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Diritti umani e lotta di classe fra astrattezza e concretezza

Dal frontespizio di Discorso sull'ineguaglianza tra gli uomini di G. G. Rosseau

Dal frontespizio di Discorso sull’origine delle diseguaglianze tra gli uomini di G. G. Rousseau

di Roberto Settembre 

Premessa 

Io non ho visto, sono stato sul bordo, affermano alcuni. Ma il bordo non è il confine destinato a venir oltrepassato o difeso, poiché, se il confine separa, il bordo nasconde. Tuttavia, rimanendo sul bordo, se lo desidero, posso descriverne il senso, in quanto, se ho visto quel che accadeva al di là, restare in attesa degli eventi significa averne ricevuto gli impulsi.

D’altronde è ben possibile ignorare se l’energia negativa che permeava la percezione di chi è rimasto sul bordo sia uguale in qualità e inferiore in quantità al dolore sprigionato dagli esseri trascinati nelle onde di quell’oltre, ma il legame tra l’osservatore e quegli esseri è la viva percezione sensoriale di ciò che è accaduto e accade.  Ne consegue che un sentimento primario come l’amore strappa le difese, impedendo che il bordo sia un confine invalicabile.

Allora sapere, immaginare, sentire fanno un tutt’uno, così com’è l’azione del ricordare, del pensare e del fare. Ma parlare d’amore non significa indulgere al sentimentalismo, bensì richiamare il contrasto col suo contrario conoscibile, che non è l’odio ma il Male, sui quali spenderemo alcune parole.

Tuttavia, prima di affrontare questo aspetto vogliamo rilevare che la Lotta di Classe è letta dai suoi propugnatori come intrinseca alla Storia come creazione umana, effetto di un processo unitario pratico-teorico che dura quanto la vita dell’umanità, e negarlo, per essi, è una mistificazione prodotta dai rapporti sociali dominanti (Cfr. Predrag Vranicki, Storia del Marxismo, II, Editori Riuniti 1973: 582)

1Non solo, c’è, nei teorici della lotta di classe intesa come motore della Storia, l’idea astratta che l’uomo non sia soltanto l’essere più alto e il suo solo senso (sostanzialmente rintracciabile anche nei fautori dei Diritti umani), ma anche il suo destino, talché diventa strumento di se stesso nel perseguimento del fine ultimo progressista della dinamica storica, quando la verità si concretizzerà nella libertà dell’uomo finalmente conquistata (Vranicki ibidem) «nel corso dell’intera vita dell’umanità».

Tuttavia, per questo motivo, riteniamo che questo pensiero legittimi «l’uso umano dell’umano», per dirla con le parole di Norbert Wiener in una sua opera del 1950, citata da Stefano Rodotà nel n. 8/2015 di MicroMega (ivi:121). Ne discende il corollario di quanto sia sottile il passaggio dall’ “uso umano degli umani”, visti quindi come un mezzo, al loro “uso disumano”, assimilabile all’Ansmerzen, parola che descrive la pratica di abbattere i capi più deboli in occasione della transumanza delle greggi per renderla spedita e proficua. Si tratta di una pratica codificata nel decreto di Adolf Hitler del 7-10.1941 con il precetto che ebrei, omosessuali, dissidenti politici catturati nei Paesi occupati dalle truppe naziste venissero trasferiti in Germania dove sarebbero scomparsi “nella notte e nella nebbia”. Dopo tutto non dissimile dalla fucilazione di 800 mila kulaki o di migliaia di c.d. intellettuali su ordine di Stalin, o di centinaia di migliaia di devianti dalla retta via rivoluzionaria (si parla di 10 milioni di persone) durante la Rivoluzione Culturale scatenata per volere di Mao Tze Dong, e, mentre  lo stesso  Deng Xiaoping era  costretto ai lavori forzati,  suo figlio ventenne venne torturato e scaraventato dal terzo piano di un edificio per la stessa ragione per cui il 40 % della popolazione cambogiana, 4 o 5 milioni di esseri umani, venne sterminata per ordine di Pol Pot  per mano dei suoi Khmer rossi. Parimenti decine di migliaia di desaparecidos vennero fatti scomparire nella notte e nella nebbia argentine, perché ritenuti ostili e di ostacolo al futuro radioso promesso dal Plan Condor, tre anni dopo la mattanza cilena di Pinochet.

Viceversa il riconoscimento della forza ideale e astratta dei Diritti Umani parte, sul piano normativo, dall’affermazione che il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario, sebbene non sufficiente, per qualsiasi azione del potere che leda la sua dignità fisica e/o psichica (così il Codice di Norimberga del 1946). Si tratta della creazione di una sorta di rinnovato habeas corpus, cioè la proclamazione del diritto all’integrità del corpo dell’uomo.

Cosicché, ridotto  il riconoscimento del valore dei Diritti Umani a entità speculare al riconoscimento degli ineliminabili limiti della Democrazia liberale e delle sofferenze e dei danni inflitti agli individui da questa e dalle altre forme di organizzazione sociale, la persona viene privata della qualità di essere un  “mezzo” per conseguire il fine ultimo  del progresso dell’umanità, attraverso qualsivoglia artificio linguistico che lo giustifichi (si pensi al Ministero dell’amore orwelliano), ma, all’interno del flusso caotico e cangiante della dinamica storica, gli esseri umani, titolari di quei diritti,  saranno essi  stessi i  destinatari e il fine di quel valore. Questo sul terreno dell’astrazione. Ma cercheremo di mostrarne anche la portata concreta.        

2Corpus

Abbiamo optato per una premessa e non per un’introduzione, poiché questa si sarebbe tradotta in una descrizione sintetica della tematica di questo breve saggio, il cui tessuto argomentativo si sviluppa nell’analisi dei due princìpi in esame sul piano della loro forza astratta e sul piano della loro portata concreta.

Viceversa la premessa parte dalla figura dell’osservatore, i cui meccanismi cognitivi sono attivati dall’esito dell’osservazione e che si muovono, necessariamente, sia sul piano della razionalità intellettiva, sia su quello della razionalità morale, la sola forma di razionalità che consente di non spegnere il sostrato dell’affettività, con la conseguenza di porre l’individuo di fronte alle proprie, individuali responsabilità del suo essere nel mondo. 

Ma ben prima di parlare dei Diritti Umani e della Lotta di Classe vanno spese alcune parole per definire in che senso vengono usati il sostantivo “Diritti”, l’aggettivo “Umani”, i sostantivi “Classe”  e “Lotta”, poiché, se il concetto di Diritto affonda le radici nei millenni, in quanto espressione del potere regolatore dei rapporti fra i membri di una società (si pensi al codice di Hammurabi) e fra di essi e nei confronti del potere (si pensi al Decalogo ebraico o alla legge delle XII tavole), per giungere alle forme sofisticatissime del diritto romano, la cui forza di espansione raggiunge e permea la modernità, l’aggettivo “umano” ha subìto una significativa evoluzione filosofica e giuridica. Infatti, sebbene attenga all’essere umano come individuo, le modificazioni del pensiero su di esso si sono accompagnate alla modificazione del pensiero dell’essere umano su se stesso, ed è questo il dato fattuale che rileva nell’accezione moderna del concetto dei Diritti Umani.

