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Deportazioni performative. Letture e interpretazioni sull’oggi

2501-desk1-f01-whitehousedi Franca Bellucci 

Negli incubi capita di sapersi naviganti dispersi, cercando invano carte nautiche e bussola. Così nelle cronache di guerre e rivalità odierne, ogni giorno più ampie e complesse: in un tempo in cui le civiltà, già apprezzate come caposaldi, capovolgono le disposizioni. Ecco, quella sensazione è il sottofondo delle giornate, in questo periodo. Non che tracci precise sequenze: solo avverto il senso d’aporia, in occasione di comunicati dalla scena – mondo. In particolare ha colpito, nei dossier di immagini prodotte e diffuse, che si esibiscano gruppi, e si alluda a popoli, di sofferenti in ceppi: mostrati come marchio da imprimere nella memoria, una cornice visiva in mondovisione, che sia di ammonimento per chi vede, così che si associ il trattamento spettante a chi sia classificato nella presunta pericolosità. Questa l’impressione lungo i provvedimenti, di recente annunciati dalla presidenza USA “– nuova era Trump”: espellere dal Paese gli emigrati dal Messico, depositare la comunità di Gaza, vessata dalla guerra, in una qualunque plaga, lasciando la terra a un piano turistico USA. Atti “giusti”, sostiene l’emittente: e diffonde l’immagine di migranti incolonnati, quasi da sovrapporre a figure di deportati dall’Africa, nei secoli del “commercio triangolare”.

È un’immagine esibita preventivamente, mirando a intimidire. Ma chi guarda ha un suo orizzonte culturale: quell’atto, piuttosto che associarsi a relazioni bilaterali “giuste”, forse solo tinto di un’“enfasi” ammessa in “era social”, richiama piaghe vive, i “deportati” nei centri concentrazionari: è lo scandalo dei regimi contro cui si determinò l’Alleanza vincitrice della Seconda campagna bellica mondiale. E è una storia in corso: esposta a analisi, riflessioni giuridiche, azioni di sensibilizzazione, che annualmente culmina nel “giorno della memoria”, ogni 27 gennaio. È la celebrazione che ottempera alla delibera ONU, la 60/7 del 1° novembre 2007. Anna Foa, nel pamphlet 2024 per Laterza, Il suicidio di Israele, la ripropone come segno di giustizia responsabile, quindi che ripara, e che insieme impregna profondamente la cultura diffusa e la morale.

Svincolandomi dal possibile effetto di inquietante stupore e di indignazione, avvio un percorso di considerazioni. L’immagine-sintesi è quella degli uomini in ceppi respinti: inevitabile che si sovrapponga il tema di un popolo intero “deportato”: e le parole ammutoliscono, unica reazione è interdirsi, “parcere linguae”, come davanti a un “nefas”, una situazione non concepibile. Il tema su cui riflettere, dunque, sono gli spostamenti umani, le “migrazioni”, oggi. Ma, preliminare, vale recuperare le parole: parlare per esserci, per non avallare assolutismi anteriori a Montesquieu, per essere umani e insieme politici. “Deportati”: che sarebbero gruppi, designati in modi insindacabili, un capitolo di storia ripetuta, come è accaduto nella persecuzione antiebraica scatenata da Hitler durante la Terza guerra, campagna dal 1938 preceduta, e poi accompagnata, dalle misure antiebraiche nell’Italia fascista.

Un capitolo inquietante di silenzi complici. Un filone di esclusione tabuizzato, che in Italia, nell’inoltrarsi della guerra e nell’evidenza delle perdite, dalla primavera 1943 divenne “deportazione” non solo antiebraica, ma anche di lavoratori segnalatisi nelle proteste sindacali. Ripenso alle lapidi “marzo 1943” affisse presso le fabbriche: operai prelevati, “deportati” ai luoghi di concentramento, di lavoro forzato, talora di sterminio, per i quali si piastrellano “pietre d’inciampo” come per i cittadini di religione ebraica. Un capitolo di storia prossimo e meditato. Ricorro, tra i miei libri-sussidio, alla Enciclopedia storica Zanichelli, 2000, curata da Massimo L. Salvadori: ma “Deportati” non è voce contemplata. Nel testo di spiegazione, trovo “deportati” alla voce “Olocausto” (ivi: 1150): «…furono deportati in massa…». Un’autorità politica di sopraffazione è al centro. Consulto dunque l’ampio articolo-trattato (firmato da Corrado Malandrino) “colonialismo” (ivi: 334-338), che descrive un periodo molto ampio di fasi diverse: alla base, si rileva la «stigmatizzazione delle civiltà diverse … una presunta superiorità di quelle europee e occidentali cristiane». La rivolta dei coloni contro la Gran Bretagna, con la fondazione degli Stati Uniti d’America, è un fatto datante, che provoca innovazioni nel colonialismo, ripreso in forme diverse, ma di evidente efficacia, in un meccanismo economico-finanziario in cui le colonie sono «sia … fonte di materie prime a scarso o nullo prezzo sia … mercato di manufatti» (ivi: 338). Nel trattato non c’è il termine “deportati”: invece, “esportati”, nelle Americhe, gli «schiavi catturati da mercanti “negrieri”» (ivi: 335). Si rilevano insediamenti di basi mercantili, ma, in particolare, «stabili insediamenti di sfruttamento umano, minerario e agricolo», con commerci intercontinentali continuati a lungo, il cui schema «divenne “triangolare”» con la scelta dell’Africa come riserva abituale di schiavi.

