la connessione Internet in tutto il pianeta, rivela il loro straordinario potere sia di far credere alla gente ciò che vogliono o anche solo di gettarla nella confusione più totale con notizie di tutti i tipi, sia di influire direttamente sulle sorti delle relazioni internazionali.
Democratura e presidenzialismo
La riforma costituzionale in senso presidenzialista che si profila all’orizzonte in Italia va nella direzione della piena legittimazione costituzionale della democratura, e non a caso, come ho ricordato sopra, anche in Russia e in Turchia sono in vigore forme di Governo analoghe. Il presidenzialismo è la parodia della democrazia, il culmine della democrazia ridotta a pura vuotezza formale del voto degli individui, la forma costituzionale adeguata al dominio assoluto degli imprenditori plutocrati, meglio se già parte del mondo dello spettacolo [4] – e, da questo punto di vista come anche da molti altri (l’idea che la Politica sia Amministrazione tecnico-economica, che la Sanità e l’Istruzione siano privatizzabili etc.), gli Usa sono pienamente esemplari.
Il presidenzialismo è l’ovvia prosecuzione del sistema elettorale maggioritario che indirizzava verso il bipolarismo di cui, appunto, i vari tipi di presidenzialismo sono espressione. Il motivo messo in campo per il passaggio al presidenzialismo è, come era per il passaggio al sistema elettorale maggioritario, la stabilità dei Governi non più basati sulle alleanze tra Partiti bensì scelti tra due unici fronti precostituiti, che naturalmente vanno a tendere verso il Centro fino al punto da fare risultare pressoché nulle le differenze tra loro. Motivo paradossale per una democrazia, che dovrebbe favorire il pluralismo e volere che la tenuta di un Governo derivi non da ingegnerie costituzionali volte a permetterla tecnicamente a prescindere dal coinvolgimento nel voto dalla totalità dei cittadini e dall’astensionismo di massa ma da modalità politiche che inneschino almeno nella maggioranza del popolo la partecipazione politica in generale e al voto in particolare.
Motivo paradossale in una democrazia ma non in una democratura, in cui ciò che conta è la libertà formale del voto, indipendentemente dal fatto che questo sia realmente rappresentativo della volontà popolare. È sufficiente che anche pochi vadano a votare: l’eterodirezione del voto attraverso la manipolazione attuata con le stesse precise tecniche dello spettacolo e del mercato pubblicitario farà il resto.
La democratura infocratica, infatti, non è solo un regime politico. È anche, e innanzitutto, un regime culturale fondato appunto sullo spettacolo: figura rilevante è quella dello spin doctor, l’esperto di comunicazione consigliere e curatore, attraverso metodi di marketing, dell’immagine pubblica – dall’aspetto fisico all’abito ai discorsi – dell’uomo politico, sempre più coincidente con uno showman. Fa parte del sistema, dunque, non solo la disponibilità finanziaria di chi ne sarà il capo ma anche la complicità, consapevole o meno, dei giornalisti e degli intellettuali. Così, il premierato, una variante della concentrazione del potere rivendicata dal presidenzialismo, benché possa essere avversato da qualcuno per questioni abbastanza di dettaglio, è stato fatto ‘digerire’ già da anni all’opinione pubblica parlando disinvoltamente di ogni Presidente del Consiglio come del «Premier» – carica fino ad oggi inesistente nel nostro Paese! Tutti i media, dai Tg di qualsiasi rete televisiva ai giornalisti di qualsiasi orientamento, hanno ammannito – e continuano ad ammannire – quotidianamente questa vera e propria menzogna abituando ad essa l’orecchio dell’opinione pubblica. Quindi, non stupisce affatto che si è arrivati alla proposta governativa attuale: tanto tuonò che piovve.