Vogliamo dire che nella sua storia l’Umanità non è mai stata cosciente di se stessa allo stesso modo, poiché, nella sua declinazione giuridica, filosofica, letteraria e religiosa, le cose sono cambiate tanto da non rendere comparabili tra loro i significati attribuiti al concetto di umano, dominato dall’imposizione dell’idea di giusto e dell’idea di bene.

Tuttavia,  atteso che l’idea di giusto, fatta salva la sua dimensione interiore, discende direttamente dal potere cogente e ideale del diritto, l’idea di bene è così ondivaga da non consentirne  un univoco uso maieutico della Storia, sol che si pensi a come in suo nome siano stati avviati al rogo migliaia o sterminati milioni di esseri umani, poiché il sangue che scorre e la carne umana che brucia non sono un’astrazione da relegare nella comoda parentesi degli errori o delle sviste nella dinamica storica o come inevitabili danni collaterali.

Vogliamo cioè sottolineare come la forza astratta di un concetto così malleabile ne ha determinato una portata concreta talmente molteplice, da non consentire l’identificazione di un pensiero unidirezionale gestibile sul piano operativo dell’argomentazione senza obliterarne le vere conseguenze sul piano morale. Non useremo quindi il concetto di bene, né come strumento interpretativo della realtà umana nel suo divenire attraverso la Storia, né come meta ultima a cui avviare l’umanità pagando il prezzo marginale di orrori non altrimenti evitabili.

Viceversa, nel limitatissimo spazio di questo lavoro, cercheremo di vedere come e perché rilevi la dicotomia fra l’amore e il male, calibrando l’indagine sull’assunto che l’amore venga inteso come slancio ideale contro il dolore e l’ingiustizia e non come il legame positivo e armonico fra gli esseri umani nel senso trascendente ed emozionale, poiché questo, per quanto nobilissimo e luminoso, ne distoglie l’attenzione dalle dinamiche e dagli sviluppi del suo contrario, respinti nelle tenebre della negatività e affrontati solo con la forza astratta del concetto, ma senza la necessaria e proteiforme portata concreta dell’azione.

Ben diverso e assai più gestibile il concetto di “Male”, la cui declinazione, abbisognando di aggettivi qualificativi per indicarne le cause, i pericoli e le conseguenze, ci permette di isolarne la portata pratica con riferimento specifico a quanto ci occupa, da un lato, cioè i Diritti Umani, e la Lotta di Classe dall’altro, dacché il male, così inteso, si è fatto storicamente antitesi dell’amore come utopia positiva del pensiero umano sui legami sociali.

Quindi l’amore, qui inteso come antitesi del male, costringe l’attenzione alla “Persona”, non più ai suoi sentimenti soltanto, rifugio ultimo e forse impossibile di un mondo senza cuore, posseduto integralmente dalla ragione tecnologica e da quella identitaria, e così condannato a un destino totalitario (Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza 2017: 70).

4-5Così il Male, che colpisce gli esseri umani, mirante a soffocarne la personalità e l’iniziativa individuale nei vari campi della vita, si mostra in modo fenomenologico, molto meno astratto del Bene, e assai più seducente e inscritto nelle pulsioni predatorie del sapiens, tanto concreto da esserne campo d’indagine dalle religioni monoteiste, dalla filosofia (Kant afferma che «l’uomo stesso è l’autore del male»; Kierkegaard quando affronta la distanza che separa il regno ideale dall’universo fenomenologico maligno), dalla letteratura, sterminata. Si pensi a Baudelaire che vede nel male un processo continuamente in azione; a Dostoevskij in quasi tutta la sua opera; a Kafka, a Proust esaminato da Walter Benjiamin, che evidenzia come il male circoli come l’elemento più naturale; a Beckett, a Gadda, per giungere a Carrere (si legga “l’avversario” fra i tanti), a Durrematt, a Bolano, testimone della dittatura di Pinochet, per il quale la Storia si identifica con un territorio sterminato di naturali barbarie, o a Sebald, nel suo Storia naturale della distruzione in cui si riflette il progetto churchilliano dell’“area bombing”, fonte di ispirazione di Kurt Vonnegut testimone diretto della distruzione di Dresda, senza dimenticare Shakespeare, solo per citare alcuni esempi letterari, o nel mondo dell’arte, lo sgomento che suscita Guernica, o Him di Cattelan, il minuscolo Adolf Hitler inginocchiato, perversamente artefice del Male (Arturo Mazzarella, Il male necessario, Bollati Boringhieri, 2014).

Eppure la percezione del male sulla “persona”, come abbiamo anticipato, non è identica nel tempo, proprio perché non è identica nel tempo l’idea di Persona, parola che nell’antichità classica definisce la maschera teatrale dietro alla quale si nasconde l’individuo attore, del tutto separato dal suo personaggio, cosicché dell’individuo attore non ci è giunto nulla. L’idea di Persona, infatti, nell’antichità è totalmente diversa da quella della modernità, tanto quanto 

«i valori attuali, il liberalismo, la secolarizzazione, la tolleranza, il senso dell’ironia, l’interesse per le opinioni altrui, per quanto superficiali possano essere nella nostra società, erano allora del tutto assenti o al meglio presenti solo allo stato embrionale… Quasi tutti gli scrittori (medioevali) persino i rigoristi religiosi che si rifacevano all’egualitarismo della teologia del Nuovo Testamento e del Corano davano per scontata l’immutabilità della gerarchia sociale o l’innata virtù morale del ceto aristocratico con il servilismo verso i socialmente superiori e la compiaciuta coartazione dei socialmente inferiori erano condotte normali e persino virtuose, così come l’assunto generale dell’intrinseca superiorità degli uomini sulle donne» (Chris Wickham, L’eredità di Roma dal 400 al 1000 d.c., Laterza, 2021: 617-618).

E lo stesso S. Agostino non si sottrae a questa posizione.

Ecco allora perché il rapporto fra la percezione del male e l’ideale di cosa sia bene prescinde nell’antichità dalle forme con cui si manifesta l’empatia moderna, talché la passione per i giochi cruenti non venne meno neanche fra i religiosi se non molto lentamente, con il diffondersi del Cristianesimo e la millenaria assuefazione morale alla schiavitù lo testimonia.

5Detto questo, deve rilevarsi come individualità e personalità, entrambe attributi della persona intesa in senso moderno, si formino in determinate condizioni storico culturali, in società umane dove l’individuo prende coscienza di sé e dove domina il principio del gruppo o della tribù. Sul punto si noti come il principio del gruppo o della tribù sia antitetico a quello di chi prende coscienza della propria individualità (cosa che avrà rilievo nel tema che ci occupa), fenomeno che accade nella società attraverso il progressivo riconoscimento da parte dell’uomo della propria dignità e nella presa di coscienza del proprio isolamento, cioè della propria individualità (Aron Gurevic, La nascita dell’individuo nell’Europa medioevale, Laterza 1996: 191).