s-l400Questo sfondo storico è certamente funzionale all’attualità, in cui i soggetti forti a livello mondiale progettano potere fondato su innovazioni esigenti: per risorse, ambiente, certezza di clienti fidelizzati per dominare la concorrenza. Oggi “esportare”, se riferito a umani, non sarebbe vocabolo da pronunciare: il pudore di differenziare gli umani rispetto alle merci sembra stabilito. Ma “deportare” ha ormai una connotazione sinistra, che rimanda ai processi peggiori, e più esecrati, della storia recente, mondializzata, imprimendo in chi la usa una connotazione politica – eviterò di dire “un marchio” –, di scelta incompatibile con la morale. Non la registrano gli strumenti di consultazione. Se cerchiamo il lemma “deportare” sui dizionari di lingua, la spiegazione è deludente: decisamente arretrata, diciamo all’età del “Dizionario Tommaseo”, legando comunque la condizione a “pena detentiva” quindi al verdetto di un tribunale che esamina un’imputazione secondo il Diritto praticato e che accompagna il condannato a «relegazione in colonie penali o campi di lavoro lontani dalla madrepatria o situati nelle regioni più inospitali della stessa» (voce “deportazione”, in Giancarlo Oli, Giacomo Devoto, Dizionario di Lingua italiana, Le Monnier – Utet, 1990: 545). L’Enciclopedia Treccani, che consulto on-line, fa riferimento al trattamento di un “condannato”: lascia intendere un tribunale operante a capo dell’operazione, ricalcando l’articolo-saggio che il giurista Mario Piacentini aveva pubblicato sulla Treccani nel 1931 (di Mario Piacentini, Enciclopedia Italiana (1931), “Deportazione”:https://www.treccani.it/enciclopedia/deportazione_%28Enciclopedia-Italiana%29/).

L’autore, partendo dal mondo romano, e particolarmente dal tempo di Augusto – del resto, la parola è certo di derivazione latina –, considerava la pena del “condannato”, anche nel caso della “damnatio ad metalla”, il lavoro imposto nelle miniere. Quasi sorvolava poi il tempo fino all’età moderna e ai nomi degli Stati all’epoca, presentando anche i trasferimenti transoceanici in terre lontane, per esempio nella «Nuova Galles del Sud, nella Tasmania e nella Nuova Zelanda»: i nativi risultavano fortificati, «i figli di quei condannati» essendo divenuti abitanti in «quei fiorentissimi dominî». Mario Piacentini, da giurista, badava bene a ripetere il termine “condannati”, con riferimento al corretto funzionamento dei tribunali. Eppure la difesa del Diritto era già un baluardo violato, in Italia, anche al di là della struttura politica generale, che dal novembre 2022 era ridotta a un solo partito, se, con il discorso del gennaio 2025, il capo del governo aveva rivendicato la messa a morte di Giacomo Matteotti. Dà il senso del posizionamento attento e, in qualche modo, preveggente, la riflessione che Lucien Febvre intanto andava compiendo sul termine «civiltà». Nel 1929 egli aveva già pubblicato la riflessione sull’evoluzione dei significati insiti nel termine e, essendo in corso il Secondo conflitto, completò il titolo della sua rivista, gli «Annales», con «Économies, Sociétés, Civilisations».

È nel significato di “Deportazione”, voce registrata in quella enciclopedia del contemporaneo che è Wikipedia, che si constata la connotazione, ormai stabilizzata, di intervento arbitrario, di mire persecutorie. La condizione è presentata come già determinatasi, senza indicare da dove emani. C’entrano l’arbitrarietà e la presenza di pregiudizi: evidentemente efficace per una forza-violenza esercitata. Si annota che si tratta «in genere di una misura attuata su larga scala e su base razziale, etnica, politica o religiosa». La parola, in effetti, suona allarme: di arbitrio del più forte, a rimodellare gli insediamenti umani, secondo un arbitrio, presentato come “ragione di stato”. E, certo, vuole avvertire di un potere sovrastante, incomparabile: il paradigma del “deportare” ha l’impronta indelebile dei processi concentrazionari che, agendo su presunte diastasi del tessuto civile, destinano gruppi umani a sfruttamento intensivo, fino a morte. Anche su tali “presunte diastasi” si può riflettere: che si qualifichino come disagio o anche inerzia, sono occasione di interpretazione attiva da parte del potere costituito e convergono con i suoi piani.

