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Disertare per vivere. Dialogo con Paolo Godani

9791256240470_0_0_0_0_0di Ivana Margarese 

Premessa 

Paolo Godani è nato a La Spezia nel 1974. Ha studiato filosofia all’Università di Pisa, laureandosi nel 1997 con una tesi su Heidegger, che rielaborata è diventata il suo primo libro, uscito nel 1999 presso le Edizioni Ets. Per Mimesis nel 2001, ha pubblicato Estasi e divenire. Un’estetica delle vie di scampo, che raccoglie una molteplicità di studi dedicati sia a filosofi (Nietzsche, Heidegger, Bataille, Deleuze) sia a scrittori (Melville, Kafka), inseriti in una cornice teorica costituita dal problema della dissoluzione del soggetto.

Ha svolto un dottorato all’Università di Bologna con una  tesi dedicata al tema dello spazio tra estetica e politica, con particolare riferimento all’opera di Carl Schmitt e a quella di Gilles Deleuze e Félix Guattari,  che ha portato alla pubblicazione de L’informale. Arte e politica (Edizioni Ets 2005). Accanto alla questione dell’individuazione, costituisce uno degli assi della sua ricerca il nesso tra estetica e politica. Un altro tema che ha occupato le sue ricerche, e che peraltro è strettamente collegato con il problema dell’individuazione, riguarda la questione “che cosa significa pensare?”. In questo percorso sono stati soprattutto Bergson e Deleuze, a cui ha dedicato due monografie (Bergson e la filosofia, Edizioni Ets 2008; Deleuze, Carocci 2009) a costituire punti di riferimento e dí interrogazione.

Godani, nella convinzione che il pensiero debba nutrirsi del confronto con le forme di esperienza, di pensiero e di creazione non filosofiche, ha inoltre articolato la domanda “che cosa significa pensare?” anche rapportandosi a peculiari esperienze artistiche (soprattutto letterarie e cinematografiche). Come nel testo, curato assieme a D. Cecchi, Falsi raccordi. Cinema e filosofia in Deleuze, in cui il suo contributo è dedicato soprattutto ad analizzare la relazione (apparentemente inconsistente) tra cinema e pensiero, a partire dalle riflessioni che al tema dedica Antonin Artaud. Particolare attenzione ha destinato al rapporto tra filosofia e romanzo a partire dal saggio su “Proust radiografo. Note su tratto, legge e natura nella Recherche” (contenuto ne La sartoria di Proust. Estetica e costruzione nella Recherche di Proust), in cui mostra la tendenza di Proust a dissolvere l’individualità dei suoi personaggi allo scopo di mettere in luce essenze e leggi di natura impersonale o sovrapersonale.

In Tratti. Perché gli individui non esistono (Ponte alle Grazie, 2020) riflette su come la società moderna si sostenga sulla convinzione che gli individui costituiscano la realtà fondamentale del mondo. Gli individui portano il valore, l’invenzione, l’amore, la ricchezza, sono i mattoni inscindibili dei legami sociali ed economici. Paolo Godani decostruisce questo assunto mostrando come non siamo quelle entità uniche che crediamo di essere. Siamo una costellazione di tratti, ovvero di qualità allo stesso tempo singolari e comuni. I nostri costituenti essenziali, quelli che ci definiscono, non sono quelli che ci distinguono ma quelli che condividiamo con altri.

Nel 2016 pubblica La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo e nel 2019 Sul piacere che manca: etica del desiderio e spirito del capitalismo. Entrambi per DeriveApprodi. Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli, 2025) è il suo ultimo libro. 

Melanconia

Melanconia, Thomassin Simon Henri, 1687

Melanconia e fine del mondo analizza il sentimento della melanconia con molteplici riferimenti letterari, filosofici, politici e esplicita come la postura malinconica non sia soltanto un’attitudine psicologica, ma sia una configurazione culturale e politica. La melanconia – scrivi – è quel sentimento di apocalisse senza escaton, senza via d’uscita, che caratterizza la cultura contemporanea:

«Il sentire melanconico non riguarda questo o quell’oggetto, ma l’inconsistenza di qualunque oggetto, il carattere effimero o la nullità di ogni cosa del mondo. Per il melanconico, un oggetto nuovo non è meno perduto di un oggetto perduto. Perciò non può esistere per lui alcun lavoro del lutto».

Comincio col domandarti per quanto tempo hai lavorato a questo libro che sembra essere il risultato di un lungo processo di studi, anche nel suo indicare una prospettiva rinnovata rispetto al suo stesso oggetto di indagine. 

