di Nino Pillitteri
Via si parte, destinazione Samarcanda, Uzbekistan. Ore 05,40 Aeroporto Falcone e Borsellino, ore 09,30 Fiumicino, ore 11,30 per Abu Dhabi con arrivo ore 19 circa. Tutto fila liscio. Decidiamo che possiamo investire le sei ore a girare in autobus e cercarci un ristorante. Appena fuori dall’aeroporto, i 56° serali con tasso di umidità spaventoso non mi permettono di indossare occhiali da vista, ci ho provato più volte ma niente non si può, si appannano le lenti. Città dai grandi spazi con palazzoni anche avveniristici, una città vuota di gente che gira in enormi macchinoni e tra negozi con aria condizionata a 18°, sceicchi dalle candide tuniche di lino bianco portano al braccio pacchetti di Dolce e Gabbana. Nessun uomo in pantaloncini corti o con tatuaggi visibili. Il ristorante eccellente.
Per Samarcanda il check in è solo fisico. Dalla fila mi rendo conto che i viaggiatori sono un po’ diversi dai voli precedenti, forse più semplici, con sopracciglia molto folte e parecchi con denti d’oro, già le facce raccontavano le persone. Turchi e mongoli contemporaneamente. Come se il DNA avesse preso per tutti il 50% dei caratteri somatici. Interessante. Il volo della durata di quasi quattro ore è stato allietato da bande di bambini che scorrazzavano su e giù per il corridoio dell’aereo.
Al controllo passaporti, non serve un visto per turismo, mi viene requisito l’accendino bic e gettato in un cestone. La poliziotta che parla solo russo e uzbeko mi porge un pacchetto di fiammiferi dalla grafica russa anni ‘60. In aeroporto prendo una scheda telefonica con 20GB per 8 euro e un tizio mi fa scaricare l’App per cellulare TaxiOk, una sorta di Uber uzbeka per prenotare taxi a prezzi ridotti.
Prenoto subito il mio taxi e in meno di un minuto è arrivato. Samarkand Travel Hotel a Tursunova Street 127, Samarkand. 20 min di tragitto per 2 euro. L’hotel è gestito da una famiglia che si alterna alla reception. Parlano tutti russo e uzbeko tranne il figlio che ha studiato inglese, forse al liceo, molto scolastico ma efficace. Camera grande e con tutti i confort, una doccia e via verso il Registan l’enorme piazzale con tre Madrasse, cuore della dinastia Timuride, del periodo di Tamerlano.
La madrassa Ulugh Beg, inizi del XV sec., centro della scienza secolare ma anche università del clero orientale, contornata da alti minareti, deve il nome al nipote di Tamerlano, grande studioso di geometria e astronomia. Assieme alla madrassa Sher-Dor e la madrassa Tilya-Kori racchiudono un’area, come dimensione, di 2-3 stadi di calcio. Il colpo d’occhio è formidabile. Il blu delle cupole indaco mi lascia senza parole. Mi siedo ad ammirare da un angolo della piazza tutto l’insieme rapito da un refolo di aria calda per un paio di ore.
