Antropologhe e antropologi tentano da sempre di afferrare “testi” e saperi, strappandoli ai luoghi e alle persone che frequentano durante le loro ricerche sul campo, per poi decifrarli, ricodificarli, tradurli, travisarli, restituirli secondo forme e linguaggi diversi da quelli originari.
Ma cosa accade quando la pratica etnografica stessa, condotta in spazi aperti all’irruzione non sempre controllabile e addomesticabile del sacro, rende instabile lo statuto categoriale e scientifico comunemente attribuito a concetti come “religione”, “rituali”, “persona”? A quali “peripezie” va incontro l’etnografia quando la produzione della conoscenza esita di fronte allo stupore, all’estasi e alle contraddizioni propri di quei contesti in cui l’esperienza religiosa smarrisce la coerenza analitica con cui, nel sapere scientifico occidentale e post-illuminista (Asad 2003), essa viene ricondotta a un campo autonomo e definito dell’esistente? Questa perimetrazione istituisce una dimensione attraverso la quale potere (e dovere) entrare e uscire con chirurgica precisione, in virtù di garanzie che restituiscano il corpo alla sua ordinaria sovranità monadica e senza che vengano compromesse – o peggio ancora, alterate – le altre sfere della realtà sociale (e naturale) come la politica, le leggi della fisica e i principi della logica formale.
Ma se l’etnografia vincola ogni ambizione conoscitiva all’imbastimento di una relazione che dischiuda spazi ambigui di riconoscimento, comprensione e intimità (sociale, culturale, affettiva), cosa accade quando questa relazione coinvolge figure ed esperienze non ordinarie, destabilizzanti, indecifrabili? Quando l’“essere visti” da un operatore rituale (come le ukīla islamiche cui è affidata la responsabilità di una zāwiya, complesso che custodisce la tomba di un “santo” o di una “santa”) chiamato a mediare tra mondi ed esperienze apparentemente inconciliabili non è un’espressione atta a richiamare soltanto il piano dell’accettazione e del riconoscimento che consente a un antropologo di “stare” sul campo, ma evoca un registro che oltrepassa la visualità per penetrare e rendere trasparente l’interiorità del soggetto, le sue volontà, le sue paure, la sua storia (Di Puppo 2024)?
È quello che accade, ad esempio, quando tra ricercatrice e informatrice (volutamente declinate al femminile) «c’è Allah di mezzo; e tra Lui e noi c’è Sayyda Mannubiyya, che ci unisce e ci chiama», per impiegare le parole con cui l’autrice del volume che ispira questo contributo per Dialoghi Mediterranei ripensa al rapporto empatico e creativo che l’ha unita per anni a Jezya e Malika, ministre del culto delle zāwiya[ (1] di Manouba e Gorjani, dove sono presenti le due tombe di Sayyida al-Mannūbiyya, santa dell’Islam il cui corpo si sarebbe sdoppiato alla morte riflettendo la policentricità di una traiettoria agiografica nomade e in continua tensione tra luogo di origine (Manouba) e luogo di adozione (Gorjani). Ecco, forse in questi casi la produzione della conoscenza deve instradarsi su procedimenti sensoriali, esperienziali, incorporati e non solo intellettuali o metodologicamente lineari, rinunciando a ogni sguardo dall’ambizione endoscopica. Una vera e propria emancipazione da una «cornice logocentrica» che impedisce al corpo che siamo e abbiamo di
«entrare in accordo, in qualità di testimone, con nuove, spesso spaesanti irradiazioni di senso. Un corpo (il mio) mobilitato nello sforzo di decifrare gesti, suoni, voci, volti, di rispondere a quella che le donne che mi avevano accolto recepivano come “una chiamata” da parte della santa, senza occultare la mia soggettività ma al tempo stesso sottomettendo la scena etnografica a una intenzione di ascolto e a uno sguardo attento a cogliere i possibili spazi negoziali dei loro corpi-in-situazione» (Faranda 2024: 132).