Come mi capita spesso, anche questo libro è forse troppo pieno di riferimenti a testi e autori. Il libro non è un collage di citazioni, come sarebbe piaciuto a Walter Benjamin, ma è costruito in un dialogo costante con una molteplicità di voci, a testimonianza dell’entusiasmo suscitato in me dall’incontro con loro. Lo studio non è altro che questo: la ricerca continua e la scoperta sporadica di voci e idee che risuonano in noi, che ci fanno dire “è proprio così!”; l’incontro con amici le cui idee iniziano a costituire parte della nostra mente. O anche l’incontro con parole o atteggiamenti che ci ripugnano a tal punto da prenderli a modello di ciò che dobbiamo assolutamente evitare.

Uno di questi atteggiamenti, che costituisce probabilmente il punto di repulsione da cui è nato il libro, è quello di chi da qualche tempo si è messo a tessere le lodi della nostra fragilità, della precarietà o della vulnerabilità costitutiva delle nostre vite. Al di là degli intenti edificanti con i quali queste idee vengono formulate, specialmente nel femminismo contemporaneo, avevo l’impressione che un tale elogio della vulnerabilità portasse in sé lo stesso veleno di cui intendeva essere l’antidoto: voleva essere un modo per difendere la vita e finiva invece per ridurla alla propria impotenza.

Proprio questa riduzione all’impotenza mi sembrava la caratteristica fondamentale della melanconia. Mi sono reso anche conto che un atteggiamento del genere non era una peculiarità della cultura dei nostri anni, ma una sorta di a priori storico della modernità e, in particolare, di quella fase estrema della modernità che è stata il XX secolo. Mi sono accorto, insomma, che è gran parte della cultura nella quale siamo cresciuti a diffondere una Stimmung melanconica. E ho cercato di capire quali fossero i fondamenti di questa nostra melanconia costitutiva.

Per quanto riguarda i tempi di composizione del libro, la cosa è piuttosto curiosa. Ricordo di aver girato a vuoto per molto, di aver raccolto materiale e di aver preso appunto senza sapere troppo bene per quale progetto lo stessi facendo. Ma da un certo momento in avanti, il libro ha preso forma molto rapidamente. Come dice il mio amico David Watkins, in poco tempo si è condensato tantissimo tempo. 

Melanconia, Dürer, 1514

Melanconia, Dürer, 1514

La scena del desiderio introdotta dal pensiero psicanalitico ti permette, attraverso il confronto di Lacan con Lévi-Strauss e Spinoza, di indagare la connessione tra desiderio e sacrificio e tra desiderio e distruzione. Il malinconico abbandona il desiderio visto come inganno e l’illusione di ogni trascendimento. Anche se proprio affermare l’inconsistenza del tutto potrebbe spingere, paradossalmente, verso una visione in cui tutte le cose, compresi noi stessi e le nostre giornate, inizino a valere soltanto per loro stesse.

«Per osservare le cose in questo modo bisogna innanzitutto smettere di intervenire sugli eventi nella speranza di mutarne il corso globale e smettere di considerare le cose del mondo solo come utili strumenti. E soprattutto bisogna smettere di considerare l’ordine del mondo come se fosse un nostro prodotto» – scrivi.

Possiamo, a tuo parere, attraverso la postura malinconica avere una chiave d’accesso a una nuova sensibilità per le cose del mondo, capace di ridare serenità al nostro sguardo? 

Sono partito, certo, dalla melanconia intesa in senso psicologico e clinico, ma con la convinzione della sua insufficienza, cioè con la convinzione (condivisa con un autore a cui dedico grande attenzione, Ernesto De Martino) che anche la tristezza o la depressione che ci avvolge e ci colpisce in quanto individui sia sempre anche un fenomeno di natura sociale, culturale, storica, politica e persino metafisica. In questo senso, credo che la psicoanalisi, per come si è sviluppata nel corso del secolo XX, sia una disciplina che condivide strutturalmente certi assunti antropocentrici, ai quali oppongo volentieri la prospettiva “naturalistica”, intesa nel senso spinoziano del termine: tutte le cose che esistono sono perfettamente naturali, nel senso che sono tutte parti di un’unica natura; l’uomo stesso è una di queste parti, e pertanto non fa eccezione, non è un impero nell’impero della natura, non segue cioè leggi sue proprie, ma, come ogni altra cosa, segue le leggi che governano il tutto.