Mira, il presidente USA, a suscitare intimidazione intorno a piani che solo in parte si delineano, sia nel teatro occidentale del suo dominio sia nell’enclave strategica del Mediterraneo, dove vivono israeliani e palestinesi. Ma la critica a ogni organo di mediazione sovranazionale suona avvertimento, sul metodo che sarà adottato per un riordino complessivo degli interessi, sulla scena mondiale. Le allusioni sono indicative: la scelta segue un’ipertecnologia che sovrasta all’ambiente, e che mira alle risorse minerarie necessarie. Acquista dunque un’attualità nuova la voce “colonialismo” di Malandrino: nella parte che indica le colonie come “fonte di materie prime”, ma anche nelle considerazioni finali: il passaggio a “decolonizzazione” e “neocolonialismo” sono stati progetti forti nella seconda metà del XX secolo, ma incompiuti. Consegue, avverto, che possano essere reinterpretati gli assetti, dagli ultimi decenni di quel secolo all’attualità degli avvertimenti in corso. 

So della sproporzione della mia competenza, sull’argomento: il settore delle mie frequentazioni, quello letterario, attento a buoni libri contemporanei e antichi, non entra nell’attualità in quanto cronaca, piuttosto nell’esercizio dell’analogia, ripercorrendo processi accaduti. Non che quell’ambito inclini a un gusto estetico, ma mira a ritrovare e proporre quanto già sperimentato, quasi il bacino delle ripercussioni e delle esperienze. Nell’indignazione attuale, tuttavia, la prima urgenza è la presa d’atto, l’accertamento, sul tema degli spostamenti: quelli annunciati d’autorità, come quelli che si stanno verificando; una cronaca importante infatti riguarda proprio la situazione europea, con aspetti che coinvolgono l’Italia, divenendo sintesi politica caratterizzante dei diversi programmi politici.

Nella contemporaneità, la narrazione accreditata imputa alle parti politiche diverse una indiscriminata e complice “accoglienza” degli emigrati. Risultano irrilevanti le loro storie di vita – quanto li rende soggetto, persona –, di quali esperienze e attese siano portatori. Piuttosto, si scrutano le reti clandestine sottese intorno ai viaggi: “scafisti” al servizio di trame nemiche, ostili ai “Paesi di approdo”, dice chi oggi governa. Si consolida il topos di una decisa uniformità del fenomeno, in qualche modo richiamando le cronache della pirateria, tanto antica – quanti episodi, anche in spettacoli e canti popolari, vengono a mente – quanto ultramoderna: è stata cronaca complessa, lunga dal 2012 al 2022, nell’Oceano Indiano, sulla rotta dall’Oriente verso Gibuti, lo scontro – forse punta di un iceberg – occorso a marinai italiani, equivocato per piratesco, che causò morte a pescatori indiani. Insomma, si accende allarme su pericoli, per il proprio status, e inclinazione per i “rimpatri”: sempre annunciati, limitatamente praticati.

atlante-delle-guerre-e-dei-conflitti-del-mondo-xi-edizione-236687Sfoglio capitoli, nel numero dell’anno appena concluso, l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, lo strumento su cui sono solita verificare la storia odierna. Guerre e conflitti, appunto, si registrano, ma anche fenomeni fisici – in particolare il surriscaldamento climatico, che cambia le condizioni ambientali – che complicano l’attualità e spingono a cambiare programmi e sedi. Non si verificano, però automatismi nei comportamenti. La ricerca di opportunità può proporsi, pur in modi vari, a fasce sociali diverse. L’esercizio della cooperazione e la pratica dei “diritti umani” hanno dimostrato che è possibile e efficace convivere. Tuttavia, prendo atto, risulta che la successione delle decisioni può anche sorprendere: alimenta i conflitti tra gli Stati ma comunque interviene a ogni livello. Le decisioni dei singoli, ma anche le propagande di soggetti affaristici, hanno canali e risposte molteplici. Le immagini umilianti degli espulsi che, elaborate negli USA, oggi sono esposte sui media del mondo, vogliono certo non solo informare, ma anche suscitare deterrenza.

Bene dunque delineare il tema a partire dalla conversazione con chi, praticando la comunicazione sul tema specifico dei conflitti, può fornire un quadro complessivo. Cerco, per un diretto incontro, Alice Pistolesi, laureata in Scienze politiche e redattrice di quell’Atlante, che ho eletto a mio strumento. Le sue cronache, condotte assecondando i programmi redazionali, riguardano zone nevralgiche intorno all’Italia, inoltre i Balcani, il Mediterraneo orientale, il Venezuela. Al momento prepara un viaggio nel Vietnam del Nord. Dell’autrice conosco, riguardo alla migrazione balcanica, il reportage pubblicato sul blog dell’Atlante, «Unimondo.org», il 7 settembre 2024, da Bihac, nella Bosnia Erzegovina, dove aveva intervistato il sindaco. La località, descritta in uno scenario naturale ridente, non era ancora uscita dalle distruzioni della guerra, determinatasi trent’anni prima. Era, e credo lo sia ancora, zona di transito dei migranti, che dal Medio Oriente percorrono la “rotta balcanica” verso il nord- Europa. Dirigendosi verso la Croazia, restano per un breve periodo nel campo profughi di Lipa, a 20 km di distanza, ma anche nel centro di accoglienza di Bihac che si trova all’interno della città, riservato alle famiglie. La località subiva spopolamento: con la diaspora dei giovani, per mancanza di lavoro, quindi di speranza. Tuttavia guardava al futuro con ottimismo: la palestra per l’arrampicata installata per donazione dei Valdesi consentiva di aprire alla progettazione di un settore specifico di turismo, consono e rispettoso della natura del luogo.