Altre parole-chiave: Nazione, Patria
Di recente, sull’onda del vocabolario della nostra Presidente del Consiglio, si è affermata anche nei nostri Tg la parola «Nazione». La Nazione è il luogo concettuale in cui è riposto il valore cieco della Fedeltà, o della Lealtà al proprio Paese – «che abbia torto o ragione» – che postula «la materia del sangue e del suolo, ma più ancora (dopo tutto viviamo in tempi consapevoli della propria contingenza) la materia della storia condivisa» (Bauman 2003, cap. 3, par. Tribù, nazione e repubblica). O meglio: che postula la materia di una certa narrazione – quella volta a creare un ben preciso senso di identità – di storia condivisa.
Il nazionalismo, ‘cappello’ politico del liberalismo individualistico e ‘atomizzante’, fornisce il collante spirituale minimo tra gli individui nella propaganda del Patriottismo. In quest’ultimo si coagula appunto quell’ideale ottuso di Fedeltà al proprio Paese, «che abbia torto o ragione».
Come ciò possa anche giustificare la guerra di difesa, da anni peraltro affidata all’esercito professionale che ha messo in soffitta il «sacro dovere» di difendere la Patria (art. 52 della Costituzione Italiana) dopo il riconoscimento che tale dovere poteva essere assolto non solo mediante il servizio di leva ma anche tramite il servizio civile ad esso alternativo, mi pare evidente. La violenza bellica, infatti, è legittimata proprio per la difesa della Patria (e ho già ricordato, più sopra, come la nostra democratura abbia provveduto a chiamare con tale espressione anche i suoi attacchi ad altri Paesi). Ma, per l’arroganza della democratura, il Patriottismo è stato tirato in ballo, per esempio in occasione del 25 aprile scorso, anche per legittimare il contributo dato dall’Italia alla difesa armata della Patria altrui! L’invio di armi in Ucraina, a dispetto e a oltraggio dell’art. 11 della Costituzione, sancisce di fatto la scelta della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.
Il Patriottismo è un tutt’uno con il senso di appartenenza e di identità – altre parole che risuonano oggi sempre più spesso sulla bocca di chi è al Governo. La nozione di identità serve ad includere qualcuno per escludere qualcun altro e si delinea in realtà come di volta in volta si desidera a seconda chi si vuole mettere nel «Noi». Così, ci identifichiamo ora come Occidente, ora come Europa (una appartenenza spirituale sostanzialmente mai percepita prima del trattato di Maastricht), ora come Italia, ora come la tale Regione o la tale Città o il tale Quartiere o la tale Famiglia, ora come Io o la mia Razionalità, la mia Emotività, la mia Pancia… Politicamente, il patriottismo e l’identità sotterrano, inoltre, ogni diritto, fatto apparire come un tradimento, alla disobbedienza civile e alla scelta di valori sovraordinati rispetto a quelli detti.
Ma, poi, nella realtà, l’identità esiste? Non mi pare. Esiste, piuttosto, la (in)cultura identitaria, il cui funzionamento è stato ben descritto, nel 1936, dall’antropologo Ralph Linton (1973: 359-360), in questo modo:
«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato da sumeri o dagli antichi egiziani (…). Andando a fare colazione si ferma a comprare il giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano (…). Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America (…). Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano» [5].
Potrebbe anche essere sufficiente, forse, ricordarsi che il capo d’abbigliamento più rappresentativo dell’odierno mondo occidentale, indossato da uomini e donne, cioè i pantaloni, provengono dall’antica Persia, … dunque dall’Oriente.
La contemporaneità guardata dagli antichi. O cosa farsene della comparazione col passato
Infine, le nostre idee apologetiche della sola libertà, non troppo diversamente che ai tempi di Platone, spazzano via non solo le antiegalitarie gerarchie tradizionali (che vogliono la superiorità degli anziani rispetto ai giovani, dei nobili rispetto ai plebei, dei genitori rispetto ai figli, dei maschi rispetto alle femmine etc.) ma anche ogni rapporto che non sia quello giuridico o economico-giuridico. Potremmo dire, con le parole dello stesso Platone, che esse «mandano via disonorevolmente, in esilio, il riguardo (aidós) dandogli il nome di dabbenaggine, scacciano la moderazione chiamandola viltà e infangandola, e persuadendo che la misura e le spese ordinate sono rozzezza e meschinità (…): chiamano buona educazione la tracotanza, libertà l’anarchia, magnificenza la dissolutezza, coraggio l’impudenza» (Repubblica 560d-e). Una società del genere era, secondo il filosofo, una teatrocrazia (Leggi 701a): a legare il popolo al suo interno, qui, sono lo spettacolo e il divertimento consumistico.
