di David Camporeale
A novant’anni dalla morte di Gennaro Pardo (Castelvetrano 12 aprile 1865 – 4 settembre 1927) sorge impellente, specie in chi coglie con apprensione i segni di dissoluzione della nobile tradizione storica del territorio, il desiderio di recuperarne la memoria, e con essa i perenni valori spirituali che hanno permesso al pittore la conquista della sua piena espressività artistica.
Nel quadro delle recenti iniziative culturali volte a riscoprire una delle più eminenti figure della Palmosa Civitas, rivestono particolare interesse quelle opere pardiane che non sono conservate in musei o in collezioni private di difficile accesso, ma che, trovandosi collocate in importanti sedi storiche e monumentali di Castelvetrano, aperte alla libera fruizione, possono ritenersi “pubbliche”, in quanto visitabili pressoché in ogni giorno dell’anno.
Il lavoro di esegesi storico-artistica e di divulgazione su ampia scala condotto su alcuni prestigiosi lavori di Gennaro Pardo (come il sipario del Teatro Selinus e il ciclo di affreschi nella chiesa di San Giovanni Battista in Castelvetrano) sembra aver già suscitato un interesse più vivo ed uno sguardo più attento alla sua raffinata produzione pittorica, contribuendo significativamente ad assegnarle il posto che merita nel panorama artistico nazionale. Ma altre due opere pubbliche attendono ancora di essere adeguatamente conosciute e valorizzate, sottraendo pur esse all’oblio che ha di fatto negato all’insigne artista il pieno riconoscimento che avrebbe dovuto ricevere dal pubblico e dalla critica.
Nella Sala del Consiglio del Palazzo Comunale si trova esposta la prima, costituita dal grande dipinto acquistato per volontà del tenente colonnello Riccardo Tondi, che fu Podestà di Castelvetrano dal 1 luglio 1929 al 31 dicembre 1932; l’opera, che in passato veniva additata come una delle più rappresentative del Pardo, raffigura il mitico episodio di Pandora che, come narrato da Esiodo nella Teogonia e in Opere e giorni, scoperchia l’orcio contenente tutti i mali che, da quel momento, affliggono il mondo.
Per rappresentare nel modo più pregnante gli spiriti maligni liberati da Pandora, il Pardo ricorre all’antichissima figura del serpente, che gli permette altresì di stabilire un sottile parallelo con Eva, la prima donna del racconto biblico della Genesi, responsabile della caduta dell’uomo dalla sua condizione originaria; e infatti nel dipinto uno dei serpenti che sbucano sinuosi dal grande vaso appena aperto, subito si avvince al braccio dell’uomo nudo che vediamo ritto sulla sinistra.
In quest’opera il pittore mostra apertamente l’adesione al gusto floreale allora dilagante in Italia, rendendo l’azione soggiogante del male attraverso un groviglio vegetale che stringe con le sue spire serpentiformi, come animato, i tre uomini che cercano di districarsene, opponendo una difficile resistenza. Ma alla movimentata disposizione, quasi baroccheggiante, dei tre personaggi maschili raffigurati in basso, con i corpi orientati in direzioni contrapposte che creano un drammatico dinamismo, risponde il sapiente costrutto, dallo schema triangolare, che chiude in alto la composizione, inquadrando la figura di Pandora tra i due elementi, oppostamente inclinati, del coperchio sollevato e del panneggio della sua veste, sospinto da un vento nefasto.
Una profonda tensione attraversa tutta la composizione, che per il suo pathos sembra quasi ispirarsi ai modi ellenistici, toccando il proprio culmine nel volto di Pandora, estremamente teso e insieme cupamente assorto, esprimendo con straordinaria efficacia i due distinti momenti interiori: quello dell’irresistibile curiosità che l’ha spinta a guardare dentro al vaso datole da Zeus, e l’altro della terribile consapevolezza del dramma sempiterno cui il suo atto ha dato inizio.
Alcuni elementi che connotano la scena del dipinto finale, come gli insidiosi serpenti e il velo agitato di Pandora, non sono presenti nella tavola preparatoria, la quale, tuttavia, possiede già molta della forza espressiva dell’opera completa che, per i criteri e i simboli che l’informano, va certamente annoverata tra le più significative eseguite del Pardo, rappresentando oltretutto l’unico dipinto che il pittore abbia dedicato ad un mito greco.
Ma occorrerebbe certo assegnare al Vaso di Pandora una diversa collocazione, sia perché l’opera appare maldisposta nell’angusto spazio parietale tra il basso soffitto a cassettoni e lo schienale della fila più alta dei seggi, sia per gli inconvenienti che il clima talvolta eccessivamente animoso del Consiglio municipale potrebbe provocare (come accadde nel gennaio 1992, quando la tela restò danneggiata nel corso di una convulsa seduta consiliare), sia ancora per il recondito collegamento, che sorge spontaneo, tra il soggetto del quadro, che ricorda le sofferenze inferte al genere umano a causa di una decisione sconsiderata, e il luogo in cui è posto (… dove talvolta si prendono decisioni non meno perniciose per la comunità cittadina!).
Una diversa energia emotiva, che si esplica ad un livello squisitamente interiore, anima invece la Madonna dei peccatori, nella quale il tema affrontato non è la dannazione della stirpe umana, ma la sua redenzione per mezzo della grazia salvifica del Cristo. L’opera, realizzata nel 1902 su commissione di padre Giuseppe Giarratano, e collocata nella chiesetta di San Bartolomeo in Castelvetrano, dove ancor oggi si trova, è un dignitoso dipinto ad olio su tela che rappresenta la Vergine Maria con in braccio Gesù Bambino che reca la croce, alla quale si accosta un uomo penitente e genuflesso.