Ora, non essendo questa la sede per indagare, descrivendone l’evoluzione, come l’individualismo degli ordini economici del Medioevo abbia agito sulla formazione della consapevolezza di sé della persona, deve evidenziarsi, per comprendere le premesse della nascita (dovremo dire dell’invenzione sia come eruzione del pensiero, sia come scoperta di una verità storica) dei diritti umani e di come si pongano in relazione con la lotta di classe, che furono le famiglie, le unioni parentali, le comunità agrarie, le parrocchie, la signoria, il feudo, le gilde dei mercanti, le corporazioni artigiane, il comitatus, le confraternite monastiche, le sette religiose (e di queste vedremo quanto!), le fraternitas cittadine e così via a costituire il brodo di coltura di quella futura invenzione, poiché «ogni micro-gruppo possiede determinati valori, in parte peculiari di un dato microcosmo sociale, in parte comuni a una serie di gruppi o alla società nel suo complesso, e l’individuo si associa alla cultura assimilando questi valori» (Gurevic, cit.:105).

Tuttavia per secoli l’identità della personalità venne definita dal di fuori, dalle istituzioni e dai rapporti oggettivi, prestabilita senza la soggettività, e questo trova la sua conferma nella storia delle lingue dell’Europa occidentale, «nelle quali molto lentamente e a fatica sono entrate le parole significanti personalità, individualità, carattere umano, mentre le parole con un prefisso che denota il rapporto dell’individuo con se stesso, con la sua autopercezione si sono fatte numerose solo a partire dalla Riforma» (Gurevic, cit.: 115).

71lh-p012ms-_ac_uf10001000_ql80_Sul punto è interessante rilevare la stretta relazione antica fra l’individuo e la appartenenza a un gruppo e, per usare un concetto marxiano o weberiano, a una classe, dove la personalità muta secondo diversi gruppi sociali. Ma ciò che qui interessa è la loro occupazione, l’officium in tutte le sue declinazioni sociali, dove le diverse mansioni sono stabilite dal Creatore, dove gli individui non sono né uguali né interscambiabili e il concetto di lavoro non attiene solo alla sua funzione produttiva, ma significa anche “bisogno” “punizione” “tormento” “preoccupazione” e, soprattutto, “servizio” “sottomissione” “dominio” “fedeltà”, rispetto ai quali la personalità viene agita dalla libertà della volontà di scegliere la via del bene o quella del male sui binari dell’amore per il prossimo, che non deve intaccare, comunque, il pensiero che la ricchezza non sia distribuita in modo equo.

Sarà solo San Francesco a sostenere che l’abbiente deve cedere al misero il suo abito, ma presto i suoi adepti più fedeli, i cd. Francescani poveri, verranno perseguitati e uccisi, e il suo testamento, la sua biografia scaturita da chi lo conobbe e il suo insegnamento verranno distrutti. Anzi, lo stesso ordine francescano si trasformerà in una mano feroce al servizio dell’Inquisizione, insensibile agli orrori della concezione del bene teologico, e si spingerà nei secoli fino a fornire i «cappellani militari degli Ustascia croatini che nella seconda guerra mondiale inciteranno a uccidere i serbi e gli ortodossi» (cfr. Friedrich Heer, Il Medioevo 1100- 1350, Il Saggiatore, 1962)

Si noti come questo incontestabile “male” inflitto ai deboli resti allegramente estraneo alla percezione del dolore altrui, ad alcuna idea di pietas cristiana: si tratta cioè di un concetto di amore del tutto diverso da quello richiamato in premessa, che si incrinerà solo quando l’immobilità ormai millenaria del rapporto tra sudditi e potere verrà scossa dall’alterazione  del rapporto di potere fra l’autorità dello Stato e la Chiesa, allorché il potere assoluto del monarca entrerà in conflitto con i soggetti del cui consenso attivo il monarca ha bisogno. E solo allora si comincerà a parlare di diritti della persona, mentre le strutture economiche della società mutano.

s-l1600Si tratta tuttavia di un processo lentissimo, attraversato da immani ingiustizie e giganteschi dolori: si pensi alle repressioni spietate delle rivolte dei contadini, e alla catastrofe europea della guerra dei 30 anni, al termine della quale si getteranno le basi di alcuni princìpi regolatori dei rapporti internazionali rimasti  validi fino a tutto il Novecento, come, ad esempio, la necessità di denunciare una lesione, vera o mendace, della propria integrità territoriale o extraterritoriale per giustificare una guerra contro un altro Paese, come farà la Germania nel 1939 contro la Polonia o gli USA nel c.d. incidente del Golfo del Tonchino quanto alla guerra nel Vietnam.

Ora, non essendo questa la sede per esaminare gli sviluppi storici, antropologici, sociopolitici e religiosi che portano alla modernità del XVIII secolo, riteniamo sia sufficiente rilevare che la radice da cui nacquero i diritti della persona prese a germogliare in Inghilterra, determinando una irreversibile rottura con lo Stato medioevale, con piena consapevolezza, come si legge nelle parole di Sir Thomas Aston, baronetto della Camera dei Comuni nel 1640, nel suo testo A remonstrance against Presbitery, dove scrisse: «È tempo che parlamenti, magnati, nobili, con la minore nobiltà e classe gentilizia discutano e stabiliscano le norme di governo e i plebei si sottomettano e obbediscano a esse» da cui emergono due dati di fatto. Da un lato, l’affermazione della necessità di un forte Stato centrale e quella di controllare la plebe, cioè i contadini facili alla  rivolta; dall’altro, una perdita di influenza del potere della Chiesa negli affari dello Stato, talché  entrò in gioco la questione dell’equilibrio fra il potere assoluto del monarca e l’opposizione parlamentare che tendeva a rafforzare i diritti del suddito, rendendoli inviolabili di fronte all’inferire del privilegio (Brian Manning, Nobili, popolo e Costituzione, in Crisi in Europa 1560-1660, ed. Giannini, 1968).

Ma l’onda della modifica degli equilibri di potere, mossa dalla necessità di armare gli eserciti che attraversavano l’Europa nei conflitti del XVI secolo ricevette energia dalla pulsione economica dei produttori agricoli e preindustriali, talché l’assicurarsi che il peso principale ricadesse sulle classi inferiori anziché sulle superiori ebbe l’effetto di spingere verso una progressiva consapevolezza circa il riconoscimento dei diritti. Non solo, se si pone attenzione alle guerre Franco Imperiali che sconvolsero l’Europa e l’Italia nel XVI secolo, per giungere come si è detto, a quella dei 30 anni del XVII, ne emerge un dato molto importante: cioè la composizione popolare di quegli eserciti, che non solo non potevano più imperniare la loro forza principale sull’élite nobiliare dei cavalieri, ma che si strutturarono sempre di più in masse di uomini dotati di armi da fuoco e addestrati a combattere spietatamente senza rispettare le regole cavalleresche. In specie l’esercito della Spagna.