In un altro passo, Platone attribuisce a Protagora il pensiero secondo cui uno Stato non sussiste in presenza di un certo livello di divisione del lavoro e di rapporti di scambio ma solo quando si danno, oltre a questa complementarità economica tra gli individui, anche la giustizia e, appunto, l’aidós, il riguardo, o addirittura la philía, l’amicizia. Non erano idee soltanto di Protagora e di Platone. Per gli antichi Greci in generale questa è praticamente un’ovvietà.
Aristotele scrive che uno Stato (polis, dice egli in realtà) che si preoccupi della giustizia, cioè dell’astensione dal danneggiare gli altri, ma non della virtù – possiamo dire più chiaramente: della relazione costruttiva di fiducia e di solidarietà – non garantisce un legame comunitario tra i cittadini ma semplicemente una loro «alleanza» sul piano giuridico o un loro «contratto» sul piano economico: esso finisce per garantire, insomma, solo un vincolo ‘tecnico’ tra i cittadini. In base a tale vincolo, l’unica cosa importante è «che essi non commettano alcuna ingiustizia l’uno contro l’altro»; ma lo Stato ha uno scopo molto diverso: «è chiaro che lo Stato che merita veramente questo nome e non è tale solo a parole deve avere a cuore la virtù»; difatti, «quanti si curano del buon governo prendono in considerazione la virtù e la cattiveria presenti nello Stato» (Politica 1280a 34-b 8); e ancora: «i legislatori rendono buoni i cittadini attraverso l’abitudine: questa è l’intenzione propria di ogni legislatore» (Etica Nicomachea 1103b 3-5).
Anche Isocrate criticava la democrazia dei suoi tempi perché lascia che ognuno, dopo il periodo dell’educazione, «faccia ciò che vuole», ed esalta invece quella dei tempi antichi che si curava che i cittadini, anche da adulti, perseguissero la moderazione; infatti, bisogna avere il senso di giustizia nell’animo, perché «non con i decreti si amministrano bene le città ma con i costumi» (Areopagitico 37 e 41). Oltre alla virtù ‘negativa’ della giustizia, che è un non fare qualche danno ad altri, c’è bisogno di una virtù ‘positiva’, cioè che un fare il bene agli altri.
Dunque, non tutto ciò che il codice penale non punisce è anche raccomandabile fare. In Senofonte (Memorabili 4, 4, 19-20), Socrate richiama, ad esempio di ciò, il fatto che la legge non prescrive che i figli onorino i genitori ma, lo stesso, è legge non scritta, da rispettare, che si faccia così. La libertà e la giustizia non garantiscono la coesione sociale: entrambe sono soltanto manifestazioni dell’individualismo che pone nel diritto il suo unico limite, la sua unica regolamentazione.
Ora, tutto ciò non descrive esattamente quanto avviene, anche a livello popolare, nella nostra società, in cui «lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione» (Debord 2002, tesi 3)? Le urla sguaiate e volgari di uno Sgarbi che ha fatto dell’insulto la sua cifra espressiva e che ancora viene invitato nei talk show, trasmissioni-spazzatura come Il grande fratello o L’isola dei famosi, giornali pieni di odio, come Libero o Il Giornale (parere mio), pubblicità maschiliste (ci ricordiamo, per esempio, di “Fatti il capo” di un noto amaro? O della ancora più ignobile scena di un uomo sopra una donna supina con accanto a lui altri tre uomini di una casa stilistica? O di quel marchio di una collezione di abiti in cui due poliziotti abusano del loro potere su due donne?), il Governo delle Olgettine, la monetizzazione di qualsiasi cosa e il diritto di accumulare ricchezza senza limiti (e senza che passi per la testa a nessuno l’opportunità di leggi che ne fissino una soglia massima), la mercificazione dello sport, la normalità dello spot pubblicitario che interrompe un film o una trasmissione televisiva, la logica dello spettacolo ovunque e sempre (basti ricordare la ‘maratona’ tv su funerali di regine e pregiudicati – per i quali si propongono perfino intitolazioni di strade – che, se si fosse trattato di Kim Jong-un, sarebbe stata considerata prova di culto della personalità), la competizione nell’economia, nella scuola, nell’università, nei comportamenti quotidiani: tutto assomiglia all’individualismo, alla spudoratezza e alla teatrocrazia oggetto della critica di Platone.
