di Lina Novara
La Marina Grande di Trapani, orgogliosa di appartenere ad una categoria significativa sia in ambito economico che sociale, ha voluto imprimere sulla pietra, sul marmo, sull’argento e sui materiali usati per le proprie opere d’arte, il simbolo della categoria [1]: il veliero, una nave a tre alberi più il bompresso, armata con vele quadre, che per la propulsione sfrutta l’azione del vento. Imprimere il simbolo ha significato esternare devozione e rendere duraturo nel tempo il ricordo della committenza o della donazione.
È nota la grande devozione nei confronti della Madonna di Trapani di tutta la marineria trapanese, suddivisa in due corporazioni: la Marina Grande, composta dai Marinai d’alto mare che navigavano con i grandi velieri, e la Marina Piccola, o Marinella, formata da pescatori, tonnaroti e corallai che utilizzavano più modeste barche. Per onorare degnamente la loro protettrice, Maria SS. di Trapani, entrambe le categorie vollero essere presenti fin dal XV secolo nel santuario in cui era custodito il simulacro marmoreo, attribuito a Nino Pisano (ca. 1360), con due cappelle fatte costruire a loro spese: la cappella dei Marinai o del Cristo Risorto e la cappella dei Pescatori.
Della prima non si conosce la data di realizzazione, sicuramente antecedente al 1457, anno in cui, come si ricava da un documento d’archivio, i Marinai commissionarono al pittore Tommaso de Vigilia una “cona” per la quale nel 1462 affidarono a Pietro da Messina l’incarico di costruire un baldacchino [2]. Sicuramente fu la fatiscenza della preesistente cappella ad indurre nel 1514 la stessa marineria a chiedere ai frati Carmelitani di ricostruirla ed ampliarla nello stesso luogo dove oggi si trova [3]: sul lato sinistro dell’abside della chiesa grande, che in origine doveva corrispondere al transetto della chiesa gotica.
I lavori andavano a rilento tanto che il viceré Gonzaga nel 1528 fu costretto a intervenire disponendo che i fondi destinati alla ricostruzione della cappella non fossero destinati ad altro. Sicuramente erano stati completati nel 1552, essendo tale data riportata sul gruppo scultoreo del Cristo Risorto, destinato all’altare della cappella, ora esposto nel Museo regionale di Trapani Agostino Pepoli.
La cappella ha pianta quadrangolare e cupola emisferica: le pareti interne in pietra da taglio in vista, dal caldo colore dorato, sono impreziosite da una teoria di dodici nicchie conchigliate. Una enorme vistosa conchiglia occupa tutto il catino dell’abside imponendosi all’attenzione sia per l’aspetto ornamentale che per il valore simbolico: la conchiglia evoca l’acqua e il mare, simboleggia la nascita, la fertilità, la rigenerazione e la vita, ma è anche un simbolo di Maria Madre di Dio, dalla quale è nata una perla, Cristo.
In una incisione del 1702 che rappresenta una conchiglia nel mare si legge me mare caelo maritat [il mare mi sposa al cielo]. Nel testo proto-cristiano Physiologus così si racconta: «c’è una conchiglia nel mare che porta il nome di conchiglia purpurea: essa emerge dal fondo del mare … apre la sua bocca e beve la rugiada del cielo e il raggio del Sole e della Luna e delle stelle, e per mezzo di quelle luci superiori porta a compimento la perla…». Altro simbolo è il veliero, un’imbarcazione a vela, riprodotta alla sommità della calotta, sull’architrave della porta di destra e sulla lapide sepolcrale, al centro del pavimento, chiara allusione ai committenti. Sulla lapide è riprodotto lo stemma di Carlo V con l’aquila bicipite.
