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Deportazioni migrazioni diritti e barbarie

Profughi, di Marian Pixabay

Profughi, di Marian Pixabay

di Roberto Settembre

Premessa

Ben prima di affrontare il tema proposto è necessario confrontarsi (si noti la differenza tra “Affrontare” e “Confrontarsi”) con un assunto assai comune di questi tempi divisivi e assolutistici, poiché la critica della modernità, aggiornata all’oggi, passa attraverso lo svuotamento di significato dei cosiddetti valori occidentali, in quanto si sostiene che il loro tradimento equivalga alla loro fallacia. Paradossalmente anche il tradimento di Giuda che avrebbe accolto la volontà del Sinedrio significherebbe l’insipienza dei valori propugnati nel Vangelo, vieppiù dimostrata dal tradimento perpetrato nei secoli successivi dalle Chiese che se ne sono fatte sedicenti uniche interpreti.

Con questo si vuol dire che gettar via l’acqua sporca col bambino significa, o non riconoscere la presenza del bambino, o rifiutarsi di ascoltarlo perché altro è il messaggio che si vuol trasmettere, essendo portatori di un bambino diverso. Ma ancora differente, trattandosi di mera mistificazione come si vedrà, è sostenere che il bambino sostituito sia quello vero, perché gettar via il bambino significa disconoscerne il valore, valore intrinseco, nel caso che ci occupa, al contenuto più significativo dei valori illuministici non ancora avvelenati dal colonialismo e dall’imperialismo del capitalismo mercantile europeo.

Ora, ragionando appena un poco e banalmente sul significato dell’illuminismo, e sulle ragioni per le quali il pensiero occidentale ha distillato i suoi princìpi, e da dove viene quest’operazione della mente, basterebbe riflettere su che cosa l’aveva preceduto: l’assolutismo, l’inquisizione, la schiavitù, l’oscurantismo, le guerre di religione e, per quanto ci occupa, la conquista.

Si pensi, in proposito, alle parole di Diderot e di Kant che rifiutano di separare eticamente i due mondi, quello della civiltà e quello dell’inciviltà, viceversa unificati in un giudizio comparativo di valore dalla propaganda occidentalista mai finita, come se l’etica contemplasse questa separazione. E a come questa mistificazione venga smascherata da Edward Said nel suo Occidentalismo.

9788858807545_0_0_536_0_75Ma si noti quanto paradossalmente neppure il paladino, l’alfiere della più radicale critica del Capitalismo, Karl Marx, che respinse gli assunti universalistici di Diderot e di Kant in nome del suo progetto escatologico dell’umanità redenta dalla Rivoluzione, sfugga a questo pregiudizio, e definisca i popoli schiavizzati dal colonialismo «comunità semibarbare, semicivilizzate… adoratrici di un brutalizzante culto della natura, che mostra(no) il (loro) degrado nel fatto che gli uomini, i sovrani della natura, si inginocch(ino) in adorazione di Hammar, la scimmia, e di Sabbale, la mucca».

D’altronde è opportuno, riflettendo non tanto sul contenuto di queste parole, quanto su come e perché siano state speculari e analoghe  a quelle degli alfieri della missione civilizzatrice dell’Occidente. Infatti le parole di Marx fanno parte dei pensieri formulati in conseguenza delle guerre dell’oppio del 1839-40, scatenate dall’Inghilterra contro l’impero cinese che si era opposto a quel commercio nel suo territorio, e sebbene questi pensieri si accompagnino alla riprovazione della condotta dell’impero inglese, ritenendola utile a far scoccare la scintilla della rivoluzione, non vi è estranea l’indifferenza verso popoli ritenuti inferiori, talché il fine giustifica i mezzi, trattandosi pur sempre di vittime necessarie, per cui si propone di combattere l’orrore con l’orrore. Dopo tutto vennero così giustificate le bombe su Hiroshima e Nagasaki, e oggi, nell’attuale guerra di Gaza, lo sterminio di quasi 50 mila gazawi.

In realtà il punto che sta a cuore di chi scrive non attiene alla necessità di un giudizio onnicomprensivo della politica mondiale degli ultimi due secoli, non essendo possibile argomentarlo negli spazi ristretti di questo lavoro, bensì offrire uno spunto di riflessione sui concetti di morale e politica, la cui relazione è di due tipi: per il primo si tratta di una distinzione che deve operare sul terreno del giudizio, strettamente connesso col mantra del fine che giustifica i mezzi, opinabile o esecrabile o condivisibile a seconda di quale sia il luogo di osservazione di chi formula il giudizio, sempre favorevole se l’individuo che lo proclama se ne sta coi glutei caldi e al sicuro, i suoi e quelli degli amici suoi, ma, essendo pur sempre un giudizio ammantato di onestà intellettuale, il soggetto si assume la responsabilità di quanto dice.

Il secondo, invece, è distillato da una sostanziale disonestà intellettuale, e consiste nel contrabbandare il mantra nella sua negazione, affermando che perseguire quel fine risponde, viceversa, non a un necessario (e doloroso, sempre per gli altri) scollamento della politica dalla morale, ma a una diversa e necessaria concezione della morale, per cui quel che vi sembrerebbe contrario, ne costituisce l’essenza. Il che è una mistificazione bella e buona, e piuttosto sfrontata, così come si è dovuto constatare di questi tempi a proposito della decisione governativa di restituire al governo libico il regista e l’autore di innumerevoli e terrificanti delitti contro la persona, stupri, omicidi, torture.

Infatti costui, sebbene arrestato nel nostro Paese su mandato della CPI, il cui ordinamento è entrato a far parte di quello italiano dopo che l’Italia, avendo istituito lo Statuto della Corte a Roma nel 1998, entrato in vigore il primo luglio del 2002, l’avesse ovviamente ratificata, lo ha inopinatamente liberato, e restituito alla Libia tambur battente con un volo di Stato.

Ebbene, dopo aver assistito alla reazione sdegnata di una larga fetta dell’opinione pubblica scandalizzata da simile condotta, si è assistito a una sorprendente mistificazione della realtà, per cui, dopo aver imbastito una congerie di corbellerie giuridiche e di arzigogoli argomentativi sulla ricostruzione dei fatti, alla fine si è invocata non solo la ragion di Stato, per cui il fine giustifica i mezzi, ma si è raccontato, come ha sostenuto Giovanni Orsina, su La Stampa l’8 febbraio 2025, che questa condotta è il frutto di una scelta morale, per cui è morale mettere sul piatto della bilancia dell’ “interesse nazionale” la morte di migliaia di persone, affogate nel Mediterraneo, perite di sete nel deserto africano, deportate, uccise, violentate, torturate, vendute come schiave, e usate come merce di scambio per fare quattrini, e sull’altro le forniture energetiche e l’incolumità dei cittadini italiani, civili e militari, presenti sul territorio libico, e potenzialmente ostaggi dei criminali ai quali l’Italia ha fornito mezzi, strumenti, addestramento e danaro per commettere quei crimini, e aggiungervi la necessità di scongiurare un flusso inarrestabile di migranti. E affermare così che si tratta di una scelta morale, ridicolizzando, esecrando e aggredendo chi la rifiuta e la combatte sul terreno istituzionale.

Insomma, si tratterebbe di una scelta morale tanto quanto lo sarebbe uccidere 50 mila gazawi per liberare i 130 ostaggi rapiti il 7 ottobre durante l’orripilante pogrom di Hamas sul territorio israeliano, con la differenza che i 130 ostaggi erano di fatto nelle mani dei loro aguzzini che avevano già scannato più di mille cittadini israeliani, bambini compresi, mentre gli italiani in Libia, dove peraltro sono presenti anche i nostri militari armati, lo sarebbero in linea puramente ipotetica.

Ma tant’è, invocare la Ragion di Stato, il segreto di Stato, la responsabilità morale delle proprie decisioni, la visione del futuro e del bene comune, e soprattutto in nome della sovrapposizione dei concetti di giusto e di bene, come vedremo più avanti, che sfuggirebbe a chi vive estromesso dalla stanze del Potere, così sostengono quelli che la abitano e i loro corifei, non giustifica, a parere di chi scrive, il dover far propri questi mantra, e il fatto che l’opinione pubblica dovrebbe farsi portatrice e sostenitrice di simile propaganda.

Invero parlare di propaganda, di per sé, non aiuta e aiuta nel medesimo tempo a comprendere la fortuna di quella che qui non si esita a definire una forma di abiezione morale, e la diffusione quasi capillare dell’indifferenza verso l’orrore, per non dire dell’ostilità a una lettura consapevole di cosa muova il gioco, che consiste nel confondere un essere umano che fugge da un inferno climatico, o di fame o di persecuzione, stremato da un viaggio terrificante, con un pericoloso nemico da respingere in nome della difesa della Patria, inducendo l’opinione pubblica a sostenere questa politica nella generale indifferenza.

Tuttavia quasi certamente nessuna di queste parole avrà alcun effetto sulla psiche e le facoltà cognitive colonizzate dal potere della propaganda che mistifica la morale. In verità si ritiene che per i soggetti intimamente persuasi che il concetto di giusto e di bene non siano neppure scalfiti dalle informazioni e dalle considerazioni sul loro significato, poiché cogliere il significato delle informazioni, quando proprio non si possono eludere, significherebbe aprire la propria coscienza al dubbio. Ma costoro ne sono esenti. Da ciò scaturisce una breve riflessione su un fatto storico: l’indifferenza vissuta nella mente dagli umani per secoli e secoli sul significato della schiavitù.