L’incontro infine si attua. Nella conversazione, la giornalista ribadisce più volte, quasi a sfatare l’impressione che registra in molti, me compresa, relativa al “problema migranti”: in grande maggioranza tendono a insediarsi nei Paesi confinanti, pur poveri, e spesso sono senza prospettive di ritorno, come nel caso dell’Afghanistan e del Sudan, ma anche della Somalia e dell’Eritrea. Deduco dunque, mentre ascolto, che un innesco importante dei movimenti sta nell’incompatibilità politica, una soglia avvertita.

Rispondendo alle mie domande, Pistolesi considera il tema della “deportazione” nell’attualità. Negli scenari che essa ha esaminato, il fenomeno si è evidenziato soprattutto connesso con l’economia: il che non esclude che si accompagni a ingerenze.  Questo vale anche per il caso Italia – Albania, ma è tema soprattutto nelle cronache che riguardano l’America Latina. Anche quanto fu stabilito nel 2020 con i «Patti d’Abramo», tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, allora essendo presidente Trump, è stato presentato nell’ambito economico. È del resto il terreno su cui si pongono le ONG. Tuttavia l’aspetto politico può penetrare e farsi visibile: ne è esempio B’Tselem, l’organizzazione per i diritti umani più rappresentativa d’Israele, che il 12 gennaio 2021 per la prima volta definiva “apartheid” il «sistema della supremazia ebraica dal Giordano al Mediterraneo». L’attribuzione all’ambito economico vale per le migrazioni dall’Asia e dall’Africa, prescindendo però dalla Libia. In gran parte, ripete, l’emigrazione è intra-continentale: lo si calcola nella misura dell’85%. Ma segno inequivocabile di sopruso, prosegue, è l’innalzamento di muri, per evidenziare linee di preclusione. Questo viola il Diritto Internazionale, secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Cita l’articolo 13, nei due commi, il primo: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato» e il secondo: «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese». Vero è che ora, osserva la Pistolesi, il flusso dal Messico verso gli USA è non solo imponente, ma anche dominato dai cartelli dei narcos. In particolare il criminale El Chapo risulta presente, anche intercettando e istradando “desaparecidos” dall’America del Sud. Il tratto più lungo del muro al confine USA-Messico, comunque, fu innalzato al tempo dell’amministrazione Obama. A proposito del “respingere”, c’è da evidenziare anche il diritto di ognuno all’abitazione, secondo l’articolo 25, primo comma, precisato nello stesso Diritto Internazionale: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Una parte della conversazione ricade sulle “morti negli spostamenti”. Si stima, annota la giornalista, che nei continui movimenti cui si assiste, diciamo “spontanei”, i numeri delle persone che soccombono siano molto elevati. Muoiono per guerre e persecuzioni, ma muoiono anche per le condizioni affrontate: per naufragi, nell’attraversare deserti, nell’attraversare valichi montuosi, soffocati nei container e in incidenti stradali. Muoiono nel Canale d’Otranto, nel Canale di Sicilia, nelle rotte che vanno dall’Africa “nera” verso la Libia e verso il Marocco, per dirigersi poi in Italia e in Spagna, attraversando lo stretto di Gibilterra, navigando verso le Canarie oppure tentando di entrare a Ceuta e Melilla. Muoiono nell’Egeo, nel tentativo di raggiungere la Grecia dalla Turchia.

Dei morti nel deserto del Sahara si sa poco. Si sa però che ogni viaggio causa morti e che le piste sahariane sono disseminate di cadaveri. Moltissime sono anche le vittime di deportazioni praticate dalla Libia, dall’Algeria e dal Marocco, Paesi che abbandonano a se stessi molti disperati in zone frontaliere in pieno deserto. Particolarmente gravi sono le condizioni di vita dei migranti in Libia.

Ricordando quindi la nomenclatura in uso, l’interlocutrice accenna a relazioni di disagio, che alimentano gli spostamenti, da ascrivere alla sfera politica. Si definisce “rifugiato”, con riferimento all’ art. 2 del Decreto Legislativo n. 251/2007, il «cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno».