La cupola, dalla circonferenza marcata da un anello di bugne a punta di diamante, poggia su quattro cuffie, ossia nicchie angolari, sormontate da un coronamento a ventaglio formato da archi concentrici, di raggio crescente; posti diagonalmente in corrispondenza degli spigoli e aggettanti l’uno sull’altro, fungono da elemento di raccordo tra il vano quadrato e la cupola. La soluzione di trasformare il quadrato di base fino a ottenere il trapasso a una imposta circolare, di derivazione bizantina, unita all’inserimento di raccordi angolari, di derivazione araba, trova applicazione nel trapanese in numerose piccole cappelle edificate tra il XV e il XVI secolo, tra cui quella della Madonna di Trapani, nello stesso Santuario, e la cappella Staiti in Santa Maria del Gesù.
L’ignoto architetto che progettò la cappella dei Marinai seppe fondere in un unico armonico impianto, di concezione rinascimentale, elementi decorativi gotico-spagnoli come le bugne a punta di diamante e i motivi a corda rispondenti al cosiddetto gusto plateresco, elementi classico-rinascimentali presenti nella riquadratura delle nicchie della parete con piatte lesene ed architrave decorata, oltre che le già citate soluzioni bizantine e arabe.
Non meno interessante è l’esterno che si presenta come un robusto corpo scandito da piccoli torrioni angolari, aggettante dal perimetro della chiesa, ben visibile a chi si accosta al santuario dal lato settentrionale. La superficie muraria è vivacizzata da cornici marcapiano ed esili colonne tortili; un’apertura ad arco ribassato, posta sul lato ovest ed inquadrata da un portale ricco di intagli tufacei consente l’accesso all’interno.
Per la loro cappella i Marinai avevano voluto due monumentali opere di arredo – una acquasantiera ed un gruppo scultoreo raffigurante il Cristo risorto con quattro soldati – contrassegnate entrambe dai simbolici velieri. L’acquasantiera reca l’iscrizione Naute Drepanitani comuni sumptu hoc constituerunt [I Naviganti Trapanesi fecero questo a spese comuni]: del tipo a immorsatura, ossia da fissare a muro, ha la vasca a forma di valva di conchiglia, sorretta da tre puttini telamoni che fanno da simbolico sostegno [4]. Al di sopra della vasca la struttura marmorea prosegue con due registri a rilievo in successione, raffiguranti, il primo, un veliero che naviga fra le onde, il secondo, la scena del Battesimo di Gesù. L’elegante decorazione si conclude con una copertura a baldacchino in forte aggetto, sovrastata da un Angelo Annunziante recante un cartiglio con la scritta Ave Maria che si completa con Gratia plena, nei cartigli dei due angeli che delimitano la scena del Battesimo.
Comunemente attribuita agli scultori Gabriele Di Battista e Antonio Prone, l’acquasantiera è datata 1486, riferibile probabilmente all’anno della commissione, poiché in un documento del 1490 l’opera risulta ancora nella bottega del Di Battista il quale probabilmente eseguì la maggior parte del lavoro, mentre Prone si limitò all’Angelo Annunziante posto sopra il cupolino, e ai cherubini laterali al vascello. Sicuramente l’autore aveva ben presente l’acquasantiera della Cattedrale di Palermo (seconda metà sec. XV), della quale ripropone l’impianto compositivo e la scena del Battesimo di Gesù, superando però taluni elementi goticheggianti ancora persistenti in quella palermitana, a favore di un equilibrio e di un vigore plastico, orientati verso una visione rinascimentale.
Per quanto riguarda l’aspetto iconologico occorre tuttavia sottolineare come la consueta frequente allusione alle proprietà dell’acqua benedetta, propria dell’apparato decorativo delle coeve acquasantiere, qui si rafforza per il valore che l’acqua assume per i Naviganti alludendo, assieme alla conchiglia, al mare. Ad attestare le proprietà salvifiche dell’acqua benedetta troviamo anche l’iscrizione Templa Dei ingressi frontes hac tingite lympia – sacra leves maculas pectoris unda lavat [Entrati nel tempio di Dio bagnate le fronti con questa limpida acqua – la sacra onda lava le lievi macchie del petto]. Ma il nauta non può tralasciare, nel luogo dedicato a Maria SS. di Trapani, sua Patrona, di eternare sul marmo, assieme all’Ave Maria gratia plena, una devota preghiera rivolgendosi a Lei, come Le si rivolge mentre va per mare: Nauta procellosis fac non mergatur in undis qum vocat auxilium Virgo Maria tuum [O Vergine Maria, fa che il navigante non anneghi nelle onde tempestose quando invoca il tuo aiuto].