Un’apparente resa che però può aprire il Sé all’esperienza di una presenza non umana, come nelle hadra, cerimonie rituali di matrice sufi in cui l’emanazione della presenza di Dio viene esperita sotto forma di rimemorazione (dhikr) e appercezione estatico-sensoriale affidate a tecniche codificate (come il canto o la danza) e a modalità iniziatiche di affiliazione. Nella tradizione sufi, peraltro, il cuore è la sede della conoscenza e della contemplazione divina, ultimo stadio di un percorso in cui fede e sapere sono indissociabili nel generare quella «dilatazione del petto» che, secondo al-Ghazali (450/1058), consente di “vedere” con la «luce della certezza», che è la luce di Dio [2].
Ho iniziato questo commento a Peripezie di una santa. Il culto di Sayyida ‘Ā’isha al Mannūbiyya nella Tunisi contemporanea, di Laura Faranda (edizioni del Museo Pasqualino, 2024) condividendo quasi “a caldo” alcune delle suggestioni evocate dalla lettura di questo intenso testo al quale l’autrice consegna una densa restituzione di una ricerca etnografica condotta tra il 2018 e il 2024 nei due mausolei di Tunisi in cui è attivo il culto di una santa islamica, Sayyida ‘A’isha al Mannūbiyya, verso la quale la devozione, prevalentemente femminile, è particolarmente solida e significativamente ancorata alle dinamiche intessiture politico-identitarie di questa parte di Maghreb.
Il libro si articola in quattro capitoli: alla presentazione dell’agiografia della santa, ripercorsa intrecciando le fonti scritte dei manāqib e quelle orali raccolte dall’autrice o richiamate in precedenti lavori etnografici (cap. 1), segue la puntuale descrizione delle pratiche rituali che hanno luogo nelle due zāwiya della santa, a Manouba e a Gorjani (cap. 2), entrambe ricadenti nella Grand Tunis. Successivamente (cap. 3) sono approfondite le traiettorie biografiche e le testimonianze di devote e devoti che hanno consacrato la propria vita a Sayyida Manūbiyya, nell’ambito di una relazione mistica mai lineare nella sua maturazione e che è insieme scelta ed elezione, emancipazione, vocazione e obbligo di fedeltà. Legarsi ad essa passa per l’abitare un mondo incantato e popolato di entità spirituali, le rūhāniyyāt, presenze benevoli che esigono posture etiche e azioni ritualizzate che non possono non essere ottemperate.
L’irruzione della santa nelle vite delle devote è suggellata da visioni oniriche e segnalata da incursioni corporee che producono e revocano condizioni di sofferenza, disagio e disordine, ponendosi al tempo stesso come sintomo e antidoto, autorizzando un inquadramento del rituale (e dell’intero edificio cultuale) come dispositivo di cura e terreno di confronto e negoziazione con il male (cap. 4), senza però riprodurre la rigidità di griglie nosografiche monolitiche. Infine, e prima del prezioso glossario finale, l’appendice curata dall’etnomusicologa Sara Antonini integra felicemente le note etnografiche presentate nei precedenti capitoli con la documentazione dei canti di lode (madhat) dedicati alla santa e la descrizione puntuale delle attività coreutiche che caratterizzano gli eventi rituali.
La frequentazione prolungata di persone, pratiche e spazi ai quali ci conduce pazientemente l’autrice ed esposti all’esperienza di un transito continuo tra dimensioni ordinarie e non ordinarie dell’esistenza, laddove l’azione rituale media la corrispondenza tra la silenziosa espressione di voci “interiori” e la convocazione di “invisibili” compagni di viaggio negli snodi critici dell’esistenza (stati di malattia, condizioni problematiche, eventi traumatici), motiva l’enfasi con cui ho messo in risalto, all’inizio di questo scritto, la singolarità di un’esperienza di ricerca che tuttavia non tradisce alcuna velleità esotizzante, né cade nella tentazione di consegnare gli scenari devozionali attivati dal culto tributato alla santa in un tempo/spazio radicalmente altro, fuori dalla storia delle donne e degli uomini, congelato in una allocronia folklorizzata e reificata.