Allora il pensiero corre al panificio di Pompei. E non se ne sorprenda il lettore. È recente la scoperta durante gli scavi in questo sito archeologico delle strutture ben conservate di un panificio, dove gli schiavi vi erano addetti, confinati in un locale chiuso da una grata, saturo di polveri di farine, immersi in una temperatura altissima, confezionavano e cuocevano il pane, e luogo che, come ha spiegato il commentatore della trasmissione televisiva che ne descriveva la natura, era uno dei peggiori in cui il destino feroce dell’antica Roma potesse condurre esseri umani che vi trovavano la morte per malattie polmonari e altro. Eppure la sensibilità dei cittadini romani non ne era nemmeno sfiorata, poiché, per questa, gli schiavi non erano esseri umani.

Tuttavia si deve convenire che i cittadini romani non erano dei mostri morali, e non era stata la propaganda a trasformarli in esseri senzienti del tutto impassibili di fronte alle tragedie spaventose che il sistema di cui facevano parte commetteva. E del pari è difficile persuadersi che la specie umana, capace di sentimenti, di amore, di amicizia, di affetti, fosse istintivamente mossa da una assoluta dicotomia morale, per cui il destino di una parte degli esseri umani fosse percepito come quello dei pesci d’allevamento o dei polli in batteria.

Allora si può ipotizzare che a un certo momento, nel corso della Storia, il sentire collettivo, mosso dagli eventi, dai rapporti di forza e di dominio, dall’interesse contingente, dall’egoismo di gruppo e dai processi identitari, abbia non solo adeguato a tutto ciò i costumi, quelli che i latini chiamarono “mores”, ma li avesse in un certo qual senso codificati in un’etica condivisa. Ed è per questo che nei Vangeli non si trova traccia di una sola parola contro l’istituto della schiavitù, sebbene la schiavitù sia intrisa di crudeltà, di indifferenza, di sopraffazione, di violenza e di dolore, tanto quanto, oggi, di fronte alla morte inflitta.

Ma, sebbene quel mondo non sia più il nostro, è di quello attuale che si deve parlare, per il nesso stretto che lega le deportazioni, le migrazioni, i diritti e la ferocia, cioè la sofferenza e la morte, nonostante questo mondo abbia elaborato una enorme congerie di strumenti culturali e giuridici che possono racchiudersi sinteticamente nelle parole del secondo comma dell’art. 40 del codice penale: «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Il che significa attribuire un ruolo preciso a chi ha il dovere di confrontarsi col destino delle vittime, perché sorge spontanea la domanda su chi sia Caino e chi sia Abele. Infatti, se l’assunto del “nessuno tocchi Caino” è certamente un principio di civiltà, non può alimentarsi del corollario che alcuni suoi difensori ne hanno tratto, e cioè che Abele, il lagnoso, non si lamenti e taccia, altrimenti l’assunto del nessuno tocchi Caino diventa l’alibi dell’indifferenza feroce al dolore altrui. Eppure tanto più Abele deve smettere la lagna, sostengono i difensori di Caino, che le istituzioni interpreti dei loro diritti, vengono additate al pubblico ludibrio e aggredite quanto più agiscono in loro difesa chiedendone conto a Caino.

Ora, questo lavoro non ha la presunzione di fornire dati esaustivi per una conoscenza dettagliata degli attuali avvenimenti epocali, già implicitamente contenuti negli eventi dell’ultimo decennio, ma quello di porre in relazione la realtà politica, giuridica, di costume, nel tragico divenire del suo infrangere crudele le radici, i principi sui quali la comunità internazionale aveva cercato di rifondare su un terreno comune il senso di umanità violato dagli orrori della prima metà del XX secolo e ancora sinistramente riflessi in questo successivo, con quel che resta della coscienza umana non ancora ammorbata dalla cecità egoista e dalla stupidità ottusa di chi nulla sa, nulla vuol conoscere e beve avidamente le narrazioni/interpretazioni del mondo reale fornite e prive di notizie veritiere, così come accade col trionfo della post verità, che tanto piace a chi non vuol sentirsi dire che si tratta di pura menzogna.

9788842094166La questione

Detto questo, ci sono due modi per affrontare la questione etico giuridica (quella economica non è una premessa, sebbene la vulgata mainstream ne usi disinvoltamente l’assunto come Verità primaria, e lo faccia usando i dati, che non sono mai neutri, come vedremo) desumibile dall’oggetto indicato nel titolo di questo lavoro. Uno è tecnico giuridico, e affonda le sue radici in due terreni: uno è quello delle norme primarie e della loro relazione con le norme secondarie. L’altro si dilata nella palude vischiosa del diritto internazionale.

Il secondo modo, last but not least,  e lo si dice a ragion veduta, attiene al rapporto fra la Storia, la Storiografia e l’Etica intesa come approccio filosofico del pensiero filtrato dalla conoscenza e dalla coscienza degli esseri umani, quando vogliono, e volendone ne sono sempre capaci, mentre il non volere lascia marcire la propria coscienza nelle sentine più fetide della memoria storica, capire quel che la semplice conoscenza non consente.

L’ordine logico, tuttavia, impone di partire da questo secondo, affinché i fatti storici, che prescindono dal loro esame e dalla loro interpretazione, forniscano un terreno utile al confronto critico con quanto ci racconta la storiografia. Si vuol dire che esistono due categorie di fatti storici ineliminabili della percezione mossa da volenterosa buona fede: da una lato quelli materiali, concreti come le fonti archeologiche, le tracce fisiche degli eventi, i reperti di ogni tipo, le fonti letterarie e storiografiche intese non per il loro contenuto, ma per la loro origine, per quanto consentono le risultanze delle ricerche e delle analisi scientifiche circa le loro collocazioni geografiche e temporali, e dall’altro le normative, il diritto scritto coevo a quei fatti, poiché il diritto è un reperto forse ancor più significativo di quelli archeologici, in quanto questi sono muti, sebbene concretamente manifesti, mentre il diritto offre la traccia mentale della volontà di chi lo ha codificato in norme esplicite, e porta fino a noi, anche a distanza di secoli o di decenni, la voce e il pensiero dei suoi autori. È come se in quei testi giuridici rivivesse il pensiero di coloro che hanno trasformato in legge non solo la loro volontà di potenza, ma il potere stesso che ha plasmato, nel bene e nel male, la dinamica storica, e che affonda le sue radici nella storia stessa dell’Occidente.

Questa affermazione prescinde dal prendere in considerazione l’esigua, ma oggi in aumento, frangia di personaggi allevati al pane dell’ideologia e al veleno del cinismo, per i quali il legame tra le leggi scritte e i fatti nudi e crudi – come le fosse piene di cadaveri, le schiere di armati che brandiscono armi appena fornite dai loro mandanti, i lager dove si tortura e si uccide, i mezzi usati per le deportazioni – costituissero mere immagini propagandistiche della stupidità buonista che se ne scandalizza e invoca le contro misure previste dagli ordinamenti nazionali e internazionali.

Ebbene, per affrontare il tema proposto nel titolo è necessario confrontarsi con la storia europea alla luce delle aporie nel suo principio di legalità basato sullo Stato di diritto, e la conquista coloniale dove il principio di legalità venne infranto in nome dello “Stato di eccezione”, così come visto nell’esaltazione del potere che ne fa Carl Schmitt. Ne consegue l’abbandono dell’idea di uguaglianza, negata alle popolazioni indigene considerate inferiori da un soggetto che si riteneva superiore. Fattore ideologico funzionale al perseguimento degli utili mercantili delle potenze coloniali, che non solo ha continuato a riverberarsi sui rapporti tra le potenze europee e i Paesi colonizzati anche nei decenni successivi alla decolonizzazione, come si vedrà, ma che costituisce un alibi per la coscienza di chi assiste più o meno compiaciuto alla lotta contro i migranti, spacciata per lotta contro la migrazione irregolare, atteso che la parola astratta “migrazione” permette di non vedere la carne e l’anima straziata nel corpo fisico dei migranti persona.

Per questo motivo il discorso va ricondotto alla seconda metà del XIX secolo, quando il diritto internazionale (i.e. la Società internazionale composta dagli Stati europei, da quelli americani e da alcuni di religione cristiana), idealizzato come proprio dei soli popoli civili, legittima la conquista militare e commerciale, analogamente alla legittimazione ideologico-religiosa dei Conquìstadores. Così nel 1842 Hong Kong viene ceduta all’Inghilterra dalla Cina per ripagarla delle spese sostenute nelle guerre dell’oppio.

9788815292810_0_500_0_75Non essendo questo il luogo per analizzare le giustificazioni teoriche di questi eventi (per cui  si rimanda alla lettura di  G. Gozzi, Eredità coloniale e costruzione dell’Europa, Il Mulino, 2021), ma giustificazioni teoriche della sopraffazione sono state sempre presenti nella cultura occidentale, fin dalla fiaba di Esopo il lupo e l’agnello o, in Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, sulle ragioni della distruzione di Melo da parte degli ateniesi, è l’esame del diritto internazionale di quel tempo che sancisce il diritto di acquisire il suolo dei nativi (in USA dei territori indiani) e di porvi insediamenti, non riconoscendo agli espropriati il diritto di proprietà (M. Koskenniemi, Il mite civilizzatore, Laterza 2012). Soprattutto, quanto alla politica coloniale europea, ne costituisce esempio emblematico la French zone tunisina e marocchina di inizio secolo XX, ma in primo luogo, si pensi alla conquista dell’Algeria, ai tentativi coloniali italiani di fine XIX secolo (Adua docet) e a quelli più tristemente famosi del XX secolo per cui si rimanda alla storiografia di Angelo Del Boca.

Ora, su come la colonizzazione si sia espansa e consolidata è compito della storiografia, e qui ci si limiterà a brevi cenni sui rapporti fra diritto coloniale locale e diritto internazionale che regolava le relazioni tra colonizzatore e colonizzato attraverso le fonti documentali a partire, ad esempio, dal mandato della Società delle Nazioni agli Stati protettori sugli Stati protetti, e poi dell’amministrazione fiduciaria nel quadro dell’ONU.