Scendo dalla Tashkent road verso la Moschea Bibi Khanym per arrivare al mercato di Syob Bazar ma veniamo tirati dentro un ristorantino da una signora corpulenta e volitiva che ci impone di pranzare li. Il posto è ombreggiato, all’aria aperta, è quasi la una, va bene restiamo. Il menu in cirillico prevede Somsa, Shuba, Osh e Takdir. Somsa è un raviolone di pasta sfoglia ripieno di ragu e verdure: Shuba è un’aringa con insalata ed insalata russa, Osh o Plov un capolavoro, riso pilaf cotto in un intingolo di carne con peperoni, uvetta. Scegliamo questo, due piatti e dividiamo un somsa e dell’acqua. Pago 48000 SUM cioè 3,70€ in due. La signora assieme alla figlia, come tanti altri nel loro massimo splendore nella lingua inglese, ci chiedevano “What’s you name? Where do you came from?”, Italy, rispondevo. Italy … America? No, no America, Europa. Facce spaesate. E io: Marco Polo. Subito si accendevano in un sorrisone. Venezia, rispondevano. E io yes, yes near…
Come racconto il mercato di Samarcanda? Troppo complicato, immaginatelo, buona parte al coperto vi si compra di tutto, erbe, spezie, galline, tessuti, abiti… una città nella città. Andateci che è meglio per rendersi conto di persona. I giorni a seguire tra la Necropoli Shah-i-Zinda, un labirinto di maioliche blu e intarsi nella pietra a nido d’ape, Osservatorio astronomico di Ulugh Beg, Museo Afrasiab, ristorantini, aperitivi Mojito analcolico, tra quartieri ristrutturati durante il periodo sovietico che coprivano quartieri zaristi, nati su macerie dei sultani delle scorrerie di Tamerlano, la distruzione precedente di Gengis Khan, il filo conduttore è la seta. La via documentata dal viaggiatore Polo ma percorsa da millenni da carovane che dalla Mongolia percorrono la cosiddetta via della seta, che è anche via di pietre dure dall’India, stoffe, spezie dalla Cina e sale, minerali per caravanserragli attraverso deserti, catene montuose e valichi e mari fino a noi.
Samarcanda ha subìto una grande trasformazione culturale durante il periodo stalinista e certi quartieri non tanto periferici mi ricordano Mosca. Lasciamo Samarcanda per Bukhara con un treno veloce. Ci ritorniamo tra otto giorni da Khiva. Bukhara si raggiunge in poco tempo, circa un paio di ore. La città non ha una stazione che entra nel centro abitato e dista 15 km. I sovietici durante una prima occupazione preferirono allestire un aeroporto militare in città e lasciare il treno distante, anche per non farla diventare un centro turistico.
Il nostro hotel è vicino ai bastioni che cingono la città in una fortificazione che abbraccia con mura alte più di 20 metri e dai possenti contrafforti e torrioni, castelli e caravanserragli attorno mentre il centro storico è costituito da madrasse, una dietro l’altra fino al minareto Kalyan, uno dei più alti edifici di tutta l’Asia centrale, si dice, per la sua imponenza risparmiato dalla forza distruttrice di Gengis Khan.
Il centro è un vero gioiello ed è patrimonio dell’umanità, chiuso alle auto la sera si riempie di una folla composta che prende il gelato con i nonni e gruppi familiari molto variegati. Zigomi alti o guance scarne e scure, anche qui è forte il miscuglio etnico mongolo e turco.
Le madrasse principali Char Minar, Kukeldash, Nadir Divanbegi, Abdoullaziz Khan, Ulugh Beg forse la prima ad essere realizzata dal timuride scienziato. Mi godo dalle scalinate di Ulugh Beg la vista sul minareto. Un bambino fa un dispetto alla sorella e le tira il cono gelato che finisce a terra. La sorella, di qualche anno più grandetta, paziente lo raccoglie con la mano, ricompone il cono su cui soffia per togliere la polvere e lo porge al fratellino che riprende a leccare.
Souvenir di medagliette russe, matrioske e cappelli pastun in lana di cammello, l’Afganistan è a pochi chilometri a sud. Non lo prendo il cappello, c’è troppo caldo. Prendo dei foulard in seta per fare dei regalini. Uomini giocano a Tavli o backgammon in alcuni angoli all’ombra, bambini giocano a palla e giovani studentesse fermano per un selfie Marina che si concede ad intere scolaresche femminili o a signore che al volo vogliono uno scatto con lei.
Bukhara fuggì via da noi forse troppo in fretta o i giorni duravano troppo poco; fatto sta che nel nostro hotel, un caravanserraglio a pianta ottagonale in pietra perfettamente conservato, dalle camere a volta a vele con decori a mosaico e tappeti bukhara a terra, dopo due sere avevamo fatto amicizia con viaggiatori polacchi e un paio di australiani che giravano l’Asia centrale in moto, si beveva tchai, il the con la foglia di menta e molta acqua. Misha, figlio della proprietaria, pigro e sempre sudato e stanco, si riprendeva al calare del sole e iniziava a preparare il tchai. Il vento caldo soffiava sulla faccia come un phon a massima potenza e verso mezzanotte abbiamo preso il treno notturno con cuccette per Urgench e Khiva.