L’idea del solo valore della libertà coincidente con il diritto di fare tutto ciò che non è espressamente vietato – dalla libertà di offesa verso chi dissente dalle nostre idee a quella di dire ciò che si pensa su qualsiasi tema indipendente dal livello di informazione posseduta, da quella di non cedere il posto all’anziano sui mezzi pubblici a quella di inveire contro chi si vuole, da quella di tirare dritto davanti al clochard steso sul marciapiede non si sa se vivo o morto o davanti a una rissa e così via – fa venir meno il riguardo, e con esso qualsiasi legame comunitario ‘non tecnico’.
Di più, la cultura della sola libertà ha garantito lo scioglimento della relazione dell’individuo non solo con la società (e con la natura) ma anche con se stesso. Come è avvenuta la frammentazione dei film in televisione attraverso l’inserzione di pubblicità, è avvenuta anche quella dell’individuo stesso. La velocizzazione dei tempi della vita – la società «sincrona», come è stata detta [6], che troviamo rappresentata, per esempio, nella pratica quotidiana, dal fast food alla fast science – ha operato la separazione del presente dal passato e l’appiattimento sul primo, in un eterno presentismo.
L’alienazione è alienazione non più ‘solo’ dal lavoro e dalla società ma anche da se stessi nel senso più stretto del termine, nel senso della schizofrenia, della malattia mentale, della depressione, del burnout e, più banalmente, dell’inconsapevolezza totale di ciò che si sta facendo e dicendo – compulsivamente venendo agiti invece di agire, venendo parlati invece di parlare. L’individuo perde il rapporto con la sua stessa continuità di vita e con il suo stesso corpo. La vita diventa una vita nell’istante vissuto senza legame col passato e con un progetto di futuro, consumisticamente: il presentismo diventa la cifra dominante tanto per l’individuo quanto per la cultura generale che eleva a valore supremo l’efficienza, la tecnologia, la rimozione della Storia e della possibilità di comparare il «momento attuale» con qualche «momento altro» e di creare archivi di esperienze per stabilire connessioni, complessità, possibilità di confronto e di scelta.
Nell’Introduzione al suo La solitudine del cittadino globale, Zygmunt Bauman (2003) ricorda le «orge di compassione e carità» con cui i popoli occidentali oggi manifestano la loro socialità in specifiche occasioni dolorose come la tragica morte della principessa Diana. Potremmo ricordare, in Italia, eventi più recenti come i ben noti «Ce la faremo» e «Andrà tutto bene» che campeggiavano su moltissimi profili Facebook e sui balconi delle case, con tanto di accompagnamento di canti, durante la pandemia, o gli sdegni di massa per femminicidi o stupri particolarmente efferati, non di rado tra l’altro condannati con un atteggiamento giustizialista, anzi forcaiolo, e non meno crudele di quello che si intende stigmatizzare nel criminale («pena di morte», «castrazione chimica» etc.: è, ancora una volta, la violenza dei sedicenti ‘buoni’).
Ciò che mi interessa, comunque, è la notazione seguente di Bauman:
«Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. (…) una volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo» (cors. mio).