il-pensiero-della-riforma-982Detto questo, deve affermarsi che nessun accadimento è mai davvero separato dagli altri: anzi sembra che la Storia europea, nel muoversi verso la modernità, accenda via via i suoi fuochi che illuminano la meta, anche quando singoli eventi paiono separati dal tempo e dalla geografia. Così nel continente germogliarono le prime avvisaglie della Riforma, se lo stesso Erasmo da Rotterdam, che la contrasta, si fa paladino di un umanesimo che passa dall’astrazione teologica su cui si fonda la dottrina autoritaria della Chiesa, a un rapporto personale con la scrittura, talché la lettura del Nuovo Testamento consente di instaurare un rapporto di conoscenza diretta con i personaggi che lo abitano, e in primo luogo con Gesù Cristo. Si tratta cioè del tessuto cognitivo che agita l’erasmiano Enchiridion, che significa “nella mano” destinata a contenere il libro sacro, attraverso l’idea di una religiosità interiore che lascia da parte l’autorità clericale ed ecclesiale (cfr. Alister e McGrath, Il pensiero della Riforma, Claudiana 1991). Infatti   sorgono nel XVII secolo in Inghilterra, al tempo della guerra civile di Cromwell, in un mondo che aveva visto la crescita delle sue università e l’aumento delle persone culturalmente, i germi della coscienza di sé portatrice di diritti. E da lì quei germi transitano nel continente fecondando un terreno estraneo a quello dove agiva il potere dello Stato, in uno spazio dove l’intelletto umano si ribella all’imposizione e al sopruso, sopraffatto da secoli di predominio maschile che aveva eretto come verità universale la credenza (e parleremo infine di quanto le credenze determinino la perversione della conoscenza e dell’azione) della concezione primitiva della donna considerata impura e piena di ignominia.

Si tratta del concetto ricavabile dalla Genesi e dalle epistole di San Paolo. Dunque contro un mondo che affermava come la struttura della società in tutti i suoi dettagli era ordinato per disegno divino e non doveva mai essere manomesso sorsero gruppi religiosi, sette, come abbiamo anticipato, quali i Brownisti, gli Indipendenti, i Battisti, i Millenaristi, i Familisti, i Quaccheri, i Predicatori che misero in discussione la famiglia e il posto della donna, affermando l’uguaglianza spirituale di tutti i credenti e spingendo verso una fede esaltata nel giudizio individuale.

Così furono le donne, contestando la proibizione di San Paolo alla luce delle parole del profeta Gioele, secondo il quale Dio avrebbe riversato il proprio spirito sulle serve e che esse avrebbero profetato, a prendere pubbliche posizioni. Così accadde in Svizzera nel XVI secolo, dove un’anabattista si proclamò Regina del mondo e Messia di tutte le donne, e in Inghilterra nel XVII secolo, dove una certa Anna Trapnel affermò: «Coloro che il Figliolo rende liberi, sono di fatto liberi». Parimenti in America, nel Massachussetts, dove la teologa puritana e protofemminista Anne Hutchinson, lottò alla guida dell’Antinomianismo incarnando con la sua attività un’evoluzione della condizione femminile nelle colonie inglesi, esponendo il suo pensiero liberamente e assumendo autorità dottrinale in un contesto ecclesiastico e politico che non accettava il ruolo pubblico e la libertà di parola delle donne in forza di una lettura restrittiva delle Sacre Scritture. Anne Hutchinson inoltre accoglieva uomini in casa sua per insegnare loro, secondo una promiscuità insolita in una società puritana, finendo vittima dei conestabili coevi, che limitavano il ruolo delle donne nella società puritana.

Furono dunque le donne a produrre concezioni avanzate sul matrimonio e il divorzio, elevando i contrasti religiosi nell’abito della famiglia e riproducendo in miniatura il dilemma dei contrasti nell’ambito dello Stato quanto al problema dell’obbedienza al magistrato empio. Infatti la volontà di limitare l’autorità di origine divina del padre quale sacerdote della famiglia nella sfera della coscienza rifletteva sull’esterno lo stesso conflitto di lealtà che avrebbe condotto alla separazione della Chiesa dallo Stato inteso come organizzazione secolare per l’utilità dei suoi membri. Questo perché, venuta meno la sanzione religiosa, l’intera società era soggetta alla sfida e alla verifica del punto di vista della ragione, del diritto naturale, del consenso popolare e dell’interesse generale.

Fu allora che prese campo il principio che l’uomo e la donna erano nati liberi e uguali e potevano essere governati soltanto in base al loro consenso. Nel 1640 il filosofo sir Robert Filmer scrisse: «Ogni fanciullo, nello stesso momento in cui è nato ha un’importanza pari al più grande e saggio uomo del mondo… per non parlare delle donne che per nascita hanno altrettanta libertà naturale quanto chiunque altro». (Ibidem, Crisi in Europa: 450).  Analogamente la posizione politica quacchera, con la fede nell’uguaglianza umana concretizzantesi nell’atteggiamento verso le donne, gli ebrei, gli indiani americani, nella richiesta di una giustizia economica e nella semplificazione delle leggi. (Ibidem: 463). La strada verso l’invenzione dei diritti umani era spianata.

Tuttavia la Storia, nonostante l’interpretazione lineare che ne danno il cristianesimo e il marxismo, non lo è affatto, cosicché deve evidenziarsi come la via che sembrava portare a un supposto progresso nel mondo della relazioni umane regolate da un diritto mite, sembra interrompersi verso la fine del XVIII secolo, con Robespierre, per riaprirsi un secolo e mezzo dopo, mentre ancora oggi non è solo irta di ostacoli, e non ci sono garanzie per evitarne il definitivo tramonto, alla luce dei tanti nemici che la bombardano.

9788846735362_0_536_0_75Tuttavia, non spettando a questo lavoro il compito di analizzare la temperie culturale che condusse alla teorizzazione circa l’esistenza dei diritti naturali, attraverso una descrizione delle idee giusnaturalistiche di Grozio, Hobbes, Spinoza, Locke, Pufendorf e Kant, ai fini che ci occupano basta  rilevare come, sul piano delle idee e in termini di pura astrazione, sarà l’Illuminismo a voler liberare l’uomo dalle costrizioni della Storia, dal giogo delle credenze tradizionali e non verificate, teorizzando per la prima volta il liberalismo nel secondo trattato di Locke, nella Risposta alla domanda cos’è l’Illuminismo di Kant, nel Discorso su l’origine delle disuguaglianze di Rousseau.

Vogliamo dire che l’“invenzione” nel senso etimologico della parola, di questi diritti, connessa e conseguente al percorso secolare a cui abbiamo accennato nelle pagine precedenti, non si esaurisce solo nell’espressione della volontà dell’individuo di elaborare un concetto filosofico e giuridico necessario alla salvezza degli esseri umani dal male che nel presente e nel passato ne ha causato infinite sofferenze, ma costituisce anche la materia ideale dell’Occidente, intendendosi per Occidente il mondo nel quale si è sviluppata la società aperta e lo Stato di diritto, e in ultima analisi la democrazia liberale (Zeev Sternhell, Contro l’Illuminismo, Baldini e Castoldi, 2006: 217).