Pertanto, sono molte le domande, le ipotesi e le questioni che il volume pone, dal momento che vede la luce a distanza di oltre un decennio dall’avvio di un percorso di studi e ricerche in Tunisia (dall’indagine sulla mobilità nord-sud e sui processi di invecchiamento tra Italia e Tunisia fino alle forme di religiosità emergenti dopo le Primavere Arabe) che ha portato Laura Faranda a stringere relazioni accademiche oggi ben consolidate con diversi centri universitari del Paese nordafricano. Allo stesso tempo, molteplici sono le piste interpretative che il libro suggerisce. Alcune di queste, come il raffronto storico-comparativo tra figure ed espressioni del sacro in area mediterranea, snodo teorico cui Laura Faranda ha dedicato diverse opere incentrate sull’antropologia del mondo antico imbastendo un dialogo di ormai lunga durata con l’opera di Ernesto de Martino, non verranno approfondite in questo contributo, rinviando direttamente all’accattivante trattazione offerta dal volume. Ciò su cui invece mi soffermerò, richiamando ulteriori e tangenziali piste di indagine, sarà la dimensione intimamente politica degli scenari cultuali e rituali inscritti nella devozione a Sayyida Manūbiyya e la valenza terapeutica di un confronto con il sacro lungo il crinale in cui il confine tra salute e malattia, mistica e scienza, ragione e follia si fa labile e opaco, suggerendo la prolificità delle prospettive teorico-applicative antropologico-mediche richiamate nel testo.
L’Islam dei santi (e delle sante)
Dopo la Primavera del 2010-2011, sui cui attuali infelici esiti ci siamo già soffermati proprio su Dialoghi, la Tunisia è stata oggetto di una mole non indifferente di studi e ricerche, rivolti alla tentata democratizzazione del Paese, all’apertura di spazi (politici e intellettuali) finalmente praticabili dopo la caduta del regime di Ben Ali e, soprattutto, alla possibilità di investigare in vivo la ricomposizione politica in atto sullo sfondo di una coraggiosa, complessa e per certi versi drammatica riscrittura collettiva delle regole del vivere associato (la nuova Costituzione del 2014, la riammissione al gioco democratico dei partiti islamisti dopo decenni di messa al bando e repressione, l’emergenza di un pluralismo fino ad allora respinto dalla retorica trionfale dell’unanimismo à la tunisienne, la libertà ritrovata del “dire” e del “fare”). Tutto ciò ha fatto sì che numerosi studiose/i si dedicassero al più piccolo Stato del Nord Africa, in precedenza relativamente trascurato dal dibattito scientifico, pur con alcune notevoli eccezioni. Più e meno giovani studiosi/e hanno comprensibilmente rivolto un’attenzione particolare alla dimensione politica, indagata perlopiù mediante approcci socio-politologici dalla prospettiva dei movimenti sociali e dell’attivismo anti-razzista, indagando le trasformazioni del panorama partitico e sindacale, fino a comprendere il rapporto tra religione e politica alla luce della riscrittura della carta costituzionale e del compromesso tra preservazione dell’identità religiosa e garanzia delle libertà fondamentali offerta dal diritto.
Sebbene possa sembrare distanziarsene in ragione della peculiarità del tema affrontato, credo che il libro di Laura Faranda vada considerato parte integrante di questo paesaggio scientifico e intellettuale in quanto offre uno sguardo su uno spaccato sociale che rischierebbe altrimenti di essere trascurato o peggio ancora considerato residuale rispetto a una contemporaneità che certo non si esaurisce nelle pur centrali dinamiche istituzionali facenti capo al presidente Saïed o agli accordi tra Italia e Tunisia o, ancora, ai processi sociali messi in moto dalle periodiche proteste che divampano nelle regioni centrali del Paese riuscendo talvolta a confluire nella capitale. Accanto a tutto questo, comprendere la storia e il presente richiede di non adottare posture larvatamente moderniste, sussiegosamente volte ad attribuire statuto reliquale a dinamiche non valutabili sposando le retoriche della modernità liberale e di un avulso razionalismo.