La relazione, insomma, ridotta a sprazzi momentanei e scenografici, come eccezione rispetto alla normalità della vita interamente ‘normale’, spesa nella libertà individualista e consumista. La socialità può apparire anche nella forma alienata del (solo) divertimento sussunto all’economia consumistica: «aperitivum et circenses». Abbiamo bisogno, invece, di relazione che vada oltre il diritto allo spritz con gli amici e sia progettazione politica comune, partecipata [7], in uno spazio d’azione micro legato ad una forma di pensiero macro («pensare globale/agire locale, pensare locale/agire globale», secondo il suggerimento circolare di Morin e Kern 1994: 170) – come potrebbe fare forse un federalismo politico, cooperativo, non isolazionista (come era invece quello proposto da qualche politico nemico della democrazia, che è veramente democrazia solo se è anche solidale).
Per superare la democratura, che avvolge la nostra vita intera, non è possibile far nulla? Sì, ritengo, se ci muoviamo sulla via della nonviolenza proposta da Gandhi e purché sia chiaro che questa prevede un’azione a vari livelli – economico, politico, sociale, individuale – nessuno dei quali è più importante degli altri. Tutti sono fondamentali, anche se hanno tempi di attuazione diversi.
Allora, secondo me, bisogna lottare:
- in economia, per un modo di produzione e di consumo ecologico e giusto, fondato sulla riduzione dei bisogni, sull’uso di fonti energetiche non inquinanti, su una limitazione dell’arricchimento massimo possibile;
- in politica, per un’organizzazione federale a cerchi concentrici (mondiale, internazionale, nazionale, regionale, comunale) che permetta e solleciti la partecipazione attiva alla cosa pubblica di tutti e tutte e preveda la gestione pacifica dei conflitti, a partire da quelli internazionali, attraverso una difesa nonviolenta [8], l’istruzione alle tecniche la quale va assicurata alla cittadinanza da brevi periodi di servizio civile regolato da un Ministero della Pace: perché ciò non sia un sogno utopistico, è fondamentale che l’esercito venga smantellato gradualmente ma a partire da subito;
- nella società, per la diffusione di una cultura (giornalistica, mediatica, scolastica, universitaria) pensosa, in ascolto, con tempi non da competizione ma da riflessione: è ora di fermare la caduta nell’abisso della «sempre maggiore rapidità» e di «rallentare le scienze» e di mirare a delle università «di diseccellenza», come suggerisce Isabelle Stengers (2013), e in generale a una «scienza con coscienza» (Morin 1988), a una scienza «utile» non nel senso economico del termine ma in quello sociale, che guardi alla ricerca scientifica come ad un lavoro non solo di problem solving ma, ancor prima, di problem making («a che tipi di problema è opportuno rispondere?»);
- in ambito individuale – per chi si lamentasse che quanto proposto nei punti precedenti riguarda solo alcune specifiche persone e non tutte –, per portare nella propria vita quotidiana, per quanto si è capaci, uno sconvolgimento, in quanto
«è un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa» (Capitini 1977: 221).
Così era già per Gandhi, il quale riteneva necessario – e praticava – quello che chiamava «programma costruttivo», cioè un modo di vivere immediatamente inverante la società auspicata. È in ogni caso un programma di azione che comincia già nel riflettere al di là delle mode e in una lotta continua anche con sé.
Non diversamente da Capitini, l’appello di Virgina Woolf invita a questo sforzo continuo di auto-sorveglianza contro la guerra e il patriarcato:
«Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio; sull’autobus; mentre tra la folla osserviamo l’Incoronazione e l’investitura del sindaco di Londra, mentre passiamo accanto al Monumento ai Caduti; mentre percorriamo Whitehall; mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei Comuni; nei tribunali; ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che ‘civiltà’ è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni, e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?» (1992: 92-93).
Sarebbe il caso di citare per esteso altri brani di Woolf, che l’avvicinano moltissimo al pensiero della nonviolenza; per esempio, quelli relativi: all’opportunità di guadagnare semplicemente «per vivere […] ma nulla di più»; al rifiuto di lavorare intellettualmente per avere di più «oppure farlo solo per amore della ricerca (…) oppure gratuitamente per fornire a chi ne ha bisogno le conoscenze da voi acquisite professionalmente; all’impegno a liberarsi dei «fittizi legami di fedeltà» cioè «in primo luogo dell’orgoglio per la vostra patria: e anche dell’orgoglio per la vostra religione, per la vostra università, scuola, famiglia, sesso (…). Non appena i tentatori si presentano per sedurvi, stracciate le pergamene; rifiutatevi di compilare i moduli» (199: 113-114). Ma questo articolo è diventato ormai troppo lungo.
