#DiegoEterno 1960 – ∞, la scritta apparsa all’esterno della Bombonera (lo stadio del Boca), è una immagine efficace della assunzione nell’universo mitico della figura del Pibe de oro, scomparso nel novembre dello scorso anno e universalmente pianto come supereroe che scompare, pur non scomparendo, in quanto, appunto, eterno.
Due papi, tre presidenti della Repubblica: nessun calciatore aveva mai avuto sul cellulare i numeri di telefono di tanti potenti. Macron ha scritto che «è sui campi da gioco che Maradona fece la rivoluzione» e il suo intervento ha fatto indignare il presidente boliviano. Papa Francesco lo ha ricordato con parole di toccante semplicità e dappertutto si è elevato un coro di rimpianti, di ricordi, di testimonianze, di aneddoti. Il suo compagno di calcio, anch’egli campione, Ciro Ferrara, gli scrive «Caro Diego, dove sei? Ti sento vicino», inventando un’immaginaria telefonata con lui da lassù e nel suo libro Ho visto Diego e dico ‘o vero (Cairo, 2020), con la prefazione dello stesso Maradona, afferma: «Diego è uno che va via senza andare via mai». Qualcuno, come il suo allenatore, ha scritto di sentirlo vicino e ha finto di rispondere a un suo messaggio dal Paradiso, dove proclamava, esultante, di stare bene.
Il luogo in cui il rimpianto è diventato epopea e ha portato alla definitiva consacrazione del mito è stato Napoli, la cui squadra vinse, grazie a lui, i due scudetti, cosa mai accaduta precedentemente e mai più accaduta successivamente. Una Napoli che lo ha amato a dismisura e che ha ricevuto da lui un pari smisurato amore. Anche negli ultimi anni, da lontano, Maradona ripeteva di avere sempre Napoli nel cuore e quando ultimamente ebbe l’occasione di ritornare al San Paolo, accadde che i giocatori non riuscissero a iniziare la partita perché – pur di avvicinarsi al grande campione, omaggiarlo, toccarlo, chiedergli un autografo – il pubblico aveva invaso il campo, finché la squadra non si avvicinò essa stessa al grande campione per rendergli un doveroso saluto.
Una conferma ulteriore dell’assunzione nella dimensione del sacro del Campione per antonomasia è testimoniata dal fatto che alcune ciocche di suoi capelli (ma tagliati in chissà quale occasione! In previsione di feticcio? O di reliquia?) sono state poste al centro di un improvvisato altarino di doveroso culto. E già da tempo la statuina di Maradona la si trovava nelle botteghe dei pastorari della celebre via di San Gregorio Armeno.
Forse il tifo è capace di suscitare entusiasmi siffatti; io non lo so, perché, tranne una breve adolescenziale parentesi, tifoso non sono stato mai: né giocatore, né spettatore, anche se ho sempre trovato abbastanza singolare il fatto che sportivi si ritengono coloro che guardano lo sport praticato da altri. In anni giovanili tifavo per il Torino, ma la tragedia di Superga sigillò tragicamente la fine dei miei trasporti calcistici.
Conosco però gli entusiasmi dei tifosi: alla fine degli anni Cinquanta conobbi il trasporto napoletano, a livello più ristretto, per Vinìcio, calciatore che conoscevo perché parcheggiavo la mia auto nello stesso garage di via Vittoria Colonna a Napoli, prossimo a piazza Amedeo, dove soggiornavo nella pensione del barone Ruggiero. Approfittando di questa conoscenza, gli presentai un mio giovane cognato, Giusi, che per molti giorni continuò a dire scherzosamente che non voleva lavarsi le mani visto che avevano stretto la mano del grande Vinìcio.