Per l’altare della cappella dedicata a Cristo Risorto non poteva mancare un’opera monumentale che rievocasse la Resurrezione avvenuta alla presenza dei soldati che custodivano il sepolcro; il gruppo marmoreo, oggi esposto presso il Museo Pepoli, fu commissionato intorno alla metà del XVI secolo ad un ignoto scultore gaginesco che ripropose, sia pure in termini di maggiore staticità e fissità, la stessa composizione di Cristo Risorto della tribuna marmorea della Cattedrale di Palermo, eseguita in parte da Antonello Gagini che vi lavorò fino all’anno della morte (1536) e ultimato dai figli e dalla bottega nel 1570.
Il gruppo trapanese si compone di quattro figure: Cristo, in posa frontale, che emerge dal sarcofago e quattro soldati forniti di scudi ed elmi: due sono in posa dormiente e gli altri abbagliati dalla luce sprigionatasi nel momento dell’uscita di Gesù dal sepolcro. La data 1552 incisa sul sarcofago fa supporre che la realizzazione sia avvenuta in concomitanza con i lavori di ultimazione della nuova cappella: riguardo l’attribuzione sono stati fatti i nomi del carrarese Giuliano Mancino e più opportunamente di Rocco di Rapi, attivo ad Alcamo intorno alla metà del XVI secolo, per talune analogie dei dormienti con la figura del defunto posto sul sarcofago di Fernando de Vega (1556) del Santuario di Maria SS. dei Miracoli di Alcamo [5].
Ai lati della fronte del sepolcro sono riprodotte due scene di navigazione: a sinistra un veliero solca il mare muovendosi nella direzione del Monte Erice che, come un faro, indica la costa; a destra il veliero naviga invece verso la chiesa della Madonna di Trapani. Nell’identificare i luoghi, i Naviganti hanno voluto contrassegnare la propria appartenenza alla marineria trapanese esternando, allo stesso tempo, la grande devozione verso Maria SS. di Trapani.
Secondo la storiografia locale, i Naviganti avevano come loro chiesa Santa Maria di Porto Salvo, un piccolo edificio di culto, ubicato nel XVI secolo nella zona del quartiere militare degli Spagnoli [6]. Loro protettrice era anche Maria SS. di Porto Salvo, denominata anche Stella Maris, un titolo fra i più antichi per la Vergine Maria, utilizzato per enfatizzare il suo ruolo come segno di speranza e come stella polare per i Cristiani; con questo titolo tuttora viene invocata come guida e protettrice di chi viaggia o cerca il proprio sostentamento sul mare.