Aggiungo solo, alla rinfusa, qualche altra azione ancora più concreta che possiamo compiere anche individualmente per trasformare la società in senso nonviolento:
1. istruirsi alla nonviolenza (perché essa non è, come si è visto, tranquillità e bonarietà ma una forma di lotta), per conoscerne il funzionamento e applicarla;
2. praticare anche un’amicizia ‘politica’, costruttiva di trasformazione sociale attraverso mezzi pacifici;
3. appendere alla finestra o al balcone, e lì lasciarla perennemente, una bandiera della pace;
4. contestare, il 4 novembre, singolarmente, silenziosamente e senza disturbare nessuno, semplicemente esibendo un cartello che ricordi che gli eserciti servono ad uccidere e non a portare la pace, le cerimonie di celebrazione delle Forze Armate;
5. chiedere ai Dirigenti Scolastici delle Scuole o ai Rettori delle Università – lo possono fare coloro che le frequentano o i genitori di coloro che le frequentano o chi vi insegna – di non istituire Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO, cioè l’ex Alternanza Scuola-Lavoro) o altri rapporti di collaborazione con rappresentati dell’Esercito;
6. avere il coraggio di dire in pubblico (non semplicemente social) la nostra opinione a favore della pace, il nostro sdegno per le mancate dimissioni di un politico corrotto etc., e tentare di innescare così un’abitudine alla non rassegnazione e alla partecipazione sociale;
7. praticare nella vita quotidiana, e in particolare sui social, un’assertività gentile e, come suggeriva Virginia Woolf, una lentezza riflessiva in ogni cosa che si sta facendo e dicendo.
8. … e naturalmente scoprire da sé, creativamente, cos’altro sia possibile fare.
Non so quando e su chi tali piccoli gesti avranno effetto. Ma so che in ogni caso, come nella teoria del caos la famosa farfalla, essi avranno un effetto e so pure che l’effetto contribuirà alla costruzione di una società migliore.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Tale termine poteva denotare non solo l’ordinamento politico aristocratico di Sparta ma anche quello democratico di Atene. Per la nozione di kósmos e il suo ruolo nel mondo greco cf. Casevitz 1989 e Du Sablon 2014.
[2] A proposito di Elon Musk, nell’Index 2023 di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa in 180 Paesi del mondo, scrive: «Il notevole sviluppo dell’intelligenza artificiale sta creando ulteriore scompiglio nel mondo dei media, già minato dal Web 2.0. Nel frattempo, Elon Musk, proprietario di Twitter, sta spingendo all’estremo un approccio all’informazione arbitrario e basato sul pagamento, dimostrando che le piattaforme sono sabbie mobili per il giornalismo» (trad. da https://rsf.org/en/2023-world-press-freedom-index-journalism-threatened-fake-content-industry).
[3] https://forbes.it/2023/10/03/ricchi-america-domina-elon-musk-michael-jordan/
[4] In Italia, il ruolo dello spettacolo era evidente già nell’elezione a cariche parlamentari di veline e attori ma una figura come quella di Silvio Berlusconi rappresenta ancora meglio la tendenziale coincidenza tra plutocrazia, infocrazia, spettacolarità. Si potrebbero citare parecchi altri personaggi, italiani e stranieri, a riprova di tale affermazione: da Luca Barbareschi a Beppe Grillo, da Clint Eastwood a Ronald Reagan, da Arnold Schwarzenegger a Donald Trump, a Volodymyr Zelensky a Javier Milei etc. Nella società odierna «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini» (Debord 2002, cap. 1, tesi 4).
[5] Altri esempi si possono trovare in Morin e Kern 1994, 121-122.