Tra le diverse forme di melanconia che cerco di distinguere nel libro, ce n’è una che mi pare particolarmente interessante. È la melanconia consapevole, e consapevolmente nichilista, di chi non solo crede che la vita, la storia, il mondo non abbiano alcun senso, ma combatte anche attivamente per distruggere ogni “fede” (religiosa o umanistica, poco importa) che tenti di nascondere o minimizzare questo fatto. Credo che il melanconico nichilista abbia una funzione decisiva nella nostra cultura, perché è insieme colui che smaschera definitivamente le imposture fideistiche e però anche colui che, così facendo, ci spinge in un baratro di disperazione.

Il punto è che questo baratro è lo stesso che le fedi si pongono il compito di superare. Il punto, cioè, è che il melanconico nichilista, senza saperlo, condivide con il suo nemico lo stesso punto di partenza, la stessa desolata visione del mondo. C’è da stupirsi a osservare sino a che punto siamo certi che la nostra vita, come tutte le cose, siano pressoché nulla.

Non credo possa essere la postura melanconica in quanto tale ad aprirci a una visione differente, ma forse quello che ho chiamato il rovescio della melanconia sì. Sarebbe un discorso lungo da fare qui, ma il fatto è che in certi atteggiamenti melanconici si riflette, rovesciata, un’altra esperienza del mondo. Nel melanconico, per esempio, la capacità ricettiva del corpo e della mente è così ridotta che egli non percepisce, di ogni cosa, se non la sua piatta insignificanza. Ma questa stessa riduzione, che nel melanconico assume tratti dolorosi, è anche alla base di un’esperienza panteistica, con cui si percepisce che anche la più insignificante tra le cose esistenti è parte di un unico tutto.

Oppure, per fare un esempio ulteriore, il melanconico vive nella più completa assenza di ogni speranza. Ma questa stessa assenza, che in lui coincide con la più atroce disperazione, è anche la condizione per non perdere il contatto con il presente in vista di un’ipotesi di futuro e, con ciò, per assentire a quanto c’è di felice nel presente delle nostre vite. 

Il melanconico, Jacques de Gheyn II, 1600 ca.

Il melanconico, Jacques de Gheyn II, 1600 ca.

C’è un paragrafo intitolato “Marxismo e melanconia” in cui parli di una comunità reale” che il lavoro non è più in grado di prefigurare e ipotizzi un rinnovamento del nostro modo di abitare, pensare, agire che esprima una vita e un mondo eterogenei rispetto a quelli che dominano nelle società capitaliste rette dalle armi, dalla prassi, dalla storia e dal progresso. Si tratta di un suggerimento anche in ambito specificatamente politico? 

Assolutamente sì, e proprio in ragione di quanto dicevo ora sulla speranza. Mi pare che alcuni giovani vedano con grande lucidità la situazione attuale, quando si dichiarano, più o meno ironicamente, “ultima generazione”. Ci comunicano che loro non hanno più niente in cui sperare. Ma questo vuol dire diverse cose. Vuol dire, innanzitutto, che non hanno più alcuna intenzione di partecipare alla giostra feroce della competizione, di credere nel lavoro, nel futuro, nella storia, di legittimare un potere economico e politico, ma anche un modo di vita, che ci sta conducendo non solo alla catastrofe climatica, ma anche alla guerra planetaria. Di questo rifiuto, di questa diserzione, la melanconia è il sintomo. Ma il rifiuto deve a sua volta rovesciarsi in modo che la diserzione si presenti per ciò che è: una forma di vita.

I movimenti che negli ultimi sessant’anni si sono richiamati, in un modo o nell’altro, alla tradizione marxista nutrivano ancora la convinzione di essere la punta più avanzata della storia, e per questo, nonostante il loro antagonismo, hanno partecipato volenterosamente alla costruzione della società nella quale viviamo. Ora iniziamo forse a capire che il compito di un movimento rivoluzionario non può che essere di rompere quest’alleanza antagonistica, di dismettere ogni collaborazione, di interrompere il corso dalla storia. 

Nel testo fanno più volte capolino delle considerazioni sulla felicità e sulla storia di Elsa Morante, in particolare facendo riferimento a quanto la scrittrice dice ne La storia e nella Canzone degli F.P. e degli I.M.