Verso le 7,30 eravamo arrivati nella capitale della provincia del Khorezm ma la temperatura era salita. Chiamo un taxiOk e in pochi minuti attraversiamo la porta sud dei muraglioni dell’Itchan-Qala di Khiva, il primo sito in Uzbekistan ad essere iscritto tra i Patrimoni dell’umanità nel 1991. Secondo il mito, sarebbe stato Sem, figlio di Noè, a fondare la città. Da piccola città fortezza del VII sec. e poi centro commerciale sulla via della seta tra il XIV e XVI secolo, diventa capitale del mercato di schiavi, viene presa dai russi nel 1717 ma ben presto risorge e continua i suoi traffici con alti e bassi fino al 1920, anno in cui è inglobata nell’Uzbekistan al confine del Turkmenistan.
La maggior parte dei monumenti della città si trovano all’interno delle mura di Itchan Kala che è anche patrimonio UNESCO. Polvonnazir Guest House in Pakhlavon Makhmoud 15 è la nostra base. A colpirci è la terrazza da cui si domina una città che avevo visto solo nel cartone animato di Aladino. Sembra quasi strano, non ci siano tappeti volanti. Una muraglia a serpentina, alta tra 15 e 20 metri, cinge l’Itchan, e tutto il cuore della città è costituito da case, palazzi, strade, moschee e minareti realizzati in mattoni ocra a crudo che danno una colorazione ocra a tutto, interrotta da cupole di maiolica verde e blu. Qua e là delle strane mattonelle a forma verticale di farfalla di maiolica verde intenso. Chiedo ad una signora nel mio russo elementare. In quella casa vivono zoroastriani mi dice. Mi piace quella piastrella. La troverò poi in una madrassa dove realizzano ceramiche. Nessun uomo in calzoncini corti o con tatuaggi al polpaccio anche qui. La signora Soraya dai denti d’oro gestisce col marito la piccola pensione. La figlia sui sedici anni invece è una delle poche persone che parla un ottimo inglese e fa sempre da interprete. Ma con Soraya si parla con gli occhi: gestisce anche un negozio di ceramica e seta di fronte. Prendo altra seta per pochi euro, altri regali a nipoti. Poi vuoi mettere, un foulard di seta per la moto che t’ha portato lo zio Nino da Samarcanda?
Nei tre giorni previsti a Khiva prendiamo la card che ci permette di entrare ed uscire dalla muraglia di cinta cittadina e valida per le decine di monumenti, madrasse, mausolei e moschee. Pochi i turisti, la meta non è ancora battuta dal turismo di massa, forse per via del clima caldo torrido. Di giorno andiamo in giro solo noi e la sera abbiamo scoperto un ristorante, La Terrasse, che domina anche la Zindan tower e la piazza del Kòhna Ark. Alla Terrasse incontriamo ad un tavolo vicino un paio di viaggiatori fiorentini, un medico e un musicista. Hanno prenotato un taxi per il giorno dopo che li porta nel deserto del Kyzylkom a visitare fortificazioni e caravanserragli e villaggi di yurte. L’autista vuole 50 euro da noi quattro, prevede anche una sosta al lago Akhchakol, ultima riserva di acqua prima del deserto del Kyzylkom nella regione del Karakalpakstan in cui si parla una lingua particolare.
Toccare i finestrini dall’interno dell’auto già di buon mattino rende l’idea dei 40 gradi e forse più di differenza termica con l’esterno. Tutto d’un fiato si arriva ad Ayaz Kala dove si trovano i resti di grandi fortificazioni costituite da bastioni, caseggiati per ufficiali e grandi piazze d’armi per accampamenti militari. Lo sguardo si perde all’orizzonte di questa collina di una cinquantina di metri sul deserto disseminato qua e là da piccoli arbusti secchi, popolato di notte da varani e lupi. Dino Buzzati nel suo Deserto dei tartari avrà pensato ad un posto del genere come luogo fisico.