Ciò che si consuma nelle anguste celle di un mausoleo tra donne in procinto di cadere in stato di trance non è meno indicativo, rispetto alla magmaticità di cui ci interessiamo, di quanto accade nelle luminose stanze del palazzo presidenziale di Cartagine. Del resto, Clifford Geertz scriveva che «i piccoli fatti parlano ai grandi problemi», e se vi è qualcosa che l’antropologia può fruttuosamente tentare è guardare alla vita sociale, alla politica e alle istituzioni – nella loro articolazione diacronica e nel presente – da prospettive assolutamente originali, nemmeno prese in considerazione da altre discipline [3]: lo svolgimento degli scambi il giorno del mercato in una regione sahariana transfrontaliera, la frequentazione omosociale di un caffè alla periferia di una grande città araba, le acque contese da motopescherecci battenti bandiere diverse nel Mediterraneo centrale, le pratiche devozionali e il culto dei santi nelle zāwiya del Maghreb. E che la zāwiya di Sayyida Mannūbyyia sia stata oggetto nel 2012 di un attacco incendiario da parte di frange fondamentaliste, per le quali il culto dei santi è bid‘ah, ovvero una pratica “innovativa” rea di distorcere l’autentico messaggio dell’Islam consegnato all’autorevolezza delle fonti, suggerisce che tali dinamiche posseggono ancora qualcosa di importante da dirci, allo stesso modo della chiusura improvvisa della zāwiya di Gorjani da parte delle autorità tunisine intervenuta lo scorso anno per ragioni poco chiare. Religione e pratiche rituali rappresentano una parte non secondaria della posta in gioco nei processi sociali e politici contemporanei, tutt’altro che amene curiosità da etnografi annoiati.
“Popolare”, “mistico”, “riformista”, “modernista”, “fondamentalista”. E ancora, “confraternale”, “ortodosso”, “urbano”, “tribale”, “tradizionale”, “maschile”, “femminile”. Sono, questi, alcuni degli aggettivi ricorrenti in una letteratura (socio)antropologica che almeno nell’ultimo secolo si è affannata a definire, incasellare e perimetrare l’Islam maghrebino. Tale convulsione classificatrice (Kerrou 1995), spesso polarizzata intorno a coppie oppositive incaricate di dare la stura a modelli esplicativi idealtipici della società maghrebina, rivela oggi le strettoie e i passaggi a vuoto di una sociologia dal sapore orientalistico, non pienamente emendata dei suoi tratti reificanti e implicitamente evoluzionisti, ossessionata dall’impulso a catturare e imporre una disciplina (etnografica e implicitamente coloniale) a paesaggi politici mobili, franosi e indocili. Da questa prospettiva, è emblematico il nesso tra ruolo politico della santità e configurazione segmentaria dell’organizzazione sociale alla cui comprensione una parte rilevante dell’antropologia del Maghreb è stata storicamente votata (Gellner 1969; Albergoni 2003). Tale nesso, a sua volta, è stato sussunto nella modellizzazione della relazione dinamica (ora di contrapposizione, ora di alleanza) tra organizzazione “tribale” e governo (o Stato) – ovvero tra bilad as-siba (terra dell’insolenza) e bilad al-makhzen (terra del governo), secondo l’espressione resa popolare da Robert Montagne (Fabietti 2011). È proprio la presenza di santi e zāwiya, uomini e poli di mediazione politica, ancoraggio territoriale e identificazione sociale che, secondo Gianni Albergoni, consente di «oliare gli ingranaggi della meccanica segmentaria» (2003: 18) africanista, individuando nel culto dei santi maghrebini un tratto essenziale nella reciproca e conflittuale relazione tra Stato e gruppo “tribale”, «due forme di organizzazione politica antitetiche in principio ma imbricate nella realtà» (ibidem).
Più che respingere la produzione teorica di tali griglie concettuali, la cui validità potrebbe essere attestata anche in tempi recenti (Hénia 2015), ciò che qui preme sottolineare è semmai la facilità con cui una certa tradizione socio-antropologica ha stabilito con eccessivo agio un’equazione univoca e meccanica tra tipologia di Islam e modello politico e sociale. Una coerenza strutturale, da conferire a società ancora oggi descritte sempre sul punto di piombare nel caos, che nello sforzo di tratteggiare fisionomie limpide e durevoli espunge le zone interne di opacità e refrattarietà a ingabbiamenti categoriali.