Si tratta cioè di una realtà culturale basata sull’idea di Stati di civiltà avanzata e di entità non statali, con le prime legittimate all’occupazione di territori abitati da popolazioni indigene non organizzate come uno Stato, per cui l’effettività del possesso forniva un titolo di occupazione riconosciuto, legittimando le appropriazioni esclusive attraverso l’esercizio della funzione sociale della sovranità. Ne consegue che «La disposizione di un suolo e delle sue ricchezze naturali implica l’obbligo di sfruttarlo conformemente ai bisogni della Solidarietà internazionale» (Gozzi, cit. 39).

Che poi questo concetto di Sovranità sia ambivalente, e tale da giustificare la conquista nella premessa storicistica della rivoluzione dei conquistati profetizzata da Marx, è un aspetto della lettura ideologica degli eventi, che tuttavia non può cancellare un dato storico: il colonialismo dei territori dai quali è scaturito il fenomeno migratorio che l’Occidente combatte in modo spietato e in spregio ai princìpi dei Trattati e delle Convenzioni internazionali.  

Ma non solo in Occidente, come in Russia, dove il Kommersant del 27 luglio 2024 ha riferito che un tenente colonnello del Ministero dell’Interno ha invitato la polizia dell’oblast di Mosca  «a imbiancare la regione in modo che non venga annerita da cittadini stranieri», e Wladimir Putin ha varato una legge sull’espulsione senza processo dei migranti irregolari (non clandestini), anche se residenti e occupati nel trasporto pubblico e nei servizi, privati dei diritti fondamentali, dalla patente di guida ai servizi bancari, all’iscrizione dei figli a scuola (Le Monde Diplomatic, febbraio 25, Caccia ai migranti in Russia).

In realtà si tratta dell’idea che con l’ ammettere al Diritto Internazionale Stati ritenuti estranei alla Società internazionale fin dal XIX secolo, transitata nel pensiero politico occidentale tanto profondamente da confluire nella decisione di non accogliere tutto il D.I. nel proprio ordinamento, si sarebbe arrivati (come oggi d’altronde) a giustificare una condizione di uguaglianza smentita dai fatti. E questo lo si può ben notare negli eventi di questi giorni, dove Paesi potenti e Paesi marginali come il nostro respingono le cosiddette pretese delle Istituzioni internazionali, riconosciute da alcuni Stati e da altri no, come contrarie alla necessaria distinzione machiavellica tra politica e morale, su cui si spenderanno alcune parole più avanti. Ciò comunque accade poiché i diritti universali sarebbero un prodotto delle Società e delle culture di chi li ha inventati, facendo discendere un corollario logico argomentativo per cui la loro estensione a chi non ne è stato l’artefice/promotore non è automatica, ma necessita di un ulteriore razionalizzazione. Questo argomento, entrato a far parte della coscienza identitaria dei portatori di civiltà, comporta un habitus mentale analogo alle strutture morali della coscienza collettiva, la stessa che per millenni non ha condannato la schiavitù, che, a ricaduta, illumina di sé le coscienze individuali. Ed ecco spiegata la ragione per la quale ci sono soggetti, sia in posizioni apicali, sia come opinion makers, sia come semplici osservatori distratti della realtà, capaci di liquidare le informazioni dettagliate di fatti atroci, come frutto di mera ideologia buonista.

9788843065462In realtà tutto ciò è conseguenza e concausa, sul piano propagandistico, del concetto di gerarchia razziale ed etnica, di cui, ad esempio, l’attuale regola dell’attribuzione della cittadinanza fondata sullo jus sanguinis ne costituisce la derivazione giuridica. Sul punto di prenda in esame la legge italiana del 5/2/92 che prevede la naturalizzazione dopo un congruo periodo, ma che, all’art.9, differenzia la concessione tra il cittadino membro della UE (4 anni), e l’altro che deve risiedere qui da almeno 10 anni (Camilleri, Il discorso sulla cittadinanza coloniale, in Governare l’oltre mare, Carocci 2013).

Si tratta di un fenomeno culturale che discende, da noi, dai principi giuridici (art. 2, RD 2.7.1908 n. 325), che nelle colonie distinguevano gli stranieri e quelli di nazionalità di civiltà superiore, che definivano il nativo della Colonia o appartenente a tribù o stirpi della stessa, e lo straniero di una popolazione che non avesse civiltà in grado simile quella europea (Rosoni, La colonia eritrea, in nota di Gozzi, cit.: 44). Quindi si tratta del concetto di “naturalizzazione”, derivato dall’idea di “evoluzione” di cui si riconoscevano diversi livelli raggiunti dalle molteplici popolazioni soggette al dominio coloniale, al conseguente abbandono dell’idea di uguaglianza (Gozzi: 45 e 84), confluito poi nel progetto della cosiddetta “associazione” a cui non è estraneo l’attuale piano Mattei.

Ne consegue che l’elemento contraddittorio fra i principi contenuti del D.I., quello Comunitario e quello della UE e i vari trattati (cfr. R. Settembre, Tortura oltre i confini, in Dei delitti e delle pene, Carocci 2018: 109 sgg.), quello Costituzionale da un lato e le normative anti immigrati, dei quali si nega, di fatto, la soggettività giuridica di rifugiati e di richiedenti asilo, e dei minori, come si vedrà, trova il suo back ground giuridico nel rapporto fra il diritto coloniale, quello pluralistico che applica leggi diverse a diversi gruppi sociali, e quello metropolitano, come risulta dal trattato di capitolazione del 5.7.1830 tra la Francia e il Bey Hussein di Algeri, che introdusse una codificazione ad hoc (D. Costantini, Statut de droit musulman, in Bulletin telematico di filosofia politica, 2009) che esclude gli algerini dalla cittadinanza francese fino alla legge Gueye del 1946. Analogamente agisce il diritto anglo indiano, frutto della ritenuta “Indian difference” che portò alla codificazione di un nuovo diritto per gli abitanti dell’India e che, col Charter Act del 1833, abolì radicalmente le istituzioni tradizionali della civiltà indiana, confluito poi nel General Clause Act del 1868 (Varano Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, Giappichelli ed. 2024).

9791221106381Queste forme di pregiudizi etnico culturali sono prepotentemente penetrati anche nella coscienza di alcuni magistrati, che interiorizzando un differente approccio al riconoscimento dei diritti, sono stati incapaci di cogliere, nella legislazione attuale volta a stroncare l’immigrazione sulle rotte marittime (art. 12 bis DL 20/23), la differenza tra la condotta di uno scafista e quella di un immigrato che si è messo al timone di un natante in pericolo per salvare se stesso e gli altri, talché, come nel caso di Maisoon Majidi, l’attivista e regista curdo-iraniana, fuggita dal suo Paese, e incarcerata dopo lo sbarco in Calabria il 31 dicembre 2023, che ha dovuto patire dieci mesi in custodia cautelare prima di venir prosciolta dalle accuse. Pari dubbi suscitano le numerose pronunce di condanna documentate dal report di Arci Porco Rosso e Borderline Europe, per cui ben 106 migranti giunti via mare, sono stati condannati a lunghe pene detentive.

Allora, cercando di comprendere il significato più profondo di tale distopia, deve osservarsi che la Società europea e occidentale non può rifiutare esplicitamente il mito sul quale si fonda (almeno sino ad ora…) e cioè i principi universalistici transitati nei suoi ordinamenti giuridici, senza ricorrere a sottili e grottesche mistificazioni in cui indulgono i paladini della ragion di Stato. Si tratta di chi mistifica la giustificazione della scissione tra l’immagine liberale dell’Occidente e la realtà illiberale delle sue condotte, capace di liquidare sul piano del pragmatismo tutti i principi liberali confluiti negli ordinamenti internazionali e nazionali, negare in toto la loro efficacia evidenziandone, falsamente, la mancanza di opportunità per l’interesse nazionale, e quindi disattenderli platealmente o addirittura invocare l’uscita dei Paese dai Trattati e dalle Convenzioni a suo tempo  sottoscritte.

Il tutto confluito nella dicotomia che separa la politica dalla morale, ridicolizzando parole come quelle di J. Bentham, scritte oltre due secoli fa: «Per quanto intense siano le difficoltà dei molti oppressi, la bramosia del potere acceca gli occhi dei pochi che governano, impedendo loro di vedere lo spettacolo: per quanto estreme siano le miserie delle popolazioni, la brama del potere rende i loro sentimenti insensibili… sulle nostre labbra il diritto diventa torto non appena è orientato alla tutela dei vostri interessi, o a ciò che considerate i vostri interessi, i vostri privati e sinistri interessi. La vostra generosità è solo egoismo. Il vostro amore della libertà è amore del potere e nient’altro: invano continuerete a rivendicare il titolo di liberali» (J. Bentham, Commerce and Constitutional Law, Schonfield, Oxford, Clarendon Press, 1995:.225, in nota Gozzi: 163).

enthamE tanto operò questa dicotomia che la negazione dei diritti denunciata da Bentham nel 1793, apparve pari pari nella limitazione della libertà di circolazione dei colonizzati (oggi dei richiedenti asilo in contrasto con la Direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza, del Parlamento europeo e del Consiglio del 26/6/13), ai quali fu imposta la richiesta di un permesso per recarsi in una località diversa da quella del comune di origine. Si trattò di una vera razzializzazione di Stato, che si espresse in istituti giuridici, tutt’altro che sconosciuti in questo tempo che usa disinvoltamente i CPR per internare i migranti irregolari, prevedendo l’internamento amministrativo degli indigeni, assunto con una decisione ministeriale francese del 27.12.1897, affidata a poteri speciali, sostanzialmente giudiziari, ma di amministratori civili o militari. Si trattava di decisioni esorbitanti, destinate a reprimere fatti non nettamente definiti, sottratti alle pene generalmente ammesse, non rientranti tra quelle criminali, o politiche di diritto comune, codificate nella legislazione penale del Code de l’Indigénat emesso dall’Assemblee Nazional francese nel 1881, di cui se ne coglie una gigantesca traccia nell’operato delle nostre FF.OO che praticano la riammissione sui confini orientali, come vedremo più avanti.