Dopo circa un’ora proseguiamo per Toprak Kala con la sua cinta muraria, capitale dell’impero Kusano, le rovine sembrano disciolte ma si scorge la cosiddetta camera reale del trono ed un tempio zoroastriano. Una spedizione archeologica russa verso il 1940 porta alla luce ciò che resta della città per nulla protetta da recinzioni o da intemperie. In effetti sta lì da duemila anni cos’altro può capitarle?
Siamo a corto di acqua e verso Kyzyl Kala ci fermiamo ad un minimarket presso un paesetto che mi ricordava San Carlo nei pressi di Burgio. Un ragazzino con la maglietta della Juventus ci porge acqua fredda. Proseguiamo verso Kyzyl Kala, una imponente fortificazione ben restaurata durante gli scavi del ‘40 ma troppo piccola come fortificazione militare. Forse più un palazzetto nobiliare con piccola guarnigione al seguito. Si intravedono diversi stili, anche questa costruzione creata nel I sec d. C poi abbandonata e quindi restaurata come difesa poco prima dell’invasione di Gengis Khan. Ritorniamo che è già sera e domani si torna in treno a Samarcanda dove devo ancora visitare l’osservatorio astronomico di Ulugh Beg.
Il treno senza aria condizionata e dai finestrini sigillati sotto un sole che prometteva 62-64° attraversava buona parte del deserto rosso del Kyzylkum per 750 km. Una fornace, un’esperienza terribile per Marina che voleva vedere il paese di giorno. I viaggiatori prendevano acqua calda dai samovar all’inizio delle carrozze ferroviarie e negli scompartimenti erano disposte bustine di the e zuccherini avvolti nella confezione della Uzbek railways. Ad ogni sosta, tre in tutto durante le undici ore di viaggio, avevo il tempo di fumare una sigaretta giù dal treno e prendere una bottiglia di acqua fresca. Insomma siamo arrivati provati ma interi.
L’osservatorio di Ulugh Beg a Samarcanda è stato creato proprio per volere del principe nipote di Tamerlano che crea una madrassa con nel suo sottosuolo un largo arco usato per determinare il mezzogiorno. Uno scavo di 2-3 metri di larghezza, orientato lungo il meridiano per l’Osservatorio. Il quadrante alto 11 metri al di sopra del suolo ospita uno scavo dal raggio di 40,4 metri. Ulugh Beg determinò la durata dell’anno tropico in 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 15 secondi, con un errore di soli 25 secondi rispetto all’attuale computo. Il sultano astronomo determinò anche l’inclinazione assiale della terra in 23°52, valore tuttora confermato.
Qui termina il mio diario di viaggio. Ancora devo imbarcare per Abu Dhabi, tante ore da Palermo e quasi un paio di settimane trascorse tra meraviglie di monumenti e umanità.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
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Nino Pillitteri, svolge la sua attività di fotografo a Palermo. laureato in Matematica, si dedica alla fotografia già prima di iniziare l’Università nel 1983. Dal 2001 se ne occupa professionalmente. Ha avuto come maestri Cecilia Alqvist, Giacomo D’Aguanno, Salvo Fundarotto e delle grandi fonti di ispirazione sia in Italia che all’estero, tra Svezia e Danimarca, dove ha vissuto per circa undici anni. É CEO Administrator e creatore di photo.webzoom.it, si occupa di Street Photos, Social, Reportages e Viaggi. Ha collaborato con fotoup.net, quattrocanti.it, photojournale.com, Azsalute.it. Agenzia Demotix-Corbis, PacificPressAgency, Citizenside France, Blasting News Italia. Oltre la matematica e la fotografia coltiva lentamente un uliveto.
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