Non ha senso tentare inutili gerarchie, solo un uomo grossolano come il senatore Maurizio Gasparri ha sentito il bisogno di pubblicare nei giorni dell’universale compianto per Maradona l’enfatica dichiarazione, con la figurina di Pelè: “il più grande di tutti i tempi”, a sminuire appunto la grandezza dello Scomparso: forse l’amicizia di Maradona con Fidel Castro aveva fatto percepire, al senatore, il campione come un avversario politico da insultare nei giorni della morte. Non ha riflettuto, il senatore forzaitaliota, sul fatto che nell’universo del tifo calcistico non esistono gerarchie, in quanto tutti gli appassionati sono semplicemente accomunati da quest’unica grande passione, che è anche una fede.
Con ben altro animo, ricolmo di gratitudine, Maradona, invece, si era fatto tatuare sul polpaccio l’effige di Fidel Castro, che l’aveva accolto a Cuba nel 2000, assicurandogli le cure per disintossicarsi.
Ha notato in questi giorni efficacemente Massimo Gramellini, «se oggi nel mondo milioni di persone ripensano a lui come a qualcosa di unico non è perché sniffava cocaina e si distruggeva la vita (attività purtroppo assai comuni) ma perché con un pallone tra i piedi sapeva regalare l’emozione indicibile della bellezza più pura» (‘Corriere della sera’, 27 novembre 2020).
Il mito non ha bisogno di motivazioni (è quello che è); la Divinità dell’Antico Testamento dice di sé: «io sono colui che sono» e risolve in sé tutte le contraddizioni possibili, perché le trascende su un piano più alto.
Un uomo, Maradona, che ha posseduto diverse donne: mogli, fidanzate, ex fidanzate; un protagonista di un notevolissimo numero di avventure sessuali (l’autista napoletano ha dichiarato in questi giorni di aver portato nella villa del campione più di diecimila donne – presumibilmente esagerando). Eppure, qualcuno (in particolare una donna di Napoli intervistata per televisione), ne ha potuto parlare tutt’altro che in termini di “utilizzatore finale” – per usare una felice espressione del cupo avvocato Ghedini – di corpi femminili, appunto: dopo aver regolarmente dato il suo doveroso tributo di lacrime, alla domanda perché piangesse, la signora non ebbe esitazioni a rispondere: «perché ha fatto molto per noi donne». Naturalmente, non vi è alcun rapporto tra affermazione e realtà, ma tutto è possibile nella zona del numinoso, del sacro, dove regnano il tremendum e il fascinans, di cui ci ha parlato l’antropologia religiosa.
Anche alcune femministe lo hanno pianto rivendicando il loro diritto all’emozione, come la scrittrice giornalista Mariana Carbajal, famosa in Argentina per le battaglie contro il sessimo dell’informazione e a favore dell’aborto legale; a chi le faceva notare che – con quell’harem di mogli, di ex mogli, di suocere, di cognate e di fidanzate ufficiali o clandestine, di figli più o meno (o per niente) riconosciuti, con quello stuolo di femmine a servizio –, Maradona fosse stato un’espressione del patriarcato che loro stesse cercavano di combattere, e che quindi il suo compianto fosse fuori luogo, ha ribattuto che non accettava tale critica e che anzi le accuse a lei rivolte fossero da “femministrometro inquisitore”, rivendicando, appunto, il diritto alle proprie emozioni: «hasta la victoria, Diego! Non lo discuto, abbraccio solo i suoi affetti più cari».
In Italia, Diego ebbe con Cristiana Sinagra – una ragazza incontrata in discoteca –, una tormentata storia d’amore e anche un figlio, battezzato dalla madre Diego Armando jr., che il Campione riconobbe dopo diciassette anni; intervistato da Biscardi in un “Processo del lunedì”, si affrettò ad appartarsi nella toilette con una ragazza appena conosciuta, ebbe innumerevoli fidanzate, giovanissime e bellissime e un numero imprecisato di figli: l’ultimo è spuntato in questi giorni, forse per partecipare a una cospicua eredità (si parla di un patrimonio di 275 milioni di dollari).