La giornalista esprime quindi la valutazione che debba considerarsi una forma moderna di deportazione anche quella europea, quando non si dà la possibilità di chiedere asilo e si respingono i migranti verso un Paese acclarato inaffidabile come la Libia. Mi fornisce quindi gli indirizzi di siti da cui avere ulteriori indicazioni. Me li annoto, infatti, a partire dal più documentato sul principio internazionale del non refoulement (https://openmigration.org/glossary-term/principio-di-non-refoulement/), aggiungendo quindi uno sito sullo stesso tema, ma specifico per l’Europa (https://www.meltingpot.org/2023/03/principio-di-non-refoulement-e-solo-un-articolo-che-non-viene-rispettato/).

Gaza (@BTSELEM)

Gaza (@BTSselem)

Per la Palestina – Israele, infine, mi dà il sito di B’Tselem che mappa la demolizione di case palestinesi (https://statistics.btselem.org/en/demolitions/pretext-unlawful-construction?structureSensor=%5B%22residential%22,%22non-residential%22%5D&tab=overview&stateSensor=%22west-bank%22&demoScopeSensor=%22false%22).

Un vero sconvolgimento degli insediamenti consueti fu alimentato dalle Guerre mondiali, specie per deportazioni e per ripararsi da persecuzioni. La Convenzione di Ginevra del 1951, e l’Unhcr, agenzia specializzata nella tutela giuridica dei rifugiati, evidenziarono lo spirito di solidarietà con cui si rifondava la comunità degli Stati. Guerre e emergenze comunque sono andate crescendo. Dal 2009, alla Conferenza di Copenaghen, si è constatato un ulteriore motivo di trasferimenti, quello per l’emergenza ambientale, un disagio che colpisce larghe fasce. La desertificazione dei terreni agricoli spinge all’abbandono di regioni. Questi specifici emigrati, finora non hanno avuto riconoscimento ufficiale, nonostante che le Nazioni Unite invitino a praticare apposite politiche, così da creare condizioni di permanenza nei territori natii. È possibile che questo si ripercuota anche sulle emigrazioni verso l’Italia. Risulta che i Paesi africani da cui provengono i migranti che attraversano il Mediterraneo verso l’Italia sono Nigeria, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Costa d’Avorio, Ghana. Del resto, se la cronaca degli sbarchi clandestini crea un tema politico, l’economia ne trae adattamenti funzionali, utilizzando gli immigrati in mercati paralleli.

Attraverso i vari accertamenti, mi è accaduto di entrare su un terreno di storia umana in cui i dati che apprendo, mi rendo conto, non arrivano mai alla fine, anzi, di suggerimento in suggerimento, incontrano angolature aggiunte, che sento come preliminari di una sequenza valida e costruttiva. Assumo una postura, come dire, di “assunzioni vigili”: “performative”, direi. Se anche sono insolite nella mia formazione, le sento così appropriate da permettermi di “delinearle”: mi focalizzo su aspetti, di cui mi colpisce la rilevanza, e che dispongo in una catena discorsiva che mi appare convincente rispetto ai punti focali della situazione attuale. Convincente e anche incoraggiante: ma potrebbe essere che il bisogno di trovare fili per riparare le incongruenze percepite rasenti l’autoillusione.

In particolare ho trovato validi, e quindi utili, testi che ho incontrato in iniziative collegate con l’Enciclopedia Treccani, sui temi dell’oggi inquieto e incerto. Hanno per tema accadimenti attuali: leggo per esempio della proposta del “resort turistico a Gaza” in un articolo di Mario Del Pero, che dà spazio alle reazioni ferme dei Paesi arabi, a favore dei palestinesi: la raggiungo nel sito <https://www.treccani.it/magazine/atlante/>, dedicata a ambiti di interesse socio-antropologico a partire da fonti, citate, presenti nella località trattata. Altra testata interessante, i cui collaboratori rimandano spesso a Treccani, è https://www.mondopoli.it/: specifica per la geopolitica, propone vari tipi di fruizione, dai saggi degli “editoriali”, alle prese di posizione dei “punti di vista”, ai dati statistici, agli incontri percepiti come interessanti “navigando in rete”.

«Restituire tali incontri»: questa è la tensione, mentre mi rendo conto di essere solo una lettrice. Non poco, mi dico tuttavia, se posso fruire di una larga serie di tematica risalente ai classici. Così riconsidero, costante grande guida, Dante: nella sua vita, uomo colpito, depauperato degli agi come del progetto culturale. Che pure, in tale condizione di sofferenza, ha costruito un’opera ardua di portata collettiva. Lo penso in spinte positive, ovviamente ben oltre me: di fronte a situazioni, oggi elencate, nei reportage informati, di umani traditi, misconosciuti, derisi. Dante “il deportato”? Certo, “bandito in perpetuo”, costretto a “accattare” ospitalità. Ho di fronte il XVIII canto del Paradiso: nelle “luci precarie” che lo raggiungono posso anche identificare i vari signori da cui spera incarichi. E certo è il suo criterio di giudicare i signori dell’epoca, quel «Diligite iustitiam, qui iudicatis Terram», che definisce, insieme con la forma d’aquila assunta dalle luci, il centro del suo programma politico.