Ma tutto ciò è tutt’altro che pacifico. Se questa spinta ideale e astratta si è concretizzata in una serie di progetti politici che ne avrebbero potuto consentire l’attuazione concreta, deve chiarirsi che l’opposizione a tali progetti è stata così proteiforme fin dagli albori da aver catturato le menti e la coscienza di élite e moltitudini (cercheremo più avanti di coglierne la ragione).

Questo perché, e nessuno in buona fede deve nasconderselo, sia il Bill of rights del 1689, quello americano del 1776, le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo dell’ Assemblea nazionale francese del 1789, la Declaration francese del 1793 sulla Solidarietà, quella del 1795 sui doveri, l’elaborazione dei principi mazziniani sui diritti e i doveri dei cittadini, il rapporto fra Dichiarazioni e le Carte dei Diritti e le Costituzioni, sia in USA sia in Francia, e poi, a poco a poco  la concretizzazione dei diritti distinti in civili, sociali e politici, con il progressivo riconoscimento dell’individuo come essere fragile, indifeso, insicuro, garantito dallo Stato, mostrano come proprio all’interno di quelle norme sia possibile individuarne il senso, sia del loro contenuto sia della loro relazione coi fatti della Storia.

Ma ciò significa che la loro natura concretissima e niente affatto astratta si accompagna a un uso strumentale delle apparenti contraddizioni della loro declinazione materiale, tale da renderne appetibile una lettura opposta. E sarà questa lettura opposta che condurrà all’elaborazione di teorie astratte e molto seducenti, per quanto antitetiche fra loro, ma utili per alcune allo sviluppo sfrenato del mondo capitalista, e per altre al fine di combatterlo.

Eppure il punto essenziale, intorno al quale si snoda il senso di questo lavoro anticipato in premessa, è che entrambe le letture opposte sono state portatrici di tremendi conflitti e di immani dolori. Così si ponga attenzione al pensiero oppositivo che vide nell’Illuminismo lo spirito di un movimento di cospirazione intellettuale il cui obiettivo era la distruzione della civiltà cristiana e dell’ordine politico e sociale da essa creato, per cui la conquista della felicità attraverso l’uso della ragione come unico criterio di legittimità di qualsiasi istituzione umana avrebbe cancellato la Storia, la tradizione, il costume, l’esperienza, e per garantire tutto ciò diviene legittimo usare la forza, poiché la difesa dei privilegi è la difesa della civiltà.

Sebbene, lo ripetiamo, non sia questo il luogo per indagare la struttura filosofica, ideologica e giuridica di tale opposizione, dalla fine del XVIII secolo gli avversari dei diritti dell’uomo trionfano su vari fronti, finché «agli inizi del 900 monta e poi tra le due guerre dilaga l’ondata dell’antirazionalismo, del relativismo e del comunitarismo internazionalista, e queste tre basi della guerra all’Illuminismo e ai principi dell’’89 rivestono sempre la stessa funzione: combattere l’umanesimo e i valori universali tanto derisi, e infine la democrazia, ed è in questo grande laboratorio ideologico  che si prepara la catastrofe europea» (Zeen Sternhell, cit.: 29).

downloadTuttavia, prima di proseguire desideriamo porre l’attenzione sui motivi per cui ci siamo dilungati sul germe da cui sono nati i diritti umani, per evidenziare lo spessore fattuale, la materialità degli eventi in cui hanno agito nei secoli generazioni intere di esseri umani attraverso esperienze, dolori, sconfitte, minuscoli trionfi sull’ingiustizia e sul male, e per far intendere come i diritti umani non siano viceversa il mero frutto di un pensiero astratto e privo di relazioni col mondo concreto nel quale sono nati.

Certamente deve convenirsi che anche l’ideale della lotta di classe germoglia dallo stesso humus, vale a dire come il concetto che la nutre sia il frutto di un’elaborazione filosofica delle idee.  Viceversa i diritti umani sono il frutto di un pensiero collettivo che si è affinato attraverso i secoli e le moltitudini nelle menti dei loro destinatari, essendo il portato di un istintivo rifiuto del male patito nella carne e nello spirito. I diritti umani sorgono come un indistinto coacervo di principi morali coi quali dissipare gli ostacoli alla loro esistenza e alla loro crescita imposti dal potere religioso e da quello politico assai prima di quello economico. Liquidarli come una mera petizione di principi astratti è sbagliato e frutto di credenze irrazionali, come vedremo più in là, mentre le immani difficoltà che si oppongono al loro rispetto non sono ascrivibili alla loro astrattezza, né possono legittimamente essere definiti come il cavallo di Troia del complotto illuminista volto al trionfo della spietatezza della ragione solo per consentire la perpetuazione degli orrori contro i quali si è eretto il baluardo della lotta di classe.

Ma c’è un altro aspetto che dev’essere messo in luce quanto alla relazione tra la forza astratta delle idee, frutto delle credenze, e la loro portata concreta frutto dell’azione. Si tratta, da un lato, della venerazione della Storia intesa come il luogo naturale, cioè la natura stessa del mondo, dove svetta la continuità dei rapporti sociali prodotto legittimato dall’esperienza e dalla tradizione secolare, da difendersi con ogni mezzo, forza compresa e senza esitare, contro le argomentazioni della ragione illuministica che parla in nome delle norme e degli eterni concetti universali estratti dalle vicende umane che hanno leso l’autonomia e l’integrità dell’individuo.

Sull’altro lato la Storia è vista come espressione dell’antagonismo fra natura e ragione che mette l’uomo di fronte al dilemma della sua soluzione, ritenuta possibile solo attraverso la forza astratta delle idee, che condurrà a scoprire la verità. Tuttavia, una volta scoperta, la verità metterà in gioco la portata concreta di quelle idee (cioè la loro trasformazione in progetto politico) e si renderà necessario il superamento di quelle norme e di quei concetti universali, che attengono all’autonomia dell’individuo, dei quali si nega il valore eterno, ritenendoli il frutto della loro relatività. Così intesi, quel superamento sarà possibile soprattutto con l’uso della forza, con buona pace delle vittime innocenti. In entrambi i casi l’individuo e la sua autonomia soccombono sotto la portata concreta di due progetti astratti, mentre le loro vittime sono concretissime.

Detto questo, riteniamo che esista un’alternativa alle due visioni del mondo che proclamano la volontà di lottare contro l’ingiustizia, l’una conservando le antiche strutture di potere, l’altra progettandone l’abbattimento, ma entrambe specularmente unite nella lotta contro i diritti dell’uomo. Questo perché riteniamo i diritti umani, sul piano della loro ontologia astratta, il frutto dell’esigenza morale e psicologica di conciliare l’istinto della libertà e l’anelito all’uguaglianza. Ne consegue, riteniamo, la praticabilità di un sistema politico portatore in concreto di quelle idee in cui la libertà sia compatibile con l’uguaglianza e in cui l’uguaglianza sia compatibile con l’autonomia dell’individuo e con la sua sovranità, in cui la libertà non sia definita solo come un intervento nella sfera individuale di ciascuno, ma come il diritto imprescindibile dell’uomo di essere padrone del proprio destino proclamando egli stesso le leggi che lo governeranno (cfr. Zeev Sternhell, cit: 35). È la visione kantiana, lo sappiamo; bel progetto astratto, ma irrealizzabile – affermano gli avversari in nome delle loro inossidabili verità desunte dall’osservazione fattuale e dalla speculazione filosofica.