Detto questo, e tornando in modo più stringente al tema proposto, deve chiarirsi che il nesso tra Deportazione e Migrazione passa attraverso l’uso strumentale del diritto interno, possibile solo se la coscienza collettiva lo permette, cioè se la coscienza collettiva è impermeabile ai principi codificati nel D.I. e a quelli presenti nel Diritto interno che l’ha ratificato, e se questa incapacità di cogliere la valenza dei principi costituzionali ai quali il diritto interno, usato strumentalmente per fini ad esso antitetici, ci contrappone. È cioè necessario che il potere politico dominante si rifletta in termini di consenso in un’opinione pubblica che la legittima sul piano della portata delle norme emanate in aperto contrasto con la ratio di quelle costituzionali e la portata di quelle internazionali. Tutto ciò comporta la vanità dei richiami alla forza e alle parole contenute nella Costituzione e nel D.I.

Tutto questo impone una riflessione sulla tenuta del sistema democratico, poiché non esiste alcuna possibile salvezza di un sistema costituzionale senza che il suo presupposto venga salvaguardato dalla presenza di un consenso basato sulla forza. E il nesso tra questa forza e il sistema che ne viene garantito sta nella coscienza di chi è persuaso di questa necessità. Questo stato della coscienza va al di là dei contenuti normativi del sistema costituzionale in esame e sopravvive finché gli individui gli attribuiscono il significato desumibile dalla lettera del detto sistema. Ma quando gli individui si persuadono della vacuità di tale significato il sistema crolla.

Il punto focale della questione, allora, sta nella comprensione di cosa sia, come funzioni e cosa determini il funzionamento della coscienza degli individui, poiché non esiste un nesso automatico che leghi l’autorevolezza di un’argomentazione alla sua interiorizzazione nella coscienza. E non è necessariamente l’azione politica, o l’interesse personale o di gruppo ad aprire la via di questa interiorizzazione, bensì il legame istintivo che unisce i due caposaldi dell’agire umano: i concetti di giusto e di bene che non sono sovrapponibili poiché l’uno attiene alle dinamiche relazionali e l’altro agli spazi emozionali della psiche. Questo perché il concetto di giusto e quello di bene interagiscono vicendevolmente costruendo all’interno della coscienza una sinergia tra il giudizio e l’azione, dove il giudizio, così alimentato, costituisce il motore dell’azione politica espressa, nei tempi bui, col consenso elettorale e culturale per le condotte del potere dominante e nell’indifferenza o nel compiacimento per la violenza praticata sulle vittime.

Ora, che questo consenso elettorale o culturale discenda consapevolmente dalle conoscenze degli eventi storici contemporanei o dall’ignoranza, o sia il frutto della propaganda, fenomeno su cui spenderemo alcune parole, non toglie nulla alla sua gravità in termini di conseguenze, ma questa argomentazione non può prescindere dal prendere in esame i due diversi orientamenti dell’Occidente verso il fenomeno migratorio.

71vt4m3exl-_ac_uf10001000_ql80_Si vuol dire che esiste un nesso tra lo sviluppo vertiginoso del Capitalismo globalizzante, l’aggressione alle risorse del mondo, la distruzione dell’ambiente, la crescita dei conflitti etnici, religiosi, politici tra poteri che inseguono il dominio territoriale e il profitto a ogni costo, corruzione e violenza comprese, e l’aumento della migrazione politica ed economica. Ebbene, questo nesso si coglie nell’orientamento del progetto perseguito dal capitalismo neoliberale, peraltro cavalcato anche dai Paesi che rifiutano i diritti universali come la Cina, ma che proclamano il primato del diritto alla libertà economica sulla libertà politica. Così sostenne il padre del neoliberalismo, Von Hayek, consigliere economico del dittatore cileno Augusto Pinochet, quando disse di preferire una dittatura liberale (cioè liberista) e una democrazia illiberale (cioè non liberista), e nel suo La via della schiavitù, sostenne la necessità di porre vincoli al potere dello Stato per garantire viceversa il perseguimento degli obiettivi della libertà economica. Ideali oggi cavalcati dal Presidente argentino Milei, in varia misura da Trump e dai suoi corifei.

Ne consegue che la stessa UE, intessuta di principi che si richiamano alla Dichiarazione dei diritti universali  del 1948, e dell’inserimento nei suoi trattati delle regole neoliberali (si pensi anche al recente nostrano Decreto concorrenza), perseguendo le sue politiche anti immigrazione, penalizza i popoli che l’Europa non solo ha rapinato delle loro risorse naturali, ma che ha in gran parte corrotto sul piano politico, influenzandone, se non determinandone, le politiche economiche e la presa del potere di élite, criminali a vario titolo. L’effetto è un’ulteriore brutalizzazione dei più deboli fra gli esseri umani. E tutto ciò in sintonia con la sostanziale ipocrisia del messaggio contenuto nelle parole “Diritto allo sviluppo” proclamato dall’Assemblea generale delle N.U. con la Risoluzione 41/128 del 4/12/86 che, attraverso l’assunto della Solidarietà e della Cooperazione fra gli Stati, ha sancito, anche per i Paesi cosiddetti in via di sviluppo, i principi di un D.I. Economico che adottava le regole del FM, del GATT, della Banca Mondiale (ben diversa da quella ideata da Mainard Keynes che ne aveva escluso i prestiti a interesse) e in sintonia con la cosiddetta scuola economica neoliberale di Ginevra, quella austriaca, quella dei famosi Chicago Boys, cioè finanziario e di mercato. E si noti come quella dichiarazione delle NU del 1986 sia coeva al trionfo del neoliberalismo divenuto mondiale al termine della guerra fredda.

L’altro orientamento, contrario a questo, sta nel preambolo della Charter of economic rights and duties of States, approvata dall’ Assemblea Generale delle N.U. il 12.12.74 con «l’intento di dar vita a un Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO), sociale, equo e giusto» ( Gozzi cit. 235) all’interno della Società internazionale post coloniale, per superare le disuguaglianze implicite e mantenute nella prospettiva dell’International economic law e dell’abbandono dell’International development law.

Tanto premesso, il trionfo neoliberale europeo si è accompagnato a forme di intervento nel mondo esterno, che hanno accentuato, invece di ridurle, le sofferenze economiche e umane dei Paesi nei quali, soprattutto negli ultimi decenni, è esploso il fenomeno migratorio, in varia misura per tutto il cosiddetto Sud globale, ma che ha la sua matrice, per quanto attiene all’Africa, della sua crisi economica degli anni ‘80. Allora deve evidenziarsi che la migrazione causata dalle condizioni di povertà estreme non è affatto estranea alle migrazioni indotte dalle guerre e dalle persecuzioni per ragioni identitarie o più strettamente politiche. Sul punto sono utili le osservazioni dell’OIM (Organizzazione Internazionale per la Migrazione) che ha preso in esame, tra le cause dell’emigrazione, le violazioni dei diritti umani e dell’assenza di democrazia.

Più esattamente, mentre l’Occidente prendeva coscienza delle cause del sottosviluppo nella situazione demografica dei Paesi del Terzo Mondo, nella loro struttura sociale e politica, nell’assenza di una politica economica e nella necessità di spezzare la condizione di dipendenza del Terzo Mondo aiutando i Paesi che lo compongono a recuperare sovranità e a lottare contro il loro stato di ineguaglianza, si sviluppò, da un lato, il D.I. Economico espresso nelle regole del FMI, nel Gatt e nella Banca Mondiale, che istituirono le regole di un Capitalismo liberale, finanziario e di Mercato, e che influenzò negativamente lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, rispetto ai quali gli investimenti e i cosiddetti aiuti furono caratterizzati, soprattutto per quanto attiene all’Europa, da un’iniqua sudditanza produttiva e mercantile africana verso i Paesi della CEE, dove ad esempio la Francia e il Belgio mantennero significativi attivi nel rapporto tra importazioni di materie prime e prodotti agricoli e di esportazioni di manufatti, penalizzando ogni forma di vero decollo industriale.

Sull’altro lato l’orientamento del NIEO, abbandonato al termine della guerra fredda, per quanto ancora patrocinato dalla Conferenza Mondiale di Vienna che promulgò il 25 giugno 1993 una Dichiarazione dei Diritti umani adottata da 171 Paesi, non vincolante, per un approccio trans civiltà ai diritti umani secondo un comune fondamento di una coscienza normativa condivisa. Si tratta del concetto di “Good Governance” introdotto in un rapporto della Banca Mondiale del 30 aprile 1992, intitolato “Governance e Development”, sinonimo di Buona gestione dello sviluppo, che aveva individuato: «Deboli istituzioni, mancanza di un adeguato contesto giuridico, deboli sistemi di responsabilità e di controllo finanziario, dannosi interventi discrezionali, politiche incerte e variabili, esclusivi processi decisionali che accrescono i rischi di corruzione e di spreco».