Ricordi il piccolo Useppe che, a dispetto della malattia, vive felicemente tra le cose che sono, tra le cose reali, senza consumarsi nell’ossessione malevola che fissa sempre e soltanto ciò che manca. Questo cantico delle piccole cose, degli eventi quotidiani capaci di rivelare allegrezza, potrebbe essere un’alternativa di resistenza anche etica alle logiche della fretta e dell’accumulo in cui viviamo? Ritieni che anche autrici come Anna Maria Ortese o Cristina Campo possano essere rilette oggi in tal senso? 

Se parlo della necessità di “interrompere il corso della storia”, è anche perché ho imparato la lezione di Elsa Morante. Credo davvero che oggi La storia, insieme alla Canzone che ricordavi, siano testi politici più importanti e più attuali di quelli della tradizione operaista e post-operaista, alla quale mi sono formato. Scritti tra il 1968 e il 1974, sono manifesti di diserzione. Ma lo sono perché, accanto alla denuncia dello scandalo della storia, c’è un inno alla gioia, cioè l’idea – che a molti apparirà da anime belle – per cui l’unica lotta efficace non è quella che consuma le proprie energie nel conflitto con il nemico, ma quella che è capace di tenere accesa la fiamma di una felicità possibile.

Conosco poco Cristina Campo, ma mi pare, come suggerisci, che Anna Maria Ortese, in questo, non sia distante da Morante. 

Melancolia,

Melancolia, Hans Sebald Beham, 1539

Nello studio su Kafka, Walter Benjamin scrive che «Umkehr è la direzione dello studio che trasforma la vita in scrittura» (Benjamin 1995: 304). E poche righe oltre: «la porta della giustizia è lo studio».

Mi sono venute in mente alcune considerazioni di Agamben per cui in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza di una vita sottratta a scopi utilitari in cui vita e pensiero sono uniti. Anche tu affermi che il conoscere (lo studio) non è e non può essere un’attività formale, fredda, disinteressata, giacché esso produce in noi una gioia attiva che sottrae al gorgo delle passioni e ci consente quella che Spinoza chiama acquiescientia in se ipso. Mi piacerebbe concludere con una tua considerazione in merito. 

Tocchi diversi punti decisivi. Intanto, perché nomini due autori che per me sono diventati sempre più importanti. Credo che Giorgio Agamben, in particolare nei testi degli ultimi dieci-quindici anni, nei quali elabora le nozioni di forma di vita e di inoperosità, abbia prodotto l’unica opera di filosofia e di teoria politica all’altezza del nostro tempo. D’altra parte, il tuo riferimento a Benjamin mi permette di precisare, innanzitutto, la portata politica di quanto cercavo di dire. Il rapporto tra la felicità e la storia non è quello tra il fine e lo sviluppo che serve a conseguirlo; la felicità è come perpendicolare alla storia, la taglia in ogni punto del suo corso e la sospende in ogni istante. I movimenti rivoluzionari che vogliono mettere fine a un certo stato di cose, a un’oppressione o a una carneficina, non lo fanno in vista di una società a venire, ma sempre e solo in funzione della felicità che quella stessa interruzione comporta, sia in quanto mette fine a uno stato di cose insopportabile, sia in quanto lascia così emergere un elemento non storico che la storia intendeva trascinare via. Ma accade qualcosa di analogo anche quando l’amore fa irruzione nella nostra esistenza: tutto, nella vita, sembra procedere come prima, ma è come se un’intera zona dell’esistenza si fosse immobilizzata attorno al momento d’amore. La forza che deriva da interruzioni di questo genere può essere immensa e deriva interamente dal fatto che a nessun costo vogliamo più abbandonare quel momento, lasciar scivolare via quella forma che ha fatto irruzione nella nostra vita.

Lo studio, infine. Intendo questo termine in un senso ampio, che comprende la lettura, la scrittura, la pratica artistica, ma anche la contemplazione del mondo e persino la fruizione dell’amore e dell’amicizia. Lo studio è quella forma di vita in cui la vita possiede una forma che basta a se stessa, in cui il vivere, in questa forma, non richiede più alcuna finalità esterna per giustificarsi. Si studia, si scrive, si coltiva un’amicizia, ci si innamora, si guarda un paesaggio così come si respira. E viceversa si respira come se si stesse contemplando un paesaggio.