Tuttavia, prima di argomentare ulteriormente, crediamo che sia necessaria una premessa, e cioè che ogni affermazione che si riflette nel campo storiografico e in quello politico procede da un tessuto di conoscenza, frutto del connubio tra informazioni e credenze, dove le prime sono reperibili in ogni ambito di ricerca, e le seconde costituiscono il criterio selettivo delle prime, per cui riteniamo la fondatezza dell’assunto di Giulio Cesare nel suo De bello gallico, dove affermò: «Gli uomini credono volentieri ciò che desiderano sia vero». Ne consegue che la verità desumibile dall’osservazione dei fatti è sempre sacrificabile, e l’indagine critica, così come quella seriamente scientifica, sono state e vengono spesso combattute senza esitazione come le guerre di religione hanno dimostrato. Oggi, se ci guardiamo attorno, accade quasi ovunque, dalle manifestazioni ottuse della cancel culture, alla criminalizzazione di interi gruppi umani, come un tempo gli eretici, gli infedeli, poi gli ebrei, i neri, gli immigrati, le comunità LGBT, e ovunque dove il potere non incontra i limiti imposti dal riconoscimento e dalla difesa dei diritti umani. Anche la scienza vi risulta piegata, dal divieto di insegnamento del darwinismo nei c.d. Jesus States USA, al tristemente famoso caso Lysenko del sovietismo, alla deriva anti illuministica dei Paesi islamici fondamentalisti, ai recenti proclami oscurantisti dell’ortodossia religiosa moscovita.

Sicuramente deve riconoscersi che l’invenzione dei diritti umani non ha impedito la loro brutale violazione attraverso le rivoluzioni che vi si sono accompagnate: quella americana, che li ritenne compatibili con la schiavitù, quella francese che approdò al terrore giacobino, quella sovietica, che proseguì nella loro persecuzione per settant’anni, quella dei regimi nazifascisti novecenteschi, quella islamica e dulcis in fundo, quella neoliberista, esplosa col plan Condor e confluita nel “There is no alternative” thatcheriano, non ancora conclusa.

Ognuna di queste rivoluzioni è stata in concreto fautrice di orrori o in nome della libertà e dell’uguaglianza, o per negare l’una o l’altra affermandone l’incompatibilità reciproca su un piano di mera astrattezza, e naturalmente non è questo il luogo per esaminarle, ma è opportuno rilevare come tutto questo discenda dal modo e dalle conseguenze dell’azione del pensiero sui princìpi di libertà e uguaglianza visti nella loro relazione coi diritti umani. Vogliamo dire che, una volta venuti alla luce e postisi come strutture del pensiero identitario della società, i diritti umani sono diventati lo strumento del progetto liberale nel suo concreto adoperarsi verso la sua reificazione politica, nelle sue differenti declinazioni, democratico, socialista, internazionalista (cfr. Michael Walzer, Che cosa significa essere liberale, Cortina, 2023), o, all’opposto, come proiezioni della relatività della Storia e quindi da scartarsi per attuare i progetti politici antitetici al liberalismo.

che-cosa-significa-essere-liberale-3942Ma c’è un altro aspetto da prendere in esame: se l’invenzione dei diritti umani, il cui germe, come abbiamo visto, affonda nel dolore e nell’ingiustizia che nei secoli ha colpito gli esseri umani più deboli, il cui sviluppo teorico è viceversa il prodotto di una speculazione intellettiva, la loro declinazione concreta attiene, quanto agli strumenti usati per difenderli e/o reintegrarli, all’accertamento degli eventi lesivi, che, come tutti i fatti che incidono sull’integrità del soggetto o dei soggetti facenti parte di un gruppo innesca un procedimento cognitivo ancestrale, e cioè il rifiuto di riconoscervi una mera successione temporale o occasionale degli eventi, per quanto non innocente ma finalizzata a combatterli in vista di un vantaggio, attraverso la ricerca della causa delle cause.

Alla fin fine è lo stesso meccanismo mentale che ha determinato nella mente umana l’edificazione dell’impalcatura religiosa o di quella politica strutturata sul principio di autorità a cui viene delegata la protezione e la sanzione contro i devianti. L’impiccagione degli omosessuali in Iran segue questo schema cognitivo.

Ma non solo questo, poiché l’assunto di una stretta connessione tra natura e Storia, assimilando gli eventi naturali positivi e negativi agli eventi storici sui quali è sostanzialmente inutile intervenire, ha giustificato ogni forma di conservatorismo politico-religioso, talché l’intervento della ragione come strumento di analisi critica volto a incrinare le credenze più salde, è stato visto da chi, su tali credenze, ha edificato il suo potere, come una minaccia da sconfiggere con ogni mezzo in nome delle leggi della Storia che lo giustificano. Parimenti la ricerca di leggi della Storia alternative, ha giustificato e giustifica l’edificazione di altri poteri così legittimati ad affermarsi e a perpetrarsi con ogni mezzo.

Ne consegue che anche gli eventi traumatici connessi alle ingiustizie e alle lesioni dell’individuo sono facilmente inscrivibili in una lettura coerente con la relazione problematica di natura e Storia, la cui soluzione passa attraverso la scoperta della verità e il nesso trascendente fra cause ed eventi. Ed è su questo nesso che si incardinano le credenze sulla scorta delle quali vengono selezionate le informazioni.

Allora il mondo reale, se viene sottratto all’analisi critica della ragione, ma viene analizzato con la mente usata per ascriverlo o alla inevitabile e ineludibile verità della perpetuazione delle strutture sociali, col loro bagaglio di dolori, orrori e ingiustizie, o viene sottoposto a una lettura alternativa destinata a vedere in quell’apparente continuità una congerie di contraddizioni risolvibili con un progetto di radicale trasformazione del mondo per costruire la felicità terrena o quella trascendentale dei poteri religiosi, si oppone alla funzione dei diritti umani come strumento per limitare i danni  del reale, rispetto ai quali il progetto di una società fragile e imperfetta come la democrazia liberale si erge come unica e attuale costruzione della mente mite e praticabile.

Ecco, a questo punto, mostrarsi come il potere della mente sia in grado di costruire ostacoli quasi insormontabili dalla ragione. Ed è significativo l’esame del linguaggio, come veicolo delle credenze più selettive, nel quale parole come “odio” “tradimento” “distruzione” “abbattimento” “nemico” “dittatura” siano mezzi cognitivi usati in modo mirato non solo per infrangere le obiezioni della ragione guidata dalla morale che fa propri i concetti di legalità e giustizia, fondamento teorico dei diritti umani, ma invocandone visioni diametralmente opposte come ha esplicitato Toni Negri in una recentissima intervista pubblicata dal quotidiano il Manifesto, dove ha rimpianto la fine in Italia della “giustizia di massa”, teorizzata da una parte della magistratura negli anni 70, a causa della perniciosa rimonta dei princìpi di legittimità e legalità, che, viceversa, sono il fondamento stesso sul quale si ergono i Diritti Umani, se devono venir presi in considerazione nella loro portata concreta e non solo per la loro valenza astratta.