E si noti come tale rapporto sia di poco successivo allo scoppio della crisi africana deflagrata alla fine degli anni ‘80, quando, da un debito pubblico di 8 mld nel 1970, si passa a 187 mld nel 1987, allo strangolamento dei Paesi africani soggetti al pagamento degli oneri debitori con una crescita dell’indebitamento rispetto alle esportazioni dell’73 % nel 1970, salito al 322 % nel 1987, come rileva Marco Zupi, Direttore scientifico del CESPI, per cui l’indebitamento estero interagì coi circuiti economici finanziari azzerando ogni possibilità di Welfare, con aumento di povertà e disuguaglianze e degrado ambientale, mai risolti nonostante gli interventi del mondo cattolico del Heavily indebted Poor (HIP) e nel 2006 del Multilateral Debt Relief Iniziative (MDRI), talché nel 2008 il debito era salito a 417 mld e ancora nel 2019 ben 30 Paesi africani avevano speso più per il debito che per la Sanità. Poi la situazione si aggrava ancora con la pandemia Covid, con fughe di capitali e ritiro di investimenti, tanto che il Nuovo World Development Report della World Bank del 27 aprile 2021 invita a sfruttare i “Data for better lives” purché Etici, equi, sicuri e protetti, attraverso politiche pubbliche.

Vedremo tra poco la ragione dell’evidenza messa sull’aggettivo Etici, poiché tutto ciò ha a che vedere strettamente non solo con il fenomeno migratorio, ma soprattutto con le orride politiche migratorie giustificate dal mantra machiavellico della separazione tra morale e politica che ha edificato un secondo assunto parimenti indegno, circa la pretesa di avere diritti senza responsabilità. Come sosteneva la Thatcher, chi si avventura sul mare investe su sé stesso il proprio capitale esistenziale nella lotta del darwinismo sociale, e se affoga non pretenda il diritto alla salvezza, essendo sua la responsabilità di tale investimento.

1Ma non si può convenirne, come sostiene Norberto Bobbio nel suo Etica e politica (in Elogio della mitezza, 2014:100 e ss.), poiché, dopo aver esaminato le diverse teorie sul problema del rapporto tra morale e politica quanto al significato delle parole attribuite a Machiavelli per cui il fine giustificherebbe i mezzi, cioè tutti quelli a disposizione del Principe verso il “fine” di perseguire «grandi cose», che nella sua spregiudicatezza il Principe realizzerà. Bobbio richiama urgentemente la questione che ritiene attenga al tema di questo lavoro, e cioè non tanto quella della (il)legittimità dei mezzi, che uomini piccoli ritengono necessaria, a prova di tortura, violenza e morte, ma il problema della legittimità del fine. Infatti, afferma Bobbio, il problema dell’idoneità dei mezzi attiene al giudizio sull’efficienza del governo, cioè un giudizio tecnico e non morale, ma «un governo efficiente non è di per sé stesso un buon governo». Pertanto «la domanda su quale sia il fine, cioè sulla sua bontà, è un vero e proprio giudizio morale» che ben può essere una morale diversa da quella dell’uomo comune, che può anche tener conto della Ragion di Stato, ma «l’azione politica non si sottrae affatto come ogni altra azione libera e presunta libera dell’uomo al giudizio di lecito e illecito in cui consiste il giudizio morale, e che non si può confondere col giudizio di idoneo o inidoneo». E questo, prosegue Bobbio, anche quando il fine sia la conquista o l’ampliamento del potere, l’unico che contempla il diritto di ricorrere alla forza, ma questa conquista e questo ampliamento non possono ritenersi beni in se stessi, per cui il fine delle “grandi cose” di Machiavelli e dei piccoli uomini che se ne fanno epigoni, perseguendo così il potere per il potere, vorrebbe dire trasformare un mezzo, che deve essere giudicato alla stregua del fine, in un fine esso stesso. Né l’azione politica può essere strumento per qualsiasi fine che all’uomo politico piaccia perseguire (si richiamano sul punto le parole citate sopra di J., Bentham), talché, posta la distinzione tra un fine buono e uno cattivo, si deve distinguere l’azione politica buona da quella cattiva.

Così torna la questione dell’esercizio dell’azione politica conforme alla Costituzione e al D.I. riconosciuto e ratificato dal potere politico. Infatti le ragioni della creazione del D.I. con le sue istituzioni, Convenzioni, i suoi Trattati, a partire dalla Croce Rossa, passando per la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ai Diritti del mare, alla Carta dell’ONU, alla CGI, alla CGE, alla CEDU, alla CPI, nonché al significato e alle cause che stanno alla radice delle Costituzioni liberali, come la nostra, ci pone di fronte al governo delle leggi, sottoposto al vaglio del Giudice delle leggi e degli atti giuridici che giudicherà illegittimi quando in contrasto coi fini e i precetti presenti nella Costituzione, trasformando in norma cogente, sebbene non scritta, l’assunto per cui la barbarie dei mezzi imbarbarisce i fini.

A questo punto l’argomentazione sussume il concetto di “Good Governance” sopra citato e il concetto di “eticità” del Nuovo World Development Report della World Bank del 2021. Ma, soprattutto, prende in esame come e quanto la barbarie dei mezzi usati dall’Occidente e dall’Europa e dal nostro Paese si concretizzi nelle attuali politiche migratorie, negli accordi e nei memorandum stipulati coi tagliagole africani, nel negare in fatto l’esercizio del diritto di asilo o dei rifugiati, nelle modalità di tale negazione, e nelle varie forme di deportazione verso mondi spaventosi che ci vedono tristi protagonisti, pur in buona compagnia.

kantSi cercherà quindi di mostrare, pur in sintesi, cosa accada, cioè quali siano le violazioni dei principi, ma soprattutto come ciò avvenga. Tuttavia, preliminarmente, un ulteriore spunto di riflessione sul tema qui proposto, deve partire dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del cittadino nella Costituzione francese del 1797 e dalle parole di Kant nella sua Dottrina delle virtù del 1797: «L’uomo, considerato come persona, cioè come soggetto di una ragione morale-pratica, è superiore a ogni prezzo. Infatti, in quanto tale, homo noumenon, va valutato non soltanto come mezzo per gli scopi altrui, ma come scopo in sé stesso… egli possiede una dignità, un valore interiore assoluto, con la quale costringe tutti gli esseri razionali ad aver rispetto per lui, e grazie al quale può misurarsi con ognuno di loro e valutarsi su un piano di parità», per giungere all’art. 1 della Legge Fondamentale della Germania Federale: «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere dello Stato rispettarla e proteggerla» e all’art. 1 della Carta Europea dei diritti fondamentali: «La dignità umana è inviolabile. Deve essere rispettata e tutelata».

Non si tratta di un concetto astratto separato dalla realtà materiale a causa della sua indeterminatezza, è viceversa un principio e un valore non solo da difendere, ma da perseguire indipendentemente dall’ambito territoriale del suo titolare, ed è strettamente fuso con la libertà, che sta tanto a cuore a chi su di essa ha edificato il sistema internazionale globalizzato, ed è su questo legame che deve accentrarsi l’attenzione, soprattutto ora che sia l’una sia l’altra sono messe in discussione dai grandi potenti del mondo e dai loro vassalli che giustificano, con le varie capriole del pensiero, un fenomeno globale come la lotta contro le migrazioni, di cui le deportazioni sono l’aspetto più appariscente, ma sotto il quale vive la mostruosità delle forme di rifiuto verso i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti in genere.

Infatti, nella vicenda delle deportazioni, nelle loro molteplici forme, da quelle dei Uiguri nei gulag dello Xinjiang, ai prigionieri ucraini negli spazi siberiani e ai bambini ucraini deportati nelle scuole e nelle famiglie per essere sottoposti al lavaggio del cervello, ai Palestinesi a vario titolo, ai migranti sbattuti dalla Bielorussia contro le invalicabili barriere erette dalla Polonia nelle foreste gelide del nord, per giungere agli USA di Trump coi deportati in catene o ai progetti del UK verso il Ruanda, o ai migranti deportati dalla Grecia alla Turchia, al destino dei migranti catturati nel Mediterraneo e avviati ai lager libici, c’è un elemento comune, e cioè che i vari poteri al comando ricevono la legittimità dell’azione dal consenso via via più ampio a seconda del sistema politico in cui operano (verrebbe da dire Costituzionale, ma ciò imporrebbe un esame non possibile in questa sede). Ebbene, la ricerca di questo consenso, che viene asserito dal Potere dominante come fondato su ragioni di pragmatismo ideologico condiviso, economiche e geopolitiche (si pensi alla bufala della grande invasione e all’oscenità concettuale della sostituzione etnica, bevuta dai deboli di mente) è sotteso da un plus cognitivo che riposa, come abbiamo visto, su una sedimentazione culturale ben più antica di quella vantata dal Potere dominante. Ed è su questa base sottesa che si articolano le opinioni collettive divise sul tema dell’ideologia, dove il senso morale si intreccia con il tessuto identitario, quello religioso o quello nutrito dall’interesse personale o di gruppo. Pretendere di disconoscere questo dato costante comporta la non comprensione del fenomeno “consenso rigido”. Questa riflessione parte dalla constatazione che le conquiste sociali dei referendum non hanno affatto conquistato le menti e i cuori di tutte le persone e delle generazioni, ma un’enorme percentuale le avversa, mosse dal Potere dominante. Ed è per lo stesso motivo che la conquista dello spazio della morale pubblica avvenuta con la redazione e l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, col suo spirito liberale, antifascista e solidaristico, non ha conquistato, neppure nell’arco di oltre tre quarti di secolo, a fronte dei soli vent’anni del regime fascista, il cuore e le menti della stragrande maggioranza degli italiani.