Ma il programma più largo, e collettivo, che può essere attuale considerare ora, è lo straordinario investimento che cogliamo nell’incrocio, presente in Dante, delle due lingue, la latina e l’“italiana”: da scrivere tra virgolette, poiché sarà legittimo esprimersi così solo due secoli dopo, con Bembo e Trissino. Un investimento, appunto, che aveva il costo di distaccarsi dalla grande enclave dell’Impero romano, per accettare “nazioni”, tra voci, pur discordanti, tuttavia sufficientemente omogenee: una storia in cui già si era inoltrato il maestro, Brunetto Latini, ma a cui Dante aveva dato il contributo teorico fondamentale, con il De vulgari Eloquentia. Ma è stata l’eloquio di compiuta varietà praticato nel poema la pietra fondante. L’unità politica, riconosciuta nel XIX secolo, ebbe basi certe.

Memorie che riapro, appunto, mentre avverto lo scempio, sotto ogni punto di vista, reale e culturale, operato intorno a un popolo, quello che ascoltiamo “proposto alla deportazione” dalla Palestina. Nel parallelo con l’insieme in cui pongo “Dante”, la “Latinità”, l’“Italia”, credo che sarà costruttivo che, senza perdere la relazione con la forte e estesa “cultura araba”, la Palestina si segnali come specificità. Mahmood Darwish, poeta e palestinese: sia coagulo e auctor delle specificità del popolo.

«Deportazioni» come provvedimento-chiave, in un processo mirato a razionalizzare produzione e commercio in Medio Oriente: questo è il programma che la presidenza statunitense ostenta, proponendo un intervento, che amplia la leadership già riconosciuta agli USA, nei trattati che chiusero la Seconda grande guerra. Presentato non come novità, ma come situazione già sancita da eventi, il periodo viene ora riesaminato a ritroso dall’auditorio del mondo, in particolare dai Paesi più coinvolti: quando e come il tutto si sarebbe determinato? Per altro, la ristretta selezione degli interlocutori ammessi alle trattative toglie autorevolezza a molti soggetti diplomatici che pure erano stati partecipi nel corso delle operazioni.

img-20250218-wa0015Il presidente or ora insediato sceglie le icone che lo rappresentino tra alleati e nemici, propri ritratti dall’aria minacciosa, aggrottata, con le pupille dilatate. Non è insolito che i potenti enfatizzino il loro potere compiacendosi di contributi, sia d’artisti, sia di letterati, di “like”, nella contemporaneità. La comparsa, nell’attualità, di studi filologici intorno a poemi encomiastici mi mette in sospetto di una combinazione colta che miri a enfatizzare il potere: in effetti con questo sfondo si misurano, nel 2025, le presentazioni giornalistiche cólte, dando rilievo al breve poemetto epico latino, La guerra dei giganti, di Claudiano, 400 era volgare, pubblicato nel 2024 a cura di Giovanni Andrisani presso la casa editrice milanese, La vita felice: non specialistica, propone l’opera, direi, al pubblico più ampio. L’operetta non è troppo nota: l’autore affrontava per la seconda volta il tema, in precedenza avendo usato il greco, sua madrelingua. È, questa attuale, un’operazione interessante, sullo sfondo degli accadimenti. A prima vista può dirsi encomiastica: i Giganti, sobillati dalla madre Terra – l’ordine, cioè, delle divinità antiche – si fanno arditi a scalare il cielo nella sfida agli dèi regnanti, ma inevitabilmente sono ricacciati nella condizione precedente. Il tema, già presente in Esiodo, è stato riproposto più volte, nelle varie arti: in altorilievo, orna l’altare di Pergamo, che risale al II secolo avanti Cristo, ricostruito però a Berlino a fine XIX secolo. Mi immergo nella lettura. La riproposta della “Gigantomachia” non di rado coincide con epoche di sovrani autocrati, e la riconferma della sovranità è il topos del genere. Gli umani, del resto, sono assenti, e la conferma del potere costituito è ineccepibile. Tuttavia in questo ambiente non–umano la vicenda vera, constato, è quella dei perdenti, delle loro virtù ignorate, delle false visioni che hanno coltivato, con cui, comunque, sono coerenti.

È dunque intrigante meditare sul tema dell’eroismo, sulla scelta di buone cause perseguite con abnegazione e con pubblico riconoscimento, tuttavia senza superare il fossato che relega nell’inefficacia. Dunque… «volsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare», viene da concludere. Cercando letture stimolanti, ritorno allora alla recente lettura del trattato, tra filologico, archeologico, astronomico, Alle origini del labirinto, di Gioachino Chiarini, Roma, La lepre edizioni, 2020: dove, in una interpretazione dotta e raffinata, non solo vengono recuperate a snodi epocali le figure di eroi quali Teseo e Ulisse, ma viene interpretato il “labirinto” come bussola o astrolabio, conosciuto in una trasmissione di cultura, già in era antica, in tutta Europa: testimonianza dunque di azioni organizzate e socievoli, poi base di riusi colti, in una trasmissione umana ampia tesa al riuso.

img-20250218-wa0016Nell’attualità, comunque, le interpretazioni che più ricerco sono opera di commentatori esperti di diplomazia e di storia. Dando risalto al colore di “assolutismo” che si coglie nella nuova dottrina, si affacciano analogie provvisorie con periodi storici anteriori, cercando il momento che nella storia ha separato “assolutismo” e “democrazia”: il fermo-immagine più citato va al pensiero di Montesquieu, un asse che scandisce un tempo anteriore, di assolutismo convinto, e uno successivo, in cui si espande il desiderio di agire nella storia. Intorno all’asse, però, si ripropongono gli eventi: le rivoluzioni, la violenza, il “terrore” che hanno marcato l’affermarsi delle “democrazie”.