Ma l’abbondanza di definizioni e modelli esplicativi rivela anche altro: l’enigma categoriale – politico e culturale – rappresentato dall’Islam del Maghreb, oggetto sfuggente stretto tra l’universalità di una Rivelazione dall’ambizione extraterritoriale ed extragenealogica (Amiras 2011) e la stratificazione di confluenze politico-culturali che rendono il Maghreb uno spazio intimamente plurale nonché interstizio geografico ed epistemologico (Khatibi 1983) la cui rarefazione compiuta dai progetti moderni di costruzione nazionale non può che risultare costitutivamente incompleta e inevasa (El Guabli, Jarvis 2018).
Già la proto-etnografia di autori orientalisti come Edmond Doutté (1867-1926), risalente ai primi anni del Novecento, eleggeva l’Islam maghrebino a terreno di «incessanti contaminazioni storiche, di scambi, di sincretismi e adattamenti» (Faranda 2012), riconoscendo l’apporto di elementi culturali rinvenuti nella pratica magico-religiosa e negli etnosistemi medico-terapeutici riconducibili a uno spettro geo-temporale mediterraneo esteso e profondo.
Oggi l’antropologia dell’Islam si sofferma su molto altro: ad esempio, come il senso di tradizioni globali si condensi in pratiche e significanti contestuali, l’Islam “quotidiano” osservato nelle traiettorie contorte e contradditorie dell’ortoprassi messa in pratica da devoti ordinari, le forme contemporanee di pietà islamica, spiritualità e religiosità presi tra individualità del consumo devozionale e nuove cornici comunitarie. La scala entro cui vengono condotti ragionamenti e ricerche sembra essersi ridotta, così come la pretesa di individuare nell’Islam la pietra angolare da cui esaminare la società nel suo complesso. Ma il libro di Laura Faranda ci invita a non assumere apoditticamente alcuna dicotomia e di cogliere appieno la possibilità che il “terreno” offre per rigenerare griglie analitiche e concettuali.
Senza nemmeno tentare, in questa sede, di trattare la liceità della traduzione di termini arabi come wali o sidi in “santo” o di esaminare le “somiglianze di famiglia” tra la nozione cristiana e islamica di santità, è evidente che la plasmazione femminile della baraka (la forza, la grazia, la benedizione divina elargita da Dio) meriti un’attenzione tutta particolare, tanto più se consideriamo l’alto valore di mediazione politico-sociale assegnato a tali figure. Già l’agiografia di Sayyida Mannūbyyia, restituita nel primo capitolo del volume, ci avvicina a un percorso esemplare e al tempo stesso fitto di aporie, quelle corrispondenti allo statuto di una donna nata a Manouba nel XII secolo, in preda all’erranza mistica già all’età di dodici anni, refrattaria a vincoli e accomodamenti matrimoniali stante la sua perturbante bellezza che assegna carattere di erotismo al suo percorso ascetico e portatrice di una conflittualità sociale evidente nella predilezione di soggetti vulnerabili, marginali, oppressi, immessi sul cammino di Dio.
Benché non unica “santa” nell’Islam, non c’è da sorprendersi che il culto di ‘Ā’isha Mannūbyyia incarni al massimo grado gli emblemi e le contraddizioni di una tradizione spartiacque tra politica a religione in un Paese in cui, da una parte, i corpi dei santi vengono custoditi e venerati nella medina di Tunisi e il giorno del Mawlid (in cui si celebra la nascita del Profeta Mohammed) le più alte cariche dello Stato si recano in pellegrinaggio presso le maggiori confraternite di Tunisia mentre, dall’altra, la recente reviviscenza di espressioni e tradizioni islamiche letteraliste e intransigenti come il neo-salafismo contestano radicalmente, e talvolta violentemente, le prerogative mistiche e politiche di cui sono investite tali figure sante. Sullo sfondo di queste tensioni, affiorano oscillazioni e contese identitarie circa il carattere “tunisino” o “importato” di questa o quella modalità di rapportarsi al sacro e, di conseguenza, sul rapporto tra modernità, conservazione e manipolazione della tradizione.
Attraverso il disordine
Spazi di culto pregni di distintività femminile, nelle due zāwiya esplorate dall’autrice la devozione alla santa non soltanto ratifica una divisione rituale che si articola secondo la linea del genere e che tradizionalmente proprio nella prossimità (fisica e spirituale) ai poteri benefici di un santo vede addensarsi la componente femminile della comunità religiosa, ma autorizza una sapienza e una maestria rituale per una volta emancipate dal controllo maschile cui viene generalmente demandata la conduzione delle hadra negli incontri confraternali sufi e capaci di incanalare la mistica fuoriuscita da Sé che segna la presentificazione del divino e il congiungimento alla santa.