12È indispensabile, cioè, se si vuole affrontare il tema con serietà d’indagine e non con l’afflato populista, chiarire che i Diritti Umani, superata la loro origine storico-antropologica, si pongono all’interno di un sistema coerente fra una teoria generale del diritto (perché i Diritti Umani appartengono al mondo del diritto e non a quello dei proclami politici) e una organizzazione politica (lo Stato democratico) attenta alla relazione fra liberà e uguaglianza.

Ne consegue la necessità di riconoscere la legittimità di chi è autorizzato a creare diritto (e non un dittatore plurimo come un partito o un singolo come il fuhrer, la cui bocca era la sorgente del diritto, secondo l’accezione di Karl Schmitt), affrontando il rilevantissimo problema del costituzionalismo moderno, che attiene alla rappresentanza politica, questione già esaminata in un nostro precedente lavoro (Settembre, Il paradosso della rappresentanza come finzione necessaria, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 62, luglio 2023), e, quanto alla giustizia, secondo quali standard i giudici devono prendere le loro decisioni nella materia che ci occupa (Settembre,  Etica, Giustizia e Pregiudizio, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 61, maggio 2023) su cui esaustivo e prezioso è l’ampio testo di Ronald Dworkin ( I diritti presi sul serio, Il Mulino, 1982: 8). Si tratta di una questione cruciale che attiene alla portata concreta dei Diritti Umani.

In realtà il diritto come vogliamo intendere in questo succinto lavoro ha a che vedere col destino delle persone in quanto persone, poiché riteniamo che solo così possa cogliersi il riflesso di questo modo di fare giustizia anche sul benessere generale dei gruppi di appartenenza degli individui interessati, e intendiamo con questi i diritti fondamentali, cioè i diritti forti, che attengono alla relazione tra la libertà e l’uguaglianza. Questo perché violare un diritto fondamentale significa «trattare un individuo come se fosse qualcosa di meno di un essere umano, o come se fosse meno degno di considerazione di quanto non lo siano altre persone» (Dworkin, cit.: 289).

marxSosteniamo quindi che non è moralmente lecito credere che il benessere generale, attraverso la violazione dei diritti, migliori nel lungo periodo, poiché «l’istituzione dei diritti si basa sulla convinzione che questa sia una grave ingiustizia e che valga la pena pagare dei costi, in termini di politica sociale o di efficienza sociale» (Dworkin, cit.: 289), a meno di tre condizioni, sostiene l’autore americano, e cioè che si dimostri «che i valori protetti dal diritto non sono realmente in pericolo nel caso specifico o…se il diritto in questione, includendo il caso specifico, leda qualche diritto fondamentale concorrente, o se il riconoscimento di questo diritto determini un costo abnorme per la società in termini di violazione della dignità e dell’uguaglianza» (Dworkin cit.:291). Circostanza che poi, nel nostro sistema costituzionale, attiene al giudizio di costituzionalità delle leggi effettuato col bilanciamento “di ragionevolezza” tra i valori in gioco.

Invero quella di Toni Negri è una pericolosa semplificazione della narrazione delle dinamiche sociali attraverso concetti che attivano le emozioni, evocando paura o indignazione e spingendo il destinatario ad abbracciarne la portata concreta, ma eliminando dall’indagine l’individuo come un essere da proteggere e tutelare. Viceversa, dall’idea di “Giustizia di massa” discende un corollario paradossale, e cioè che dalla frase attribuita  falsamente a Joseph Stalin nel 1932 o 1933 sull’Holodomor: «La morte per fame di un uomo è una tragedia, la morte di un milione è statistica», che ben poteva essere attribuita a Goebbels  o Himmler, ma i 3 milioni e mezzo di morti ucraini  deliberatamente  fatti morire di fame dai russi sono veri, emerge un concetto di massa visto come strumento per la lotta di classe contro la realtà cospirativa del mondo borghese, ritenuto per sua natura irrimediabilmente destinato alla sua «inevitabile implosione finale», sulla scorta della credenza che «non bastano neppure sostegni esterni qua e là, convinzione che sottende invece alle teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes» (Millenium,  Capitalismo in crisi, agosto 2023, Mauro Del Corno).

 E qui siamo nel mondo della pura astrattezza: le masse, i gruppi sociali sembrano prescindere dai soggetti umani che li compongono. In realtà l’elusività di questa affermazione, ridotta a una singola riga rivela moltissimo, senza bisogno che in questa sede si richiami per esteso il contributo di Keynes alla salvezza di milioni di individui condannati alla fame e alla miseria dalla crisi di Wall street del 1929, proprio negli anni dell’Holodomor, talché si rimandano i volenterosi alla lettura delle opere dell’“economista inglese” citato in modo così superficiale. Si pensi a titolo di esempio a come Keynes avesse ideato gli accordi di Bretton Woods, disattesi, ma che avrebbero impedito le drammatiche conseguenze delle crisi della moneta.

41ltbpthhkl-_ac_uf10001000_ql80_Vogliamo invece sottolineare quanto simili atteggiamenti intellettuali mostrino come le prove, i dati di fatto, le evidenze vengano deliberatamente interpretate in un modo capace di confermare una convinzione già esistente, o respinte a priori perché contrarie a un assunto di verità. Questo perché le credenze codificate nelle religioni o nelle ideologie sono conseguenze collaterali di meccanismi innati, che forniscono il collante dei gruppi sociali, e addirittura «motivazioni di carattere idealistico per il sacrificio della vita: così, al prezzo di pochi soldati che muoiono in battaglia» (o di persone stritolate da una giustizia di massa insensibile alla legalità e ai principi del diritto) «una società diventa più efficiente nella conquista o nel resistere agli attacchi esterni»,  poiché «i nostri antenati evolutivi avevano bisogno di un immaginario guardiano morale per domare i loro impulsi animaleschi» (J. Bering, The beleif instinct, Norton e Co. N.Y. 2012 in La scienza dell’incredibile, Massimo Polidoro, Feltrinelli 2023).

Detto questo, la credenza nei diritti umani, quali diritti fondamentali, come una concreta e materiale zona intellettiva riteniamo che discenda da concreti e materiali accertamenti sul campo, e non dagli spazi astratti della morale. È per questo che leggere l’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite, che proclama la finalità di promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione, mostra l’interrelazione tra il mantenimento della pace e sicurezza e il rispetto dei diritti dell’uomo, ma soprattutto l’art. 3  della Dichiarazione Universale del 1948 è determinante per capire quanto e come questo concetto sia concreto e non astratto, perché lì i diritti umani vengono elencati, uno per uno, e perché questa dichiarazione è estranea al concetto di classe, ma, dalla loro lettura, discende costantemente la loro relazione con la tutela della libertà e dell’uguaglianza, il che meriterebbe almeno  un altro lavoro come questo.