“Terrore”, in questa fase, è pure “parola-riferimento” che, intorno alla trasmissione accertata dall’etimologia, intride di riferimenti storici il significato, sia pure in modo non così direzionato come accade al termine “deportare”. Certo più volte, e da più centri di potere, la costellazione linguistica che ruota intorno a “terrore” è stata implementata di senso. Il riferimento fu proposto con pathos e autorevolezza negli USA, quando l’11 settembre 2001 a New York furono colpite le “Torri gemelle”. La sera stessa, nell’intervento del presidente George W. Bush, “atto terroristico” – “terrorist act” – divenne parola politica: egli descrisse il progetto di un nemico non ancora individuato, ma comunque qualificato come male determinato a distruggere il bene. Anzi, rincarò, gli atti accaduti miravano a spaventare fino a far rintanare nel caos e nella tana – “were intended to frighten … into chaos and retreat” –. Contro questo, avrebbe promosso la guerra al terrorismo – “the war against terrorism” –. In effetti di lì ha preso l’avvio un programma di guerre combattute, a partire da una opposizione tra “bene e male” sempre meno convincente, in cui evidenza enfatica hanno le armi e, tra queste, la componentistica aerea per l’individuazione dei bersagli. Quella sfumatura di “terrore”, segnalato come intimo spavento che scoraggia a far fronte viene a mente, di fronte alle immagini accigliate di sé che il neo-presidente diffonde: con la notevole inversione, che il “terrore” si presenta come “agìto” oltre che “subìto”.

img-20250218-wa0003Ha acquistato spazio, accompagnando questi sviluppi, la constatazione della dipendenza tecnologica dalle risorse ambientali in generale, ma più in particolare dalle diciassette “terre rare”, o “REE”, acronimo di “Rare Earth Elements”: così che nell’attualità, mentre esordisce alla presidenza, Trump ne fa richiesta all’Ucraina. Per me, troppo abituata – ma, mi rendo conto, anche “rintanata” – a un mondo tutto letterario, la percezione di quanto siano importanti questi diciassette elementi, i quindici lantanidi della tavola periodica più lo scandio e l’ittrio, è avvenuta solo nel 2021, leggendo il poema epico di Gavino Ledda aurum Tellus: il poema espone una visione lucreziana, ma è anche parodico, difatti l’occhio situato è quello di un nucleo di pacifici animali bovini. Il poeta però l’aveva pubblicato oltre venti anni prima, nel 1991, nell’artistica veste ideata da Scheiwiller: lo compose certo al tempo della caduta del muro di Berlino, del novembre 1989, mettendo a tema, appunto, i “REE”. È questa, ravviso, una serie di minerali su cui si è acceso l’interesse dalla fine del XVIII secolo, ma che è stata centro di studio in particolare nel mondo baltico nel corso del XIX secolo, in un capitolo pressoché terminato nel 1900 – solo il promezio, ultima delle “terre”, scavalca la data, «creata in modo artificiale nel 1947» (in Terre Rare –ic13bo.edu.it, Istituto Comprensivo 13, Bologna, <https://www.ic13bo.edu.it>: 4) –.

Anche ascoltando Papa Francesco, mi si conferma che la cornice delle tre Guerre Mondiali, e forse di molte altre enclave in cui si sono accese guerre fino all’oggi, è un unico tema di dominio, disposto “a pezzi” temporali. Riguardando con attenzione i diversi episodi, i capitoli che gli storici propongono in quell’arco temporale: il colonialismo, la decolonizzazione, il Terzo Mondo aggregatosi nel 1955 con la Conferenza di Bandung, si coglie, con altre questioni e mire, un fil rouge coincidente con la ricerca di terre rare. Oggi quel Terzo Mondo, che fu tentativo di aggregazione, si è dissolto, ma l’economia conosce soggetti, alleanze e incompatibilità molteplici, che la nostra stampa ufficiale appena registra in cronache senza approfondimenti, e che anche l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo non riesce a valorizzare.

img-20250218-wa0004Ma l’Africa, i suoi bacini minerari e la popolazione che per tradizione vi risiede, è un ganglio di quegli eventi che ora vengono ripensati. Nell’attualità, nella linea esibita di concorrenza pronta a guerre, nella cornice del terrorismo e della catastrofe, interviene la notizia, e si connota degli assilli attuali, di assalti armati nella regione mineraria del Congo orientale – a opera del Ruanda, Stato confinante: un Paese sfornito dei minerali ricercati e così piccolo, da rimandare certo a manovre nascoste di potenze, forse le stesse che si propongono per egemonie economiche –. Riaffiora la storia del Congo, della fase in cui si definì “Repubblica libera del Congo”, affrontando l’obiettivo della decolonizzazione, in paragrafi che ne constatarono la sostanziale inconsistenza, lungo la vicenda dello statista Patrice Lumumba, degli agguati che subirono lui stesso e i suoi fautori, fino all’assassinio, con l’epilogo dei resti sciolti in acido.