Il 12 marzo 1736 i Drepanitae Nautae stabilirono di erigere dalle fondamenta un nuovo tempio dedicato alla Beata Vergine Maria, sotto l’insigne titolo Sanctae Mariae Portus Salvi, al fine di assicurare il culto e la venerazione di una sacra immagine della Madonna del Porto che, secondo la tradizione, era stata collocata dai Francesi nel 1211 sopra la porta d’oriente della città [7]. Assicuratisi i mezzi finanziari per affrontare l’ingente spesa, i “Padroni delle Navi” si aggregarono nel 1739 con la Compagnia di Maria SS. della Nuova Luce e San Giuliano che aveva sede nella omonima chiesa, per costruire assieme un nuovo edificio di culto, dal momento che i Confrati erano impossibilitati a poter riparare la chiesa che si trovava «in stato molto deteriorato … per l’imminente crollo del tetto». Il vescovo di Mazara ne autorizzò la costruzione con la clausola che fosse sempre intitolata a Nostra Signora della Luce; il progetto fu approntato da Giovanni Biagio Amico, il più noto e stimato architetto del momento e il collaudo venne effettuato dall’architetto Don Vincenzo Lotta il 16 gennaio 1767. Allo stesso Lotta si deve anche il disegno del pavimento in ceramica del cappellone della chiesa, non più esistente ma minuziosamente descritto da Vincenzo Fonte [8]; in 690 mattoni era rappresentata una scena marina con in primo piano una nave da guerra con cannoni, a vele spiegate ed ammainate, e in profondità piccoli velieri. Vi erano raffigurati anche attrezzi marinareschi: una bussola, un’ampollina, due mappamondi. Nell’inventario dei beni della chiesa redatto nel 1919 si legge: Pavimento del Cappellone in ceramica, di finissima struttura, eseguito nel 1756.
Purtroppo la chiesa è stata distrutta durante gli ultimi eventi bellici ma nella “Bolla di nomina del rettore, il can. V. Fonte” del 20 giugno 1919 si trova una descrizione dettagliata dalla quale si evince che la pianta era paragonabile a quelle di Santa Maria della Grotta di Marsala e Santa Caterina di Calatafimi, progettate dall’Amico, nelle quali l’architetto sviluppa uno spazio unitario «definito dalla continuità della trabeazione che, secondo modalità borrominiane del Sant’Ivo, crea un effetto avvolgente e pur sempre prodotto di un equilibrio compositivo» [9].
Nei capitoli della fabbrica si precisava che nell’ingresso principale doveva essere collocato il portale di marmo con scene della vita di San Giuliano (1508), già esistente nella precedente chiesa dedicata al Santo, ed ora esposto al Museo Pepoli; l’ingresso laterale che si apriva su via San Pietro era posto di fronte la cappella del Crocefisso ligneo, attribuito allo scultore Pietro Orlando, proveniente dalla cappella della Congregazione del SS. Sacramento degli Agonizzanti, dentro il chiostro di Sant’Agostino, dove era collocato tra le statue dei dolenti: Maria e San Giovanni. Queste due ultime opere in legno tela e colla sono ora collocate nell’altare del Crocefisso in San Domenico.
Sull’altare maggiore della chiesa era collocata la tavola che, secondo il gesuita Ottavio Caietano (1664), raffigurava una “Madonna che allatta il Bambino” detta della luce, o per via della frase «è stata vista nascere una nuova luce» o per la candela, oggi non più individuabile ma visibile nell’immagine che correda il testo [10]. La storiografia locale ritiene che sia stata definita della Luce proprio per via della candela che è simbolo di speranza nella vita eterna: la sua luce allude alla vita, allo sviluppo e alla bellezza.
L’opera, di ignoto autore, viene riferita agli inizi del XV secolo e messa in relazione con il Trittico di Gibilrossa, ora a Palazzo Abatellis a Palermo, manifattura probabilmente di un artista attivo in ambito locale sicuramente influenzato dalla pittura tardo trecentesca marchigiana-umbro-toscana. Ritengo che un più calzante riferimento possa trovarsi nella coeva Madonna del latte della Magione di Palermo con la quale l’opera trapanese condivide iconografia e caratteri stilistici. L’incarico di eseguire dei dipinti per la nuova chiesa venne dato dai Consoli della Marina Mercantile ad un famoso artista dell’epoca, Domenico La Bruna (1699-1763) che dipinse tre quadri: due autografi, datati 1749, un terzo attribuitogli dal Di Ferro, tutti purtroppo non pervenutici [11].
