Quando, quasi per caso, venni a conoscenza della rivista Dislivelli l’interesse si manifestò fin dalla prima lettura. Ebbi la chiara percezione della disponibilità di uno strumento open source di largo respiro con il focus sulle aree periferiche, e solitamente svantaggiate, senza frontiere localistico-territoriali né barriere di carattere culturale. È da allora che la seguo con critica attenzione.
Scorrendo gli articoli si ha sempre la chiara percezione che la rivista sia una vera e propria arena aperta ai contributi che conducono alla riflessione su un’ampia gamma di problematiche; ed è proprio per questo che rappresenta anche un sostanzioso contenitore da cui attingere spunti utili al confronto tra situazioni diverse, per l’ideazione e la promozione di azioni volte al contrasto delle dinamiche degenerative eventualmente in atto nei territori di specifico interesse. Ciò è possibile perché gli articoli proposti sono sia specialistici che multidisciplinari, ma non per questo fruibili soltanto dagli addetti ai lavori. Tale strutturazione è particolarmente utile, perché la complessità del ridare vita e dignità alle aree più interne e marginali ha mille sfaccettature, che possono essere adeguatamente interpretate e affrontate solo e soltanto in modalità interdisciplinare.
Trovo particolarmente interessante lo spazio riservato a La narrazione, perché è proprio dal racconto delle situazioni locali, delle idee messe in cantiere, delle esperienze vissute, dei risultati ottenuti, degli errori compiuti e dei fallimenti più clamorosi che si possono estrapolare elementi utili alla traslazione in altri contesti.
Questo breve contributo altro non è che una rapidissima rassegna di alcuni dei punti salienti che mi hanno particolarmente colpito nella lettura degli articoli recentemente pubblicati nel numero 94 della rivista, proprio nel capitolo de La narrazione. L’intenzione è di rapportare i contenuti rilevati alle situazioni del «cuore profondo delle valli e [d]ella cosiddetta terra di mezzo, o media montagna» (Camanni) appenninica a me note e che conosco meglio. La possibilità di «Riportare alla ribalta temi centrali e oggi considerati “poco sexy” come la salvaguardia del creato, la sostenibilità ambientale e l’importanza dell’equilibrio degli ecosistemi» (Dematteis) è nel contempo una sfida e un’opportunità che non concede più margine di procrastinazione, anche e soprattutto nel contesto politico/culturale che sta attraversando l’Italia. In questa ottica, la complessa strategia proposta, basata sul costruire una “rete” e fare “squadra”, non può che aprire l’aspettativa di buoni sviluppi.
«Il grido delle aree interne» (Tantillo), che mi vede pienamente partecipe, dato il drammatico processo