Un’altra vicenda notevole si sta verificando nel continente, in quel Sudafrica, di cui è originario Elon Musk, coadiuvante di Trump alla Presidenza USA, uscito di recente e in modo sofferto dalla conduzione basata sull’apartheid. Del Sudafrica si parla anche in riferimento alla Palestina, avendo questo Stato avanzato la messa in stato d’accusa di Netanyahu, motivata per l’uso collettivo delle armi sulla popolazione di Gaza, presso la Corte internazionale dell’Aja: questa ha poi esaminato il caso, emettendo mandato d’arresto il 21 novembre 2024. Si ha notizia di un’operazione innovativa nel Paese, che sta legiferando ora sulla transazione della proprietà terriera: un tema di profonde ripercussioni, sul piano economico, come morale, che suscita reazioni avverse nei Paesi forti fondati sulla grande commercializzazione.

img-20250218-wa0018Nell’intensità del momento, per altro, si dispiega una interessante pagina culturale, fondata sulla cultura musicale, pluridimensionale e coinvolgente: che forse non è errato considerare evoluzione della tradizione africana di griots e griottes. Si rinnova l’influente presenza di artisti e artiste di grande levatura, in continuità con una storia, di cui fu una rappresentante nota nel mondo Miriam Makeba.

La linea delle annotazioni, mi rendo conto, esalta le notizie che aprono alla speranza, come volendo adunare energie per non recedere di fronte alle pagine brutali che l’autorità più potente dispone, nella conclusione, pur auspicata, dei conflitti, in particolare quello nel Medio Oriente. D’altronde, non ci sarebbe progettualità, se fosse impraticabile la possibilità della scelta. Mi segno così un ultimo “incontro incoraggiante”: quello con la figura di Mauro Armanino, già operaio, poi antropologo e etnologo, con esperienze in Sud America e Africa, ora, stabilmente, missionario nel Niger, a Niamey. Con lui appunto ancora qualche considerazione sulle migrazioni: egli opera infatti stabilmente al servizio dei “migranti di ritorno”. Ecco, questa immagine mi sembra un buon tema: anche se la descrizione, certo realistica, del mondo diviso in due, quello a nord, privilegiato, quello a sud, ancora, sistematicamente, razziato, potrebbe finire in una narrazione senza sbocchi. Invece l’operatore invita a “non tacere”: a non arrendersi alle macerie, a “riparare”. Forse, intende un riparare metaforico, rivolto a “pensieri, parole”: comunque, a relazioni, quindi a comunità. Mi sembra, che questo qualifichi il processo che dalla dispersione costruisce il soggetto storico. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Riferimenti bibliografici
Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo (12° ed), TerraNuova, 2024
Chiarini, Gioachino, Alle origini del labirinto, Roma, La lepre edizioni, 2020
Claudiano, La guerra dei giganti, a cura di Giovanni Andrisani, Milano, La vita felice, 2024
Enciclopedia storica, a cura di Massimo L. Salvadori, Bologna, Zanichelli, 2000
Ledda, Gavino, aurumTellus, Milano, Scheiwiller, 1991
Oli, Giancarlo, Giacomo Devoto, Dizionario di Lingua italiana, Torino, Le Monnier – Utet, 1990 
Riferimenti sitografici
Mario Piacentini, Enciclopedia Italiana (1931), “Deportazione”, <https://www.treccani.it/enciclopedia/deportazione_%28Enciclopedia-Italiana%29>
Pistolesi, Alice, Turismo e sport per superare la guerra. il piano di Bihać, 7. IX. 2024
Terre Rare, Istituto Comprensivo 13, Bologna, <https://www.ic13bo.edu.it>
<https://www.mondopoli.it/>
<https://www.meltingpot.org/2023/03/principio-di-non-refoulement-e-solo-un-articolo-che-non-viene-rispettato/>
<https://openmigration.org/glossary-term/principio-di-non-refoulement/>
<https://statistics.btselem.org/en/demolitions/pretext-unlawful-construction?structureSensor=%5B%22residential%22,%22non-residential%22%5D&tab=overview&stateSensor=%22west-bank%22&demoScopeSensor=%22false%22>
<https://www.unimondo.org/Notizie/Turismo-e-sport-per-superare-la-guerra-il-piano-di-Bihac-256490>
<https://it.wikipedia.org/wiki/Deportazione>
<https://www.treccani.it/magazine/atlante/> 

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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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