Anche per la suppellettile sacra della nuova chiesa i Naviganti si affidano ad uno dei più noti e stimati maestri del secolo XVIII, Vincenzo Bonaiuto (1717-1771), personalità di spicco nel panorama dell’arte argentaria trapanese del secondo ‘700, autore fra l’altro di grandiose opere come il paliotto architettonico del Museo Pepoli e quello della chiesa Madre di Marsala, o la statua di Sant’Alberto del santuario dell’Annunziata di Trapani [12]. Interpretando i sentimenti della gente di mare, Bonaiuto crea un sontuoso ostensorio, una pisside, una navetta e una lampada pensile – tutti marchiati con la bulla di Trapani – corona, falce e lettere D.U.I. Drepanum Urbs Invictissima – e si esprime, con grande maestria, attraverso eleganti motivi ornamentali che vanno dal barocco al rococò oltre alle tradizionali teste di cherubini ai quali associa vele e simboli del mare [13].
L’ostensorio con un grande veliero che fa da sostegno alla sfera è del 1757; sebbene la marchiatura consista solo nel marchio della città di Trapani, dalle Note di spesa dell’argenteria della Chiesa di Maria SS. delle Nuova Luce si rileva che l’opera fu eseguita dal Bonaiuto nel 1757 [14]. Vincenzo Fonte lo descrive dettagliatamente, definendolo «di forma maestosa» e specificando che «per la sua grandezza e pesantezza» veniva usato solo nelle grandi solennità [15]: l’altezza di cm 93 lo pone infatti tra i più grandiosi ostensori che le maestranze trapanesi abbiano prodotto [16]. Alla sommità del fusto è posta «una nave da guerra del tempo, dalle vele spiegate, avente a prua un cavallo marino, che serve di mensola al pennone» sul quale sventola una bandiera con aquila a bassorilievo. Alla sommità delle tre antenne sono poste altrettante banderuole a pizzo; sul fianco della imbarcazione, sotto il parapetto, sporgono cinque cannoncini.
Il veliero ha una doppia valenza: quella di simbolo della Marina Grande, e quella di base della sfera formata dalla teca circolare e dalla fitta e corta raggiera; originale è la composizione della cornice che circonda la lente, tutta ornata da testine di cherubini e modanature, e che prende forma quadrangolare per l’inserimento di quattro testine sporgenti dal perimetro, su altrettanti punti della cornice. L’ostensorio, per la presenza del grande veliero, risponde alla tipologia barocca caratterizzata da fusti figurati e trova riferimenti iconografici, oltre che in quello meno sontuoso e più “popolare” della Marina Piccola, forse preso a modello, in alcuni ostensori del “tesoro” della chiesa Madre di Erice, del Museo Diocesano di Mazara del Vallo, ed anche in quello del santuario dell’Annunziata di Trapani, recante il simulacro della Madonna, pregevole opera di Gabriele Bertolino [17].
Dalle Note di spesa si rileva che l’autore è Vincenzo Bonaiuto il quale, su commissione dei “Padroni della Marina mercantile, ad uso della Chiesa di Maria SS. della Luce” di Trapani, aveva eseguito nel 1761 una pisside del peso di una libbra e undici onze, per la cui «maestria e per l’addoratura» aveva ricevuto dei compensi [18]. La pisside, lavorata a sbalzo e cesello, ha la base ad andamento mistilineo, ornata da tre grandi volute appiattite che la tripartiscono e che gradatamente si restringono fino al fusto [19]; negli spazi tra le volute si inseriscono tre tipi di imbarcazioni a vela. Sul bordo superiore della coppa e nel coperchio è impresso il marchio della maestranza degli argentieri di Trapani – corona, falce, lettere D.U.I. I motivi decorativi rococò, la tipologia del sacro oggetto, la buona fattura inducono a collegare l’opera ad altri manufatti di produzione trapanese della seconda metà del secolo XVIII, tra cui la pisside del santuario dell’Annunziata di Trapani, datata 1762 e quella della Marina Piccola [20].