Si tratta della razzializzazione che venne codificata nel diritto coloniale, che è sopravvissuta «nell’inconscio collettivo europeo (che) non ha ancora superato il passato segnato dall’ideologia della missione civilizzatrice», mentre «l’affermazione della logica economicistica del mercato a livello globale sta rendendo impossibile la decolonizzazione dell’immaginario occidentale rispetto ai Paesi del Sud del mondo» (Gozzi, cit.: 259).

propagandaTutto ciò viene altresì manipolato dalla propaganda e come operi è un fenomeno che è stato indagato a più livelli, come da Carlo Galli nel suo libro Ideologia, e che meriterebbe un esame del tutto fuori spazio e luogo in questa sede, ma che ci si ripromette di affrontare in futuro analizzando la formazione delle categorie del giudizio politico. Ma che esista, che interroghi e risponda ai bisogni dei suoi destinatari, che abbia effetti sulle strutture dell’opinione pubblica, che utilizzi miti preesistenti o ne crei dei nuovi e che non sia estranea al funzionamento della democrazia, soprattutto oggi grazie alle tecnologie informatiche e alla diminuzione delle capacità cognitive dei suoi destinatari, è un fatto incontrovertibile (Jacques Ellul, Propaganda, ed. Piano B, 2023).

Detto questo, e tornando al legame indissolubile tra l’ideale della dignità e quello della libertà, deve osservarsi come questo connubio venga aggredito e disintegrato dalle politiche che operano per cancellare «la libertà di movimento delle persone mosse dalla pulsione verso la libertà di vivere in sicurezza, di agire e di pensare, di amare e di desiderare… oltre la linea del colore e della razza» (Enrica Rigo, L’imbroglio dei confini chiusi, Micromega n. 3/2024). Ora, quanto sia imperante questa pulsione, e quanto venga accesa dalle situazioni materialmente e moralmente insopportabili che spingono i migranti a rischiare la vita per sottrarvisi, la si coglie dalle narrazioni raccapriccianti di chi è sopravvissuto, ad esempio, agli inferni dei deserti nel Sahara nord-orientale, nel viaggio spesso mortale per migliaia di loro verso la speranza, nelle storie di chi ce l’ha fatta, anche a costo di patire molteplici violenze sessuali, torture, ferite, disidratazione, nel flusso ininterrotto di esseri umani “senza futuro”, per arrivare ai respingimenti illegali, come si vedrà più avanti (Antonella Napoli, Africa, All Around 2024: 31).

Eppure «negli ultimi anni sono state quasi 30 mila le vittime dei confini nel Mediterraneo, oltre a quelle sulla rotta delle Canarie e nel Canale della Manica, oltre alle torture inflitte ai migranti per estorcere un riscatto alle loro famiglie mentre sono internati nei lager libici, alle incarcerazioni e alle deportazioni nel deserto della Tunisia, alla violenza della polizia a Ceuta e Melilli» (E. Rigo, cit.: 33). Eppure, paradossalmente, la stessa ideologia che giustifica questi orrori, si dimentica che questa Europa, sotto minaccia di invasione come viene raccontato, dominata dal Regolamento di Dublino III e in vista di codificare il progetto votato dal Parlamento UE nel dicembre 23, avviata ad eseguire deportazioni a vario titolo non dissimili da quelle avviate dall’America di Trump, è la stessa che a partire dal febbraio 2022 e poi nei 15 mesi successivi all’aggressione Russa all’Ucraina, ha consentito a 5 milioni di ucraini, titolari di protezione temporanea, non solo di attraversare i suoi confini senza rimanere imprigionata nelle maglie del Regolamento di Dublino, ma di aggirarsi liberamente sul suo territorio. La stessa Europa e la stessa Italia che accolse in un «solo giorno 27 mila profughi albanesi, tanti quanti sono state le vittime affogate nel Mediterraneo nei dieci anni che separano la strage di Lampedusa da quella di Cutro» (E. Rigo, cit.).

9788877138293Tanto premesso, tornando al problema del rapporto tra Dignità e Libertà, soccorrono le parole di Hanna Arendt su quel nuovo genere di esseri umani messi nei campi di concentramento dai loro nemici e internati dai loro amici (alias siriani e afgani dei nostri tempi) (H. Arendt, Profughi, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, 1998) per cui «la comunità straniera relegata in una massa indistinta, privata dei diritti civili è il volto di ciascuno che scappa, e con esso la sua dignità e persino la sua esistenza etica in generale», poiché «i criteri morali rischiano di collassare quando non sono effettivi nel tessuto di una società» (G. Didi Hubermann e N. Giannari, Passare a ogni costo, ed. Casagrande, 2019).

Ma, a questo punto si crede utile mettere in relazione due fattori: uno, quello degli eventi documentati attraverso le testimonianze e l’informazione non embedded, l’altro della normativa internazionale ratificata e interiorizzata dal nostro ordinamento costituzionale, spesso in contrasto con le prescrizioni amministrative e le leggi emanate col pretesto di sigillare i confini a ogni costo, filtrati dalla cultura nel senso antropologico del termine, ciò che rende gli esseri umani capaci non solo di parlare, lavorare e inventare attrezzi, o magari opere d’arte, ma di vivere in Società, di parlarsi, inventarsi, immaginarsi l’altro” e non a «confondere il suo vicino col nemico, o lo straniero come pericolo, quando inventa istituzioni per mettere in opera una confusione paranoica» poiché, allora, «sta perdendo al propria cultura, la propria capacità di civiltà» (G. Didi Hubermann e N. Giannari cit:54).

Allora, e ancora richiamando le parole di H. Arendt in Apoditicità, su come la barbarie iscrive la sua legge inesorabile, la sua fatalità nel nostro mondo contemporaneo, per cui «il diritto di asilo è crollato, e l’intero problema (verte su come rendere il rifugiato) deportabile, come se il fatto di … essere deportato costituisse il principale (fulcro del) diritto, (con) una sola soluzione: il campo di internamento, al quale si può destinare (qualsiasi apolide, e oggi qualsiasi migrante). I campi d’internamento sono quindi diventati la regola. E quando non sono controllati dalle istituzioni internazionali possono diventare campi di concentramento» (idem cit: 59).

E oggi? La detenzione nei centri di rimpatrio, ex D.lgo 25/7/98 n. 280, a suo tempo di 20 giorni, prorogabili a 30, oggi arriva a 18 mesi e l’internamento (detto eufemisticamente trattenimento) include i richiedenti asilo anche per l’identificazione, come pure il confinamento negli hot spot. Insomma riappare la detenzione amministrativa del Code de l’indigénat francese del 1887! Si tratta infatti di carceri senza un reato, nel disinteresse pubblico per il rispetto dei diritti fondamentali, mentre la propaganda tromboneggia sulla riscrittura continua delle norme, ritoccate 14 volte dagli anni 80, e si noti la coincidenza temporale con la crisi africana di cui sopra, trasformando i centri di permanenza, a cui si avviano i nuovi deportati in luoghi di afflizione, perché «la detenzione amministrativa rimane un evento a sé, incapace di farsi raccontare, ascoltare e giudicare pubblicamente… (a causa) del disorientamento che segue l’ingresso in un carcere senza reato. Perdere la libertà perché irregolari (da non confondere coi clandestini), che sono tali fino al momento in cui avanzano la richiesta di protezione o di asilo, dopo di che cessano di esserlo come sancito dal D.I. e dalla nostra stessa Costituzione all’art. 10 c. 3, è un’esperienza incomprensibile per molti immigrati, e pressocché sconosciuta ai cittadini dei Paesi occidentali in cui è diffusa. I riferimenti storico culturali, i lager, i campi di raccolta, di concentramento e di deportazione non consentono di coglierne la modernità, dove la dimensione linguistica, cioè culturale (rende) un centro di trattenimento una Babele di azioni e pensieri che richiede un rovesciamento di prospettiva, cioè testimoni in grado di comprendere le parole dei trattenuti» (Facchini, Rondi, in Respinti, Altra Economia 2022: 157).

41jdkd0-aql-_ac_ul600_sr600600_Ma c’è ben di più, e tale da rendere le giustificazioni circa la distinzione tra morale e politica non risibile ma atroce e barbara. È stata la scelta politica di non rifornire le navi delle Ong in porto del carburante richiesto e dell’assistenza medica in mare, dell’approvvigionamento dei beni di prima necessità, l’oscuramento dei sistemi di tracciamento degli aerei, cosicché non si potesse  sapere come e dove volano gli aerei Frontex, elemento chiave dei respingimenti collettivi (che sono stati più volte oggetto di condanne da parte sia della GGUE sia della CEDU sia dei Tribunali tedeschi, mentre le persone muoiono tutti i giorni di freddo, di fame o annegati (Facchini, Rondi, cit.: 126).

Per ragioni di spazio non è possibile qui documentare analiticamente i fatti che ci occupano, ma è necessario evidenziare alcune circostanze determinanti, e che illuminano con la loro forza dirompente le narrazioni/interpretazioni di questo tempo feroce. Si tratta cioè di quanto e come siano stati e vengano calpestati i diritti individuali e quelli universali, di quanto e come tutto ciò abbia imperversato e imperversi sugli internati a migliaia nel campo Kara Tepe sul mare Egeo della Grecia, come  testimoniato dall’associazione Intersos di Vincenzo Maranghino, che ha prestato assistenza a centinaia di migranti traumatizzati, bambini compresi, dove il confinamento è destinato a durare un tempo infinito senza che vengano accolte o prese in esame le domande di asilo, o alla mostruosa tendopoli di Idomeni, sul confine tra Macedonia del nord e Grecia, definita  dal ministro dell’Interno greco Panagiotis Kouroublis come la “Dachau dei nostri giorni (Facchini, Rondi, cit.: 53). Si vedano, ad esempio le sentenze CGUE-C-924/19/U e C.925/19/PPU, la sentenza CGE 14/5/2020 ex direttiva 2008/115/CE sulla politica di asilo e immigrazione che ha accolto il ricorso di due famiglie afgane tenute imprigionate rispettivamente per 464 e 525 giorni, in pessime condizioni igieniche e con poco cibo, entrate nel Paese anche se attraverso territori dove non correvano rischi personali, poiché l’internamento e la privazione della libertà in assenza di un provvedimento giurisdizionale motivato viola i principi comunitari sul diritto alla libertà.