[6] Cf. Bertman 1998: «La società sincrona considera il tempo come un commensale guarda un buffet. Per il commensale è irrilevante quanto tempo ha impiegato per preparare e cucinare i tanti piatti che aveva davanti; ciò che conta è quanto sembrano appetitosi. Affamato, mette nel piatto qualunque cosa gli piaccia. Allo stesso modo, la società sincrona riconosce solo quegli aspetti delle credenze passate che servono a confermare i propri atteggiamenti attuali. Il resto viene ignorato. Il cittadino sincrono allo stesso modo vive per oggi. Né il passato né il futuro lo riguardano». Cf. anche Han 2022.
[7] Esempio ne potrebbero essere i COS (Centri di Orientamento Sociale) fondati nel 1944 in Umbria da Aldo Capitini o la progettazione partecipata che ispirò costantemente l’impegno di Danilo Dolci, particolarmente dal 1958 quando fondò, a Partinico (in provincia di Palermo), il Centro studi e iniziative per la piena occupazione, o, ancora, il caso di rigenerazione democratica della città di Chelsea (Massachusetts) nel 1993-1994 (per cui cf. Podziba 2006).
[8] Su alcune esperienze in tal senso cf. Baskaran 2003.
Riferimenti bibliografici
Baskaran M.W., Shanti Sena. L’esercito di Pace del Mahatma Gandhi, «Quaderni Satyagraha», 3, 2003: 147-167.
Bauman, Z., Intervista sull’identità. A cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003.
Bauman, Z., La solitudine del cittadino globale (1999) tr. Feltrinelli, Milano 2003.
Bertman, S., Hyperculture. The human cost of speed, Praeger, Westport-London 1998.
Capitini, A., Il messaggio di Aldo Capitini. Antologia degli scritti. A cura di G. Cacioppo, Lacaita, Manduria 1977.
Casevitz M., à la recherche du kosmos, «Le temps de la réflexion» 10, 1989: 97-119.
Debord, G., La società dello spettacolo, (1967) tr. it. Baldini e Castoldi, Milano 2002.
Du Sablon, V., Le système conceptuel de l’ordre du monde dans la pensée grecque à l’époque archaïque: τιμή, μοῖρα, κόσμος, θέμις et δίκη chez Homère et Hésiode, Éditions Peeters, Paris 2014.
Galtung, J., Pace con mezzi pacifici, (1996) tr. it. Esperia, Milano 2000.
Gandhi, M.K., Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, Torino 1996.
Han, Byung-Chul, Hyperculture. Culture and Globalization, (2005) tr. ingl. Polity Press, Cambridge 2022.
Han, Byung-Chul, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, (2021) tr. it. Einaudi, Torino 2023.
Linton, R., Lo studio dell’uomo, (1936), tr. it. Il Mulino, Bologna 1973.
Morin, E., Scienza con coscienza, (1982) tr. it. Franco Angeli, Milano 1988.
Morin, E. e Kern, A.B., Terra-Patria, (1993) tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1994.
Podziba, S.L., Chelsea Story. Come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2006
Stengers, S., Une autre science est possible! Manifeste pour un ralentissement des sciences suivi de Le poulpe du doctorat, La Découverte, Paris 2013.
Woolf, V., Le tre ghinee, (1938) tr. it. Feltrinelli, Milano 1987.
________________________________________________________
Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca, presso l’Università di Palermo, dove, dall’a.a. 2001-02 al 2008-2009, ha tenuto anche il “Laboratorio di teoria e pratica della nonviolenza”. Ha tenuto seminari e corsi sulla nonviolenza in scuole, associazioni e centri sociali, nonché per le Forze dell’ordine. Si occupa di storia, teoria e pratica della mediazione e gestione dei conflitti. Sulla storia della mediazione e della nonviolenza nella Grecia antica (che costituisce il suo specifico ambito di lavoro accademico) ha pubblicato i volumi: «Nel mezzo». Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (Pisa University Press, 2014); Riso e sorriso e altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia antica, (Edizioni Mimesis, 2018). Sulla teoria e la pratica della nonviolenza e della mediazione in ambito odierno ha pubblicato i volumi: Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Edizioni Mimesis 2004); Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine (Gandhi Edizioni 2007).
_____________________________________________________________