Inteso in questo senso, direi che lo studio è come l’istituzionalizzarsi delle interruzioni di cui parlavo. È l’unica forma di vita che, per sua stessa natura, è capace di resistere alla furia della storia e all’idiozia dell’essere informati. Quando uno studente ha un’idea vera su qualcosa, quando contempla se stesso e il mondo, la fuga della sua vita si blocca e lui o lei inizia a vivere sul posto, a percepire l’essere senza tempo del mondo. Per questo, se c’è qualcosa che ogni potere si impegna a distruggere (magari finalizzandolo all’acquisto di competenze utili al lavoro o allo sviluppo della scienza) e che noi abbiamo il compito di difendere con tutte le nostre forze è la possibilità prima di incontrare e poi di praticare una vita di studio. Se mai esisteranno delle comunità di disertori – e stanno già iniziando ad esistere – la loro potenza politica risiederà interamente nell’ostinazione con cui coltiveranno lo studio, cioè di nuovo l’amore, l’amicizia, la contemplazione. 

Scrivi che non aver ancora abbandonato le armi della prassi, della storia e del progresso significa non esser stati sufficientemente radicali e ti avvicini, mi pare, nelle tue riflessioni a una visione che spinozianamente abbia uno sguardo sulla realtà sub specie aeternitatis.

Ho riflettuto leggendo il tuo testo, anche attraverso i miei personali percorsi – l’ammirazione che ho per gli scritti di Walter Benjamin e di altri filosofi contemporanei fino a risalire ai furori di Giordano Bruno –, e ritengo molto difficile in una società come la nostra, in cui anche la fruizione della “natura” finisce inscatolata in logiche mercenarie, sottrarsi a una forma mentis orientata al progresso. “Stare dove si è” per quanto ineludibile mi pare una sfida assai complessa. Non so se tu puoi aiutarmi a riflettere meglio su quanto mi chiedo. 

È molto difficile, certo. E non lo è soltanto per chi vive nella nostra epoca. Stare ai margini o “vivere nascosti”, come invitava a fare Epicuro, non è mai stato facile. E non perché implichi chissà quale virtù personale, ma perché è estremamente difficile che si diano le condizioni materiali minime per una scelta del genere.

Ma ho l’impressione che la nostra situazione sia paradossalmente favorevole, nel senso che non abbiamo altra scelta. O meglio, l’altra scelta è quella di continuare a correre allegramente verso il baratro della catastrofe climatica e della guerra. Credo che per le generazioni più giovani e per quelle che verranno la scelta tra partecipare alla macchina capitalistica e disertare (per utilizzare il termine caro a Franco Berardi, a cui il mio libro è dedicato) diventerà sempre più impellente.

Perciò è essenziale iniziare non solo a pensare, ma a costruire le condizioni materiali della diserzione. 

Melanconia, De Chirico, 1912

Melanconia, De Chirico, 1912

Conclusioni 

Sulla cultura degli ultimi due secoli segnata da una tristezza radicale, pensata come irredimibile, si interroga Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli 2025), l’ultimo saggio del filosofo Paolo Godani, muovendo dal presupposto che la melanconia non sia un fenomeno di natura “personale”, ma sociale, culturale e storico. È solo nel mondo moderno, infatti, che la melanconia si accompagna a una radicale perdita del senso del mondo nella convinzione che ognuno di noi viva sostanzialmente all’interno di sé, separato dal tutto, determinato da tendenze che definiscono la nostra unicità e che la espongono costantemente alla percezione di un mondo privo di senso.

La riflessione di Godani ipotizza la possibilità di “interrompere il corso della storia” attraverso uno sguardo che invece che aver fretta di trasformare e manipolare la realtà sia in grado di contemplarla e conoscerla. Uno sguardo capace di vedere il bene delle cose in vista di un’ipotesi di futuro non conflittuale. Un invito a “disertare”, come scriveva Franco Berardi a cui questo libro è dedicato, dandosi un orizzonte differente da quello in cui siamo situati. Con le parole di Paolo Godani: «Si studia, si scrive, si coltiva un’amicizia, ci si innamora, si guarda un paesaggio così come si respira. E viceversa si respira come se si stesse contemplando un paesaggio». 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025

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Ivana Margarese, fondatrice e direttrice editoriale della rivista Morel, voci dall’isola. Ha conseguito un dottorato in Studi culturali e un postdoc in Cinema documentario presso l’Università Elte di Budapest. È stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato Ti racconto una cosa di me (Edizioni di passaggio 2012), I miti allo specchio (Mimesis 2022) e Tra amiche (Les Flâneurs, 2023) e ha pubblicato racconti in diverse antologie. Di prossima pubblicazione Il tempo è un altro. Colloqui con Anna Maria Ortese ( Iacobelli 2025). Fa parte della Società italiana delle letterate e collabora con le riviste Leggendaria e Letterate Magazine.

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