Altresì l’Italia pratica i respingimenti sul confine orientale, catturando i migranti della rotta terreste dei Balcani, e, privandoli dei loro mezzi di sussistenza, danaro e cellulari, incurante delle richieste di asilo o di protezione, li respinge in forma di riammissione al di là della frontiera affidandoli alle polizie del Paese confinante, con la scusa che si tratta di un Paese della UE, e quindi di uno Stato di diritto, nella specie la Slovenia, dalla quale i migranti sono scaraventati negli inferni croati, serbi e bosniaci. Il che ha comportato sentenze di annullamento di tale pratica pronunciate dalla giustizia italiana, sempre e comunque attivata troppo tardi, e di condanna della CEDU, di come la stessa CGUE abbia bloccato leggi liberticide come quella ungherese del giugno 2018, chiamata propagandisticamente legge “Stop Soros”, portata dalla stessa Commissione davanti alla CGE, essendo stata violata la Direttiva, sopra citata, contenente norme sull’accoglienza.

Ma tutto ciò avviene attraverso un’interpretazione del diritto paradossale: le scelte dei singoli Paesi UE, come la Polonia, di erigere barriere fisiche contro i migranti che vogliono attraversare la frontiera, sono negate dal diritto europeo, come ha chiesto la stessa Commissaria europea degli affari interni Ylva Johansson respingendo la domanda di fondi presentata dagli Stati con confine esterno alla UE, perché vietati dal diritto comunitario, ma vengono agli stessi Paesi forniti aiuti per garantire un’effettiva dissuasione, attraverso il personale specializzato e le strumentazioni di vario tipo, tra le quali hanno spiccato i “cannoni sonori” usati dal governo greco nel 2021 sulla frontiera turca, che proiettano suoni di 162 decibel fino a 2 chilometri, per disorientare i migranti scatenando confusione e panico, atteso che l’orecchio umano non sopporta intensità sonore superiori ai 60 decibel, E altresì vengono forniti telecamere a infrarossi e termiche, e dispostivi che rivelano i battiti cardiaci. Il tutto congruo a ledere il diritto dei richiedenti asilo a presentare la domanda trasformando il loro ingresso irregolare in ingresso regolare. E su tali violazioni del diritto si è pronunciata spesso la CEDU, di cui si richiamano qui a titolo di esempio, la decisione della Grande Sezione del 17.12.20 n. 62020CJ0354, la Dec. 2002/584/GPI nella causa C-808-18, del 16.12.08 sulle violazioni della Direttiva 2008/115/CE, la Dec. del 26/6/13 per la violazione della Direttiva 2013/33/UE relative a migranti provenienti dalla Serbia che chiesero invano la protezione internazionale, contro il trattenimento generalizzato in zona di transito, senza rispettare le garanzie delle dette Direttive, imponendo il loro allontanamento contro il loro diritto a rimanere sul territorio. E per quanto riguarda il nostro Paese, la decisione CEDU del 22/7/22 che ha condannato l’Italia a risarcire il danno a un minore straniero gambiano, Darbje Ousainou, giunto nel 2010 diciassettenne, ritenuto maggiorenne con esami medici anacronistici e non affidabili, impedito di presentare la richiesta di protezione internazionale, e trattenuto in CPR estremamente affollati, con gravi carenze igienico sanitarie per più di 4 mesi, violando il rispetto della vita privata e della famiglia ex art. 8 CEDU e il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 e la vulnerabilità dei minori.

Eppure tutto ciò si sposa proprio con il fenomeno della deportazione, che comporta i suoi vantaggi economici per chi la esegue, come la PAS, Professional aviation solution srl, che si è aggiudicata l’affidamento dei deportati per 2,5 milioni di euro, come riferisce Respinti di Altra Economia, di cui ha individuato la natura giuridica la sede e il nominativo del suo Procuratore.

Non potendosi qui analizzare ancora le pronunce CGE e CEDU sui respingimenti e le riammissioni illegali, atteso il divieto di respingimenti presente del diritto europeo, e rilevata la complicità degli Stati nel fornire a Paesi terzi gli strumenti necessari per commettere queste violazioni, è necessario in breve esaminare in cosa consiste la protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, e chi siano i soggetti titolari di questa protezione, ciò pur in modo sintetico e necessariamente incompleto, tenuto conto che il consenso diffuso contro le pratiche illegali passa anche attraverso la completa ignoranza sulla natura e sul funzionamento dello Stato di diritto.

Allora, partendo dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948, dall’art. 10 c. 3 della Costituzione italiana, dalla Convenzione EDU del 1950, e dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dalle sue successive interpretazioni come il Protocollo di New York del 1967 che eliminò la riserva temporale e geografica sull’ammissibilità delle richieste, ma l’elenco è incompleto, si può affermare che dalla loro sostanza discendono i principi che hanno improntato di sé le varie Direttive europee (2004/83 CE; 2011/95/CE; 2005/85CE; 20123/32/UE; 2003/9/UE; 2013/33/UE), che questo lavoro ha cercato di far emergere, sia la natura e le cause del loro stravolgimento, atteso che da tutto ciò discende lo sviluppo delle azioni poste in essere dai singoli Stati, ma che si sta rivolgendo in una progressiva erosione di quei principi e nell’attuazione di politiche, non ci si stanca di ripeterlo, dettate dal mantra che separa la morale dalla politica.

Preliminarmente, quindi, deve evidenziarsi che l’art. 10 c. 3 Cost riconosce la protezione dello Straniero «al quale sia impedito nel suo Paese l’ effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, ed è importante ricordare come questo principio sia stato il frutto di un articolatissimo confronto di idealità fra i padri costituenti, in particolare sull’irrilevanza della concreta lesione subita dal richiedente nel suo Paese dove tali libertà sono assenti,  e soprattutto di quanta resistenza abbia incontrato addirittura nelle superiori magistrature amministrative che ne hanno respinto la natura precettiva invocando una legge di attuazione costituzionale mai emanata, mentre la Suprema Corte di Cassazione a S.U. con sentenza 4674 del 1997 (singolare la distanza che la separa dalla proclamazione della Costituzione il 1° gennaio 1948) ne ha sancito il carattere precettivo e la conseguente operatività» … che fa sorgere nello straniero il diritto di asilo che può essere riconosciuto direttamente dal giudice, mentre, sempre la Cassazione, a S.U. ha ribadito con sentenza n. 907/99 la natura di diritto soggettivo ricavata dalla portata degli artt. 2 e 3 della Costituzione, sia per l’asilo costituzionale (concesso a chi lo chiede indipendentemente dall’essere stato perseguitato) sia per l’asilo politico, sancendo: «Il diritto dell’ingresso del potenziale richiedente asilo e il suo diritto di rimanere nel territorio dello Stato in attesa della decisione sulla sua richiesta». E si tratta di una permanenza in stato di libertà che quindi sottrae il richiedente ai pericoli di violazione del suo diritto, come quello di una non impossibile deportazione.

Ora, sorvolando sulle richieste di protezione in via amministrativa ex art. 5 c.6 TU 286/1981, quasi impraticabili perché soggette alla totale discrezionalità amministrativa, l’elenco incompleto dei diritti garantiti dalla protezione costituzionale ed europea è utile, in questa sede, per evidenziare quale abisso la separi da quanto sta accadendo in concreto e da come e quanto la propaganda stia strombazzando sulla necessità di calpestarli, anche a costo di uccidere gli esseri umani che cercano protezione e asilo.

È di questi giorni di metà febbraio ‘25 l’invito apparso sul quotidiano Libero di rispolverare l’idea bellicistica del blocco navale contro i migranti, e se ne deduce anche contro le navi delle ONG che li trasportano dopo averli soccorsi dal naufragio e sottratti alla morte per assideramento o per annegamento o alla deportazione in Libia da quella guardia costiera con le motovedette fornite dall’Italia, fermandoli ancora in acque internazionali. Ci si domanda se speronandoli, o sparando e affondandoli, o assalendoli con l’arrembaggio, per contrastare la consueta bufala della grande invasione, idea farlocca che meriterebbe un’ampia disamina non possibile in questa sede (Nazzarena Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano in “Diritto Immigrazione e Cittadinanza”, Fascicolo n. 1/2018: 9).

Si tratta dei diritti ai quali chiedono accesso i cosiddetti migranti economici, i cosiddetti migranti irregolari (considerati così quelli che cercano di raggiungere l’Europa per chiedere asilo al di fuori dei pochi e limitati varchi predisposti per la cosiddetta migrazione regolare, che come si è detto cessano di esserlo al momento della richiesta e godono dei diritti in questione, nonostante la vulgata in contrario),  i profughi, fuggiti per ragioni di sopravvivenza, i rifugiati che scappano dal proprio Paese per cercare protezione e aiuto, di cui si occupa l’Alto Commissariato per i rifugiati delle N.U. (UNHCR).

cop_chiusidentro_sitoMa purtroppo, come si è già accennato, la Storia ha preso una direzione contraria, e l’Europa respinge gli esseri umani che le si avvicinano, vedendo nel migrante un nemico da sconfiggere, invocando il diritto della difesa della Patria, imbastendo volutamente una confusione tra migrante forzato e non forzato, nell’indifferenza generale per chi è scomparso nel viaggio e chi scompare nel tessuto dei respingimenti e delle riammissioni coatte, per chi svanisce nei luoghi di confinamento per malattie o suicidio e chi soccombe nei vari lager edificati nei Paesi terzi. Ma non solo, e tale aspetto è centrale per il titolo di questo lavoro, anche perché dev’essere chiaro che «la deportazione è la privazione dei diritti civili e politici di uno o più individui e il trasferimento coatto e forzato verso un luogo di detenzione diverso dalla propria patria», come precisa il dizionario Treccani.