Uomo di contraddizioni, Maradona, si fece coraggiosamente e incautamente ritrarre coi fratelli Giuliano, i boss di Forcella degli anni Ottanta, seduto nella vasca da bagno a forma di ostrica e intrecciò la sua storia con quella degli altri potenti della terra: dal papa, al quale un po’ presuntuosamente fece la predica contro le ricchezze vaticane; a Castro, a tanti tanti altri, che trattò da pari a pari, consapevole di essere lui l’inimitabile Maradona, capace di segnare poesia sull’erba di un campo di calcio e di non tacere le proprie opinioni su tutto il resto, fossero, esse, opportune o scomode.
Generoso sino al limite dell’autolesionismo, non nascose le sue dipendenze, ma fu capace di rotolarsi nel fango, in una partita amichevole che servì a raccogliere i fondi per consentire a un bambino malato di essere operato; oppure, non esitò a presentarsi insistentemente, per molti giorni, negli uffici del patron della squadra del Napoli, Ferlaino, che non aveva pagato il “premio partita” ai ragazzi della Primavera, finché il presidente dovette arrendersi. Un uomo fragile insomma, ma con un cuore d’oro, immenso.
Una chiesa è nel nome di Diego: così nella città argentina di Rosario, nella quale si celebra il Natale il 30 ottobre, data di nascita di Dios: «la nostra religione è il calcio, dovevamo avere il nostro Dio».
Le figure mitologiche compiono azioni che a noi miseri mortali appaiono mostruose e tali sarebbero nella nostra Erlebnis, nella nostra esperienza vissuta, ma che ci appaiono totalmente coerenti, invece, con l’essere mitologico che obbedisce ad altre leggi, ad altre coerenze interne. Maradona, con tutte le sue cadute umane e gli umani tentativi di rialzarsi e continuare, non ci appare, come è stato, un uomo marcato da un grande destino – così come da grandi sventure, da successi e fallimenti, trionfi e abissi di ricadute –, ma un eroe tragico che si autoassolve dai suoi stessi errori, dalle sue debolezze.
Maradona ha sfiorato il buio tante volte, salvandosi per un soffio, nell’attimo fuggente, prima di cadere nel baratro. Ma non questa volta. Il buio lo ha inghiottito: le ultime tristi giornate in ospedale, con cadute, mancata vigilanza, omissioni (e l’inevitabile strascico giudiziario), testimoniano ancora una volta la contraddizione tra grandezza ufficiale e umana fragilità; anche un campione di velocità come lui, insomma, può scivolare su una buccia di banana, gettata magari per distrazione o superficialità sul suo cammino. Eppure, egli è rigenerato nella luce. Dell’eternità, del mito. Si è guadagnato quindi l’immortalità, che è dei supereroi tragici, quale lui è stato; degli eroi leggendari, del mito.
Dato il mestiere che ho fatto e che continuo a fare; date la mia formazione e le mie letture, ho una certa frequentazione con i miti, ma con Maradona ho vissuto un’esperienza unica: quella di assistere alla nascita e al consolidarsi di un mito.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Luigi Maria Lombardi Satriani, è nato a San Costantino di Briatico (Vibo Valentia). È stato professore ordinario di discipline antropologiche nell’Università di Messina, della Calabria, Federico II di Napoli, La Sapienza di Roma, Mediterranea di Reggio Calabria, di Foggia, Suor Orsola Benincasa di Napoli; ha insegnato anche nelle Università di Austin (Texas) e di San Paolo (Brasile) e ha tenuto seminari e cicli di conferenze in diverse università italiane e di altri Paesi (ad es. nell’École des hautes études en sciences sociales, EHESS) e negli Istituti italiani di cultura dei maggiori centri della Cina e del Giappone, oltre che Senatore della Repubblica nella XIII Legislatura (1996-2001), ha fatto parte della Commissione Cultura del Senato e di quella bicamerale contro l’organizzazione mafiosa e altre realtà criminali. È stato presidente onorario dell’Associazione italiana per le Scienze Etno-antropologiche (AISEA) ed è presidente della Società italiana autori drammatici (SIAD). È autore di molte opere di antropologia e di poesia, numerose delle quali tradotte in altri Paesi. Viene considerato, anche a livello internazionale (v. “American Anthropologist”), uno dei più illustri esponenti dell’antropologia italiana.
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