Affinità sorprendenti tra la narrazione della vita della santa e le traiettorie esistenziali delle sue devote emergono peraltro nella sezione che l’autrice dedica alla restituzione delle testimonianze delle donne che affollano questi mondi devozionali. Prima di esaminare la portata terapeutica con cui dispositivo rituale e narrazione assolvono nella presentazione di queste voci “interiori” che «schiudono la porta al “numinoso”», non può non essere sottolineata un’ulteriore corrispondenza, puntualmente richiamata nel testo.
Se il culto dei santi definisce una specifica configurazione dell’infrastruttura sociale islamica, è alla circolazione della baraka che spetta l’irradiazione di una qualità insieme divina e politica. Santi e shaykh percorrono traiettorie lungo le quali disseminano la baraka, effondono conoscenza (si pensi alla nozione medievale di riḥla), stringono e consolidano alleanze, contrassegnano un territorio (una città, una regione, un quartiere) del marchio dell’affiliazione a una ṭarīqa (confraternita) in virtù di una genealogia che collega il santo a un luogo (e a uno o più gruppi) e che spetta al viaggio riaffermare pubblicamente. Questa mobilità religiosa lega divino e politica, interiorità e socialità, e ad essa è affidato il mandato di una regolamentazione sociale che gli Stati nazione sono riusciti ad accomodare, senza respingerla, nella loro ascesa. Laddove le donne sono largamente escluse da questa mobilità (e dalle prerogative politiche ad essa associate), ecco che il culto delle sante e la devozione femminile presentano forme alternative e surrogate di viaggio. Si tratta di itinerari pellegrinali talvolta reali ma molto più spesso mistici. Una geografia dell’erranza che conduce le donne “iniziate” (nonché l’unico testimone di genere maschile di cui facciamo conoscenza nel testo) da un capo all’altro del Maghreb e anche oltre, guidate da shaykh e ruhāniyyat che ne alimentano l’affiliazione a santi e ordini confraternali. Questi viaggi eccedono il registro della visionarietà per imbastire piuttosto connessioni significative con il tormentato cammino interiore che iniziate e iniziati avvieranno ponendosi al servizio di Sayyida Mannūbyyia. Inoltre, schiudono prospettive femminili per l’istituzione di legami di parentela di segno spirituale.
Se la genealogia rappresenta tradizionalmente un ambito di formalizzazione del privilegio e del potere maschile sotto forma di una catena di ascendenti collocati nella linea continua di padri (nasab) (Arena 2011), le filiazioni spirituali attivate dal culto e dai viaggi mistici delle iniziate compongono alter-lignaggi, declinazioni femminili dei legami sociali conseguite attraverso il sacro. Affiliarsi a un santo o a una santa, rapporto espresso poi nella predilezione per un determinato repertorio coreutico-rituale nelle ḥadra eseguite nelle zāwiya, rivela al contempo la trasmissione familiare di legami a figure sante e a territori, come quando è un(a) parente a instradare la connessione al wali o il richiamo esercitato da specifiche configurazioni eco-spirituali – il mare con le sue entità, Bahriyyāt o il sud, crocevia di confluenze trans-sahariane. L’affiliazione a Sayyida Mannūbyyia come alle altre entità richiamate nel testo comporta il riconoscimento di «un sistema di filiazione devozionale antecedente, solitamente ereditato in linea materna» che vincola le devote a santi, territori e identità, ma anche l’ingresso in reti sociali confraternali che possono essere segno di autonomia, emancipazione, ricerca della “propria” via del sacro. L’equilibrio tra individualità e legami conferma, nelle peripezie esistenziali delle affiliate, come nei processi di soggettivazione (religiosa) l’agency non espunga affatto il “sociale”, ma si innesti, attribuendovi nuovo valore, sulla relazionalità sociale e genealogica entro cui ogni persona prende forma.