Li elenchiamo, dunque:

Il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, al riconoscimento della personalità giuridica, alla tutela da parte della legge, al ricorso ai tribunali, alla presunzione di innocenza e al riconoscimento del principio dell’irretroattività della legge penale, il diritto alla vita privata (famiglia, casa, corrispondenza, onore e reputazione), al matrimonio, alla libertà di movimento e di residenza, all’espatrio e al ritorno in patria, diritto di cittadinanza, alla proprietà privata, individuale e collettiva, diritto alla libertà di  pensiero, di coscienza e di religione e diritto alla libertà di opinione e di espressione; diritti squisitamente politici come di associazione e di riunione, di partecipazione al governo del proprio Paese e di accedere ai pubblici impieghi, nonché di elezioni a suffragio universale e uguale; diritti economici, sociali e culturali, come la sicurezza sociale, il lavoro, la retribuzione, il riposo, l’organizzazione sindacale, l’assistenza, l’istruzione, la partecipazione alla vita culturale e al progresso.

Su ognuno di questi sono stati scritti libri interi, densi di grafici e di nomi, e quanto concreto ne sia il riflesso nella realtà fenomenologica è facile desumerlo sol che si pensi ai nostri giorni, e all’oscena iniziativa della Procura della Repubblica di Padova contro i diritti dell’infanzia finalizzata a distruggere le certezze affettive e quelle giuridiche dei fanciulli. Quanto di più lontano possa dirsi dall’astrazione. Infine la Dichiarazione si chiude richiamando i doveri di ogni individuo verso la comunità e il divieto degli Stati, i gruppi e i singoli, di esercitare attività o compiere atti che pregiudichino i diritti e le libertà enunciati.

cover_9788845923401__id2203_w1200_t1326147327Allora, rimanendo sul terreno della realtà, riteniamo che la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sia una diretta conseguenza di eventi storici come Auschwitz, ad esempio, e non solo, poiché sul punto vanno presi in esame due fatti storico-giuridici: l’apolidia tra le due guerre mondiali e la realtà dei lager e dei gulag, quando la privazione della cittadinanza di esseri umani inseriti nel tessuto giuridico del Paese di appartenenza era la prima mossa per privarli dei loro diritti (ancora i diritti umani) e, così privi di diritti e di ogni tutela, avviarli o alla fuga, in qualità di rifugiati (ancora in gioco i diritti umani, come si  vede) o verso lo sterminio. Vengono in mente le parole di Vassily Grossman in Vita e destino, quando fa dire al colonnello delle SS che si rivolge al bolscevico suo prigioniero: «Il nazismo e il comunismo sono due facce diverse del medesimo essere». Da noi le leggi razziali con i loro mostruosi corollari fecero lo stesso.

 Ben lungi dall’occuparsi di astrazioni, saranno le Dichiarazioni, a cui faticosamente hanno fatto seguito i protocolli e i patti, come la Convenzione sui diritti dell’infanzia (NY 1989) o nel 1966 il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, uno sui diritti civili, e poiché i patti sono veri e propri trattati internazionali (che lentamente vengono ratificati dai singoli Paesi) ma che, come trattati, sono vincolanti per il Paese che li sottoscrive, a porre rimedio a tanto scempio morale, il cui primo impulso venne avviato dalla Società delle Nazioni con l’istituzione del famoso passaporto Nansen, che consentì, ancora più efficacemente dopo il ’45, l’accoglienza dei rifugiati espulsi dai loro Paesi, visti singolarmente e non come meri numeri statistici che compongono la massa.

Tutto ciò è quanto di meno astratto possa darsi sul piano della valenza giuridica di un concetto. Ecco perché riteniamo che, ad esempio, il diritto del soccorso in mare (ampiamente codificato), il diritto di asilo (ampiamente codificato anche nella nostra Costituzione nonché nella Carta di Nizza), il diritto a fuggire dalla morte per inedia, o dallo sterminio per ragioni politiche, razziali, religiose; il diritto dei bambini ad avere cibo e sicurezza, non sono per nulla concetti astratti che peccano di concretezza, sebbene discendano da un fondamentale principio morale (Dworkin, cit.: 338).

convenzione-europea-dei-diritti-dell-uomoMa c’è di più, oltre alla Commissione dei diritti dell’uomo istituita dal Consiglio europeo nel 1946, a Roma, il 4 novembre.1950, viene stipulata la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che entra in vigore nel 1953 (CEDU), e viene istituita la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) incentrata sul riconoscimento di un diritto di ricorso individuale a tutte le persone fisiche, ai gruppi privati e alle Ong che pretendono di essere vittime di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione (art. 34 Cedu). E va detto che il ricorso è esperibile verso ogni Stato firmatario della Convenzione e dà luogo a una sentenza vincolante che può portare a una condanna dello Stato violatore.

Ebbene, tutto ciò è entrato nella Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 ed è assolutamente concreto, tanto quanto è concreta la circostanza che la nostra attuale Europa, abbagliata dalla credenza nella divinità del mercato, sia ancora incapace di sciogliersi dalle pastoie della globalizzazione neoliberista, esposta ai venti dell’interesse e della concorrenza crudele che usa a suo piacimento la libera circolazione del capitale, e perciò ancora più bisognosa della difesa concreta dei diritti umani in tutte le sedi istituzionali e attraverso la capillare funzione dell’informazione indipendente. Ma questo sarà l’oggetto di un prossimo lavoro.

81ethkqzqhl-_ac_uf10001000_ql80_Viceversa, richiamando le attuali argomentazioni, vorremmo asserire che chiunque sia concettualmente favorevole a giustificare o propenso a favorire un qualsiasi sistema politico che pratica la sopraffazione sul più debole, così estraneo alle parole di Michael Gorbačëv (Ogni cosa a suo tempo, Feltrinelli 2013: 460) al conferimento  del premio Nobel: «Dobbiamo rispettare le peculiarità e le differenze che sempre esisteranno, anche quando i diritti umani e le libertà  saranno rispettate in tutto il mondo», lo proclami apertamente e se ne assuma la responsabilità morale, poiché il suo assunto procede da una presunta superiorità morale dello spirito sulla concretezza del pensiero liberale, il cui valore precipuo è proprio la difesa dei diritti, sulla scorta della quale «due passi avanti e uno indietro sono meglio di tre passi sul corpo dei nostri avversari» (Michael Walzer,  cit. Cosa significa essere liberale).

Vogliamo dire che, poiché ci sono individui che descrivono le idee con le parole, poi le parole con le parole, e infine attribuiscono ai fatti il significato delle parole, scavano un abisso tra sé stessi e le persone come esseri umani della ragione, del pensiero e della coscienza, talché diventa doveroso richiamare le parole di Sir Filmer: «Ogni fanciullo, nello stesso momento in cui è nato ha un’importanza pari al più grande e saggio uomo del mondo».

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 

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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.

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