Ebbene, quando la Direttiva 115/CE/2008, detta Direttiva Rimpatri confonde la dizione tra rimpatrio coatto e rientro con ogni mezzo, anche violento a chi è stato impedito il viaggio per l’Europa, attribuendone il compito all’agenzia Frontex col Regolamento UE 2016/1624, senza alcun controllo di legittimità e di conformità al Diritto dell’Unione, talché il cosiddetto rientro volontario non è maturato e non avviene in condizioni di libertà di scelta, si tratta «di una forma di deportazione mascherata, in quanto la scelta viene effettuata in condizioni di vita insopportabili che non hanno lasciato alla persona alcun margine di libera scelta» (G. Schiavone, Chiusi dentro, Altra Economia, 2024.

Allora deve rilevarsi che il TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione) del 1957, modificato dal Trattato di Lisbona del 2007, agli artt. 77 e 78 prevede che il Parlamento Europeo e il Consiglio adottino le misure idonee alla gestione delle frontiere esterne, collaborando con i Paesi Terzi e con le competenti organizzazioni internazionali, ha avviato un progressivo svuotamento dei principi fondamentali «con una strategia elusiva delle regole» (Schiavone, cit.: 36), spostando il centro di gravità della UE verso gli Stati membri, ai quali viene sottomesso il pluralismo istituzionale della UE, cioè il tratto distintivo dell’esperienza politica dell’integrazione verso «la scomparsa della nozione di interesse pubblico europeo» (ivi: 37).

Ne consegue proprio su quanto questo lavoro abbia insistito finora, e cioè sul finanziamento della costruzione dei centri di detenzione per migranti «funzionale alla commissione da parte dello Stato Terzo di gravissime violazioni dei diritti umani, rispetto ai quali sembra sussistere una responsabilità per complicità, codificata ex art. 16 nel progetto sulla Responsabilità degli Stati e nell’art. 14 su quello della Responsabilità delle Organizzazioni Internazionali» (ibidem; cfr. anche Settembre, Tortura oltre i confini, 2018).

Allora, in questo senso devono venir lette le strutture normative sui campi di confinamento, come quelli architettati dalla Dichiarazione tra la UE e la Turchia, considerato il più grande Stato contenitore dei migranti forzati, farlocca misura sbandierata come luogo di confino temporaneo nel programma di reinsediamento in Europa. Si tratta cioè di luoghi dove viene sistematicamente violato il diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5 Convenzione EDU), dove è impossibile costruire relazioni sociali con chi vive all’esterno dei campi, caratterizzati da sbarramenti e recinzioni multiple vigilate da uomini armati, con standard igienici carenti. E tutto ciò quando non si assiste alla plateale violazione del divieto di respingimento o a fatti come quello su cui pesa la sentenza della CEDU del 23 febbraio 2012 sul caso Hirsi Jamee e altri c. Italia relativo alla riconduzione (alias deportazione) di immigrati in Libia senza essere informati sulla destinazione delle navi, senza compiere nessuna procedura di identificazione e verifica delle situazioni personali, senza alcuna informazione relativa alle procedure di asilo, violando l’art. 3 CEDU sulla proibizione della tortura, l’art. 4 sul divieto di espulsione collettiva e l’art. 13 sul diritto a un ricorso effettivo.

Così si è giunti all’ultima Direttiva sulle misure di Accoglienza, che modifica radicalmente quella 2013/33/UE, del 26 giugno 2013, pubblicata sulla GUE il 22 maggio 2024, che prevede un nuovo Regolamento sull’asilo e la migrazione, in sostituzione del Regolamento di Dublino III e, tra l’altro, una procedura di screening alla frontiera rapido anche per il confronto dei dati biometrici, unificando le regole per maggiorenni e minori, prevedendo strutture ad hoc e modificando la stessa nozione del luogo di frontiera al di là del suo spazio fisico dove avviare (alias deportare) i richiedenti asilo, che, nella normativa costituzionale e nella Convenzione di Ginevra, dovrebbero aver garantita la libera circolazione (sic!), limitata solo in casi eccezionali, così di fatto sanzionando «Non già una condotta specifica, ma la condizione stessa in cui l’individuo si trovi: quella di aver chiesto asilo». Capovolgendo quindi la regola di cui alla Direttiva 2013/33/UE.

Per fare tutto ciò si progetta di triplicare Frontex fino a 30 mila agenti, con poteri esecutivi e un badget più elevato per l’acquisto di attrezzature e migliorare la sua capacità, attribuendo all’esecutore l’interpretazione del concetto di Paese Sicuro, questione di cui si è testimoni quanto connessa coi tentativi di confinamento nel sito edificato in Albania.

In verità, giungendo al termine di questo lavoro, sembra di assistere a una reazione al progetto di edificare un mondo del diritto composto dalla pluralità degli Stati di diritto, nell’accezione della Carta dell’ONU e di tutto quanto, sul piano dei Trattati, delle Convenzioni e delle istituzioni internazionali, lo renderebbe conforme alla morale.

Tuttavia questa barbara reazione pare analoga a quella del mondo dell’ancien regime contro le invenzioni giuridiche illuministiche, che, comunque, dopo il Congresso di Vienna del 1815, non ne impedirono la diffusione e l’accoglimento nella coscienza delle persone capaci di coglierne il significato morale, che la reazione credeva di aver definitivamente sconfitto.

9788842096085Si tratterebbe, ancora una volta, dell’Umanità di fronte alla scelta di come scavalcare il crinale della Storia, o verso il baratro, abbandonando la prospettiva di un movimento vincente verso la realizzazione della civiltà umana basata sulla ragione e sulla morale, così come è accaduto tante volte nella Storia dell’ Umanità quando, di fronte alla scelta possibile, si è tuffata nell’oscurantismo e nella violenza del pensiero, sol che si faccia mente alla distruzione sistematica dell’illuminismo alessandrino del III secolo a. C., che avvolse l’Umanità per quasi 2000 anni, almeno fino a Galileo.

Eppure il pensiero umano è ancora vivo, e di questi tempi, aggrediti dalla paura del diverso, incapaci di coglierne la vera natura, dominata da brutali ideologie identitarie radicate nel mito del “sangue e terra”, il pensiero è in grado di formulare alternative di civiltà, sia alla mistificazione ideologica dell’asserita distinzione tra la morale e la politica, sia quella della distinzione tra la persona e la società, ora che il mondo, scosso dalle guerre e dal cataclisma climatico in arrivo, è attraversato dal sommovimento di 8 miliardi di esseri umani impauriti.

51nvwnudgbl-_ac_uf10001000_ql80_Pertanto ancora soccorrono le parole di un gigante del pensiero politico del XX secolo, Hanna Arendt, che vide in un sistema cosmopolita di relazioni fra Comunità territoriali federate e Consiliari, fondato sul mutuo contratto, l’affermazione di un nuovo modello di democrazia, dove, per lei agli apolidi, (sebbene  la questione dell’apolidia sia tutt’altro che svanita dal panorama internazionale, a quasi 80 anni  dall’estinzione nel 1946, con l’introduzione della legislazione internazionale sul tema, di uno strumento giuridico come il passaporto Nansen, ideato  dallo scienziato  svedese Fridtjof Nansen e adottato  dalla Società delle Nazioni nel 1922 per proteggere rifugiati, profughi e apolidi) per noi ai migranti oggi costretti in uno stato d’essere identico per la perdita dei diritti e dell’identità, confinati nei campi, deportati e aggrediti, venga riconosciuto il diritto di avere diritti, nell’accezione di Stefano Rodotà sviluppata nel suo testo Il diritto di avere diritti (Laterza 2012) dove immagina una nuova antropologia per mezzo della rivoluzione della dignità, resa possibile secondo la Arendt, solo attraverso un misto di Democrazia partecipativa e rappresentativa «nelle forme di una rete di istituzioni, organizzazioni e associazioni autonome e parzialmente autonome, in ognuna delle quali (abbia) luogo una forma di autogoverno di partecipanti liberi e uguali… che consentirebbero a ogni membro di una moderna società egualitaria… (di) divenire partecipe dei pubblici affari». Allora, garantendo a tutti, migranti compresi, l’accesso a uno spazio pubblico, ogni essere umano si rassicurerebbe alla realtà del mondo e di sé stesso (A. Taraborelli, Cosmopolitismo e Migrazioni nel pensiero di Hanna Arendt, in Etica e politica XXV 2023, I: 16). In questo caso «i cittadini potrebbero fare esperienza della loro esistenza cosmopolitica attraverso la solidarietà coi migranti, difendendo il loro diritto di avere diritti», svuotando così la mistificazione della distinzione fra le persone e la società.

Oppure, sciaguratamente, mentre assistiamo all’apparente trionfo della barbarie istituzionale, nell’avvio rapidissimo della distruzione del Sistema liberale solidaristico e dello Stato di diritto, mentre la ragione e la morale sembrano avviate ad affrontare la propria morte, si fanno evanescenti gli ideali sconfitti dalla Storia contemporanea, come proclamarono Hegel e Schimtt, e infine, come recita la poetessa Niki Giannari, di fronte alle deportazioni dei più deboli: «La gente dimenticherà quei treni/come questi treni./Ma la cenere/si ricorda» (in Didi-Huberman, cit:.11). 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. È stato collaboratore di “Altreconomia”.

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