Il complesso tema dell’escatologia cristiana viene originalmente svolto con una elaborazione di rara ariosità e limpidezza, pervasa da un sentimento di profonda umanità; particolarmente notevole, sul piano stilistico, è la resa dei personaggi, effettuata con realismo poetico pur entro un rigoroso impianto compositivo. Il risultato artistico conseguito appare tanto naturale da far quasi dimenticare il contenuto trascendentale della scena, appena richiamato dai quattro angioletti rappresentati intorno all’aureola di luce dorata che circonfonde la testa della Madonna, con i soli volti di celestiale candore sormontanti piccole e soffici ali.
L’esigenza di realizzare un’opera che risultasse immediatamente familiare ad ogni fedele deve aver inoltre consigliato al pittore l’adozione di un tipo iconografico molto frequente in stampe e in santini largamente diffusi, e che pertanto apparisse di pronta comprensione, cioè quello del Bambino Gesù con la croce, che si riscontra invece assai raramente nella grande pittura, essendo la croce il segno ultimo della Passione del Cristo.
Nell’opera Gesù Bambino è tenuto sulle ginocchia della Madre, la quale con la mano destra sorregge il suo braccino, aiutandolo a sostenere il peso della croce (con sottile allusione al suo ruolo di corredentrice), mentre con l’altra, posata delicatamente con le punte delle dita sulla spalla dell’uomo penitente, sembra accompagnare il moto interiore che lo porta ad inchinarsi devotamente al Redentore.
La composizione del dipinto configura quale vero protagonista proprio questo personaggio inginocchiato, verso cui convergono diagonalmente sia gli sguardi di Gesù e di Maria, sia l’asse verticale della croce, di cui egli afferra con la destra l’estremità inferiore per portarla alle labbra, posando la sinistra sul cuore in segno di pronta disposizione spirituale ad accogliere il dono dell’indulgenza.
Questa nobile figura barbata, che veste una camicia napoletana del tempo, con ampio colletto molle e lunghi polsini aperti, non solo mostra chiari influssi stilistici morelliani, sia nel raccolto intimismo che nella resa formale, ma, come ho potuto stabilire in base a precisi riscontri iconografici, raffigura proprio lo stesso Domenico Morelli, il celeberrimo artista partenopeo di cui Pardo fu allievo all’Accademia di Belle Arti di Napoli, e con il quale intessé un rapporto di profonda e ammirata amicizia. L’insospettata decisione del pittore di rappresentare il Morelli nella tela di San Bartolomeo si spiega con il suo vivo desiderio di rendere omaggio all’amato maestro, morto proprio l’anno precedente, il 13 agosto 1901, la cui arte era stata profondamente permeata dalla fede cristiana, così come appare riconoscibile in tanta parte della sua produzione artistica.
Il Morelli, infatti, trovò sempre nella dimensione religiosa una prorompente fonte ispiratrice, cui attinse in tutta la sua lunga e feconda attività, dai primi saggi in cui sviluppa temi veterotestamentari (David che col suono dell’arpa calma le furie di Saulle, Elia che rapito al cielo lascia il mantello ad Eliseo), alle ultime eleganti illustrazioni realizzate per la Sacra Bibbia di Amsterdam, edita in lingua olandese nel 1895. E certamente questa religiosità, coltivata non solo nell’ambiente familiare (la madre desiderava farne un ecclesiastico), ma fervidamente praticata in un’esistenza improntata a sincerità e a rettitudine, conquistò al maestro l’affetto e la stima non solo di Gennaro Pardo, ma anche degli altri insigni artisti con cui venne a contatto. Fu, fra questi, Vincenzo Gemito, cui si devono alcuni dei più riusciti ritratti del Morelli, particolarmente apprezzabili per la penetrazione psicologica del soggetto, come il pregevole busto in bronzo cesellato, eseguito nel 1873 e conservato nel Palazzo Zevallos Stigliano di Napoli.
Sia il Vaso di Pandora che la Madonna dei Peccatori invitano lo spettatore a compiere una profonda riflessione sull’esistenza terrena dell’uomo, carica di amarezze e di insidie, e sul suo destino ultimo, che sarebbe tragico senza il riscatto dal peccato garantito dal Redentore del mondo. Idealmente i due dipinti, pur eseguiti in tempi e per fini del tutto diversi, sembrano infatti sintetizzare in modo organico la concezione pardiana della vicenda umana, resa in entrambi i casi con efficacissime soluzioni formali e compositive, ricche di denso simbolismo, offrendo chiare e coinvolgenti visioni di compiuto significato.
In queste due opere trova altresì conferma la capacità di Gennaro Pardo di rendere nel modo stilisticamente più coerente e incisivo qualsiasi soggetto colpisse la sua immaginazione o gli venisse richiesto dalla committenza, che gli ha permesso di realizzare, nel fervido impegno di una vita interamente consacrata all’arte, una produzione d’inestimabile valore, il cui messaggio non è stato ancora del tutto compreso e apprezzato.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
________________________________________________________________
David Camporeale, laureato con lode in Beni Culturali Archeologici presso l’Università degli Studi di Palermo, ha conseguito presso la stessa università un Master in Esperto in valorizzazione e comunicazione museale del patrimonio culturale indoor e outdoor. È impegnato nella tutela e conservazione dei beni materiali e immateriali del suo territorio, promuovendone la migliore conoscenza e valorizzazione attraverso ricerche, pubblicazioni e iniziative didattico-culturali.
________________________________________________________________
Magistrale, l’invito di David Camporeale alla conoscenza del nostro insigne artista attraverso la lettura attenta delle sue opere.