La lampada pensile, rispondente alla tipologia vasiforme con forti rigonfiamenti nella parte centrale, diffusa in Sicilia in epoca barocca, attesta l’uso di arricchire cappelle e chiese con lampade ad olio al fine di consentire una continua illuminazione, offerte in segno devozionale da fedeli facoltosi, nobili o congregazioni che, come in questo caso, facevano incidere o sbalzare sull’argento stemmi, simboli o iscrizioni, a ricordo perenne della donazione. Grazie alla dettagliata descrizione della lampada d’argento che fa Vincenzo Fonte è possibile identificarla con il “lampiero d’argento” [21] ora della collezione Burgio di Palermo, oggetto eseguito da Vincenzo Bonaiuto nel 1758, per la Marina Grande e per il quale il maestro ricevette dei compensi, come si ricava dalle Note di spesa [22].
Oltre il simbolo della suddetta marineria, il veliero, lo attesta anche la marchiatura consistente nello stemma di Trapani, nelle iniziali VB, corrispondenti all’argentiere Vincenzo Bonaiuto, e nella sigla del console della maestranza CCC, Carlo Caraffa che nel 1758 ricoprì tale carica [23].
Anche nel 1756 il Bonaiuto aveva dato prova delle sue abilità eseguendo per la stessa chiesa il Portellino d’argento di tabernacolo, oggi nella cappella del Palazzo Vescovile di Trapani, lavorato a sbalzo e cesello, per il quale il maestro ricevette un compenso dai “Padroni della Marina Mercantile” come si rileva dalle Note di spesa, presentate da «Padron Antonio Alì, governatore della venerabile Compagnia di Nostra Signora della Nuova Luce, per conto della Gabella della Marina alli 12 Gennaio 1766».
Al centro dello sportello è raffigurato a sbalzo il simulacro della Madonna di Trapani, posto sopra un piedistallo sul quale è incisa l’iscrizione Spes Nautarum: fa da cornice alla sacra immagine un intreccio di motivi decorativi barocchi e rococò e di arnesi marinareschi che partono da un elmo con piume svolazzanti, posto in alto, al centro [24]. Sull’argento sono inoltre sbalzati: un’antenna, alla cui sommità sventola una banderuola con aquila, e dalla quale partono due cime che sostengono un pennone a vela spiegata, una bandiera ad unico campo, sostenuta da un’asta, un’ancora, un cavalluccio marino, un delfino ed una bussola. In basso è inciso: Vincentius Bonagiuto sculp. Il simbolico veliero ritorna sul calice della stessa chiesa [25]; nelle specchiature della base sono sbalzati tre diversi tipi di imbarcazione a vela, incorniciati da motivi ornamentali a voluta.
L’opera rientra nella tipologia del calice barocco, lavorato con la duplice tecnica dello sbalzo e del cesello e decorato con motivi vegetali, volute e testine di cherubini alati. La marchiatura consiste nello stemma della città di Trapani – corona, falce e lettere D.U.I. – nella sigla del console VCC e nel cognome LOTTA. Quest’ultimo indica la bottega di Nicolò Lotta, documentato nella prima metà del secolo XVIII, rinomato argentiere, il cui figlio Francesco esercitò la stessa attività, ed ereditatane la bottega, continuò ad imprimere l’intero cognome; figlio di Nicola fu anche Vincenzo (1729-1791), regio architetto che si suppone realizzasse per la bottega di famiglia disegni di oggetti e arredi sacri.
Secondo Maria Accascina il calice della Marina grande sarebbe stato eseguito da Francesco [26]. Va inoltre ricordato che Nicola Lotta, autore di numerosi pregiati oggetti, si serviva della collaborazione di architetti per i disegni di opere da eseguire su modulo architettonico, come per il prezioso paliotto del Museo Pepoli, attribuito a Giovanni Biagio Amico o per la grandiosa urna del sepolcro della cattedrale di Mazara del Vallo, disegnata dallo stesso Amico [27]. Il marchio VCC potrebbe riferirsi a Vito Caraffa, la cui attività è documentata nel 1756 [28]. Vincenzo Fonte che descrive il calice, senza leggere i marchi, riferisce che dalle Note di spesa si rileva che nel 1767 l’argentiere Vincenzo Bonaiuto ricevette un compenso anche «per rinfrescare il calice» [29]; questa precisazione, attesta che esso è antecedente.