La sezione dedicata alle testimonianze delle devote – racconti che “in-cantano” richiedendo a chi ascolta un’attitudine empatica perché possano assolvere a una funzione di tipo terapeutico – restituisce la fibra di un posizionamento etnografico originale e ben calibrato. Queste pagine conducono allo snodo teorico principale del testo, ovvero l’inquadramento della tradizione (il culto dei santi così come la consegna disciplinata ai rituali di trance) all’interno di un dispositivo chiamato a confrontarsi con la crisi, a negoziare con il male, a proporre itinerari di guarigione, senza però riprodurre quell’irrigidimento nosografico intorno al linguaggio della medicina e della psichiatria occidentali che rinsecchirebbe la polifonia dei segni e dei registri che accompagnano il dispositivo cultuale e rituale.
Chi sono dunque queste donne affiliate a Sayyida Mannūbbyia, in grado di sentire voci che altri non odono, che posseggono il dono di una visione in cui la chiaroveggenza si sovrappone allo stato non ordinario di coscienza, che affidano al rapimento mistico di una santa islamica la canalizzazione ritualizzata di criticità individuali e stati melanconico-depressivi costellati di sofferenza, pulsioni suicidarie, infelicità, disordine sociale e disgregazione familiare?
«Voglio dirti una cosa: questo stato da voi si chiama depressione. Ma che cos’è che genera la depressione? Che cosa ti fa passare la voglia di vivere, ti dà pensieri brutti? Sono forze esterne che tu non controlli», chiede l’ulika della zāwiya di Manouba, Malika, all’autrice nel corso di un’intervista, evocando la complessità di scenari nei quali «l’efficacia terapeutica» e la comunicabilità del dolore passano per un «processo di formazione riconoscibile dal gruppo», in cui «la guarigione passa spesso per altre vie» e «richiede altre modalità di consultazione».
Richiamando l’invito junghiano a considerare «mana, demone e Dio […] sinonimi dell’inconscio», Laura Faranda rifiuta di considerare le componenti delle zāwiya come “pazienti”, e ci chiede di accogliere fino in fondo la sfida posta da condizioni, esperienze e soggetti che si fanno «testimoni di una soggettività specifica che rinvia alle determinanti culturali entro cui prendono corpo metafore, similitudini, figure retoriche del processo di raffigurazione di una qualsiasi condizione di sofferenza umana».
Le pagine finali di Peripezie di una santa sembrano suggerire che le forme contemporanee del culto di Sayyida ‘Ā’isha Mannūbyyia possano rientrare in un progetto ininterrotto di riaffermazione della presenza umana; un progetto nel quale all’enigma della santità è affidato l’antidoto ai sortilegi e ai «feticci dell’ipermodernità», ai suoi “spaesamenti” conturbanti e patogenici. Da questa prospettiva, il libro esplora dinamiche religiose ampiamente trattate nella letteratura specialistica approfondendone la sua struttura più intima ed esistenziale ma non per questo meno rilevante sotto il versante sociale e comunitario. Di fronte alla descrizione di contesti cultuali e forme rituali apparentemente antitetiche all’aspirazione alla modernità che il “nostro” immaginario maghrebino condivide con alcune declinazioni razional-fondamentaliste dell’Islam contemporaneo, si sarebbe tentati di chiedersi, sulla scorta di Jean Rouch, se queste donne non conoscano invece rimedi che le consentono non già di essere “anormali” ma di integrarsi perfettamente al loro ambiente e alle loro inquietudini esistenziali. Rimedi che noi non conosciamo ancora.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Tale trattazione è contenuta in particolare nell’opera Ihyâ’ ‘ulum al-din, redatta probabilmente tra il 1096 e il 1103. Cfr. la sezione Le meraviglie del cuore (Kitâb ‘ajâ’ib al-qalb) nell’edizione curata da Ines Peta (Torino, Il leone verde, 2006).
[2] In questo testo ho mantenuto indistinta la traslitterazione dei termini arabi tra singolare e plurale.
[3] In modi diversi mi sembra che questo sia quanto sostiene Michael Herzfeld rispetto allo studio antropologico dello Stato, della politica e delle istituzioni.
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Giovanni Cordova, ricercatore in antropologia culturale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Negli ultimi anni ha condotto uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera (2023) e per le edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” L’approdo e l’assedio. Prospettive mediterranee tra solidarietà e conflitti (2024).
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