Ancora riferimenti alla committenza marinaresca nella navetta d’argento: la sacra suppellettile è provvista di un coperchio a due valve con volute che fungono da pomoli; nella parte fissa tra le cerniere delle valve, al posto del consueto fastigio decorativo, è posto lo scafo di una imbarcazione (mutila della vela), poggiante su onde simulanti il mare [30].
La marchiatura consistente nella sola bulla di Trapani – corona, falce e lettere D.U.I. – non consente di individuare l’argentiere. La semplicità di linee, l’essenzialità della decorazione, il rilievo poco sbalzato, denotano il persistere di un gusto ancora tardo-manieristico nella prima metà del secolo XVIII, come attestano altri manufatti dell’epoca, tra cui un secchiello per l’acqua benedetta del tesoro del santuario dell’Annunziata di Trapani. Anche la presenza della barca, induce allo stesso ambito temporale, dopo il 1739, anno in cui i Naviganti scelsero come sede la chiesa di Maria SS. della Nuova Luce. Qualche analogia stilistica si può cogliere con la navetta del santuario dell’Annunziata di Trapani, della metà del secolo XVII.
Arte e devozione hanno accompagnato nei secoli la Marina Grande: ancora oggi è oggetto di grande devozione, ma anche di orgoglio per la categoria, il sacro gruppo dei “Misteri” La Caduta al Cedron, da circa quattro secoli ad essa affidato e con il quale i “Naviganti” partecipano alla processione del Venerdì Santo.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] AM. Precopi Lombardo, L’artigianato trapanese tra il XIV e il XIX secolo, Palermo 1987: 29-34.
[2] C. Trasselli, Sull’arte in Trapani nel Quattrocento, Trapani 1948:15-16; inoltre V. Scuderi, La Madonna di Trapani e il suo Santuario. Monumenti, opere e culture artistiche, Trapani 2011: 61-69.
[3] M. Serraino, Le corporazioni, arti e mestieri di Trapani e la loro attività religiosa, in “Rassegna mensile della Provincia di Trapani” n. 6, giugno 1966: 138.
[4] D. Scandariato, Acquasantiera, in “La Navigazione nel Mediterraneo, Tecnica e arte al Museo Pepoli”, a cura di M. L. Famà, catalogo della mostra, Trapani 2005: 27-28.
[5] D. Scandariato, Cristo Risorto e soldati, in “La Navigazione…” op. cit.: 33-34.
[6] M. Serraino, Trapani nella vita civile e religiosa, Trapani 1968: 71. Idem, Le corporazioni, …op. cit.:138.
[7] Per la tavola (cm.120×92) che si trova oggi in Vescovado, cfr.: V. Scuderi, Arte medievale del trapanese, Trapani 1978, scheda n. 59: 97; F. Mondello, sulle pitture in Trapani dal XIII al secolo XIX e sui pittori trapanesi profili storico-artistici, trascrizione e note a cura di M. Giacalone, Trapani 2008: 35-36, nota I; Museo Nazionale Pepoli. IV Mostra di opere restaurate, a cura di F. Negri Arnoldi, Trapani 1969:7-9.
[8] V. Fonte, Storia della chiesa di Maria SS della Nuova Luce, Trapani 1927: 90-92.
[9] A. Mazzamuto, Il progettare secondo “L’architetto Prattico” e la pratica progettuale di Giovanni Biagio Amico in “Giovanni Biagio Amico (1684-1754) Teologo Architetto Trattatista”, Atti delle giornate di studio, Trapani 8-9-10 marzo 1985, Roma 1987: 123.
[10] O. Caietano, Ragguagli delli Ritratti della Santissima Vergine Nostra Signora più celebri, che si riveriscono in varie chiese nell’isola di Sicilia, Palermo 1664.
[11] F. M. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, Trapani, 1830: 55.
[12]AM. Precopi Lombardo, Bonaiuto Vincenzo, in Argenti e ori trapanesi nel museo e nel territorio, a cura di AM. Precopi Lombardo e L. Novara, Trapani 2010: 111-112; inoltre, L. Novara, L’arte argentaria trapanese dal XVII al XIX secolo, in “Argenti e ori trapanesi …”, op. cit.: 36.
[13] Gli oggetti sono stati esposti alla mostra “La Navigazione nel Mediterraneo. Tecnica e arte al Museo Pepoli”, tenutasi a Trapani nel 2005. Sono oggi di proprietà ecclesiastica, tranne la lampada pensile che appartiene alla collezione Burgio di Palermo.
[14] V. Fonte, Storia della chiesa…op. cit.: 94.
[15] Ibidem: 96-97.
[16] L. Novara, Ostensorio della Marina grande, in “La Navigazione…” op. cit.: 106-107.
[17] Per gli argenti non riferibili alla Marina grande: D. Ferrara, III, 14, 20, 22, 25 in “M. Vitella, Il tesoro della Chiesa Madre di Erice”, Trapani 2004; M. Vitella, II, 24 in Il tesoro nascosto. Gioie e Argenti per la Madonna di Trapani, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale e V. Abbate, Palermo 1995; P. Allegra in M.C. Di Natale, Il Tesoro dei Vescovi nel Museo Diocesano di Mazara del Vallo”, Marsala 1993; Argenti e ori trapanesi…, op. cit.
[18] Vedi nota 8.
[19] L. Novara, Pisside della Marina grande, in “La Navigazione …” op. cit.: 110.
[20] L. Novara, Pisside della Marina piccola, in “La Navigazione…” op. cit.: 97-98.
[21] L. Novara, Lampada pensile, in “La Navigazione …” op. cit.: 102.
[22] V. Fonte, Storia della chiesa … op. cit.: 95.
[23] Cfr. Repertorio in “Argenti e ori trapanesi …” op. cit.:75-76, 83-84, 115.
[24] L. Novara, Vele in argento, in oro e in altri pregiati materiali, in “La Navigazione…”, op. cit.: 90-91, fig. 2.
[25] L. Novara, Calice della Marina grande, in “La Navigazione …” op. cit.: 104.
[26] M. Accascina, I Marchi delle argenterie e oreficerie siciliane, Busto Arsizio 1976:193.
[27] L. Novara, Monumento d’argento per il S. Sepolcro della Cattedrale di Mazara, in “Argenti e ori trapanesi …” op. cit.: 60-61.
[28] Vedi Repertorio in “Argenti e ori trapanesi…” op. cit.
[29] V. Fonte, Storia della chiesa…op. cit: 94, 99.
[30] L. Novara, Navetta della Marina grande, in “La Navigazione …” op. cit.: 105.
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Lina Novara, laureata in Lettere Classiche, già docente di Storia dell’Arte, si è sempre dedicata all’attività di studio e di ricerca sul patrimonio artistico e culturale siciliano, impegnandosi nell’opera di divulgazione, promozione e salvaguardia. È autrice di volumi, saggi e articoli riguardanti la Storia dell’arte e il collezionismo in Sicilia; ha curato il coordinamento scientifico di pubblicazioni e mostre ed è intervenuta con relazioni e comunicazioni in numerosi seminari e convegni. Ha collaborato con la Provincia Regionale di Trapani, come esperto esterno, per la stesura di testi e la promozione delle risorse culturali e turistiche del territorio. Dal 2009 presiede l’Associazione Amici del Museo Pepoli della quale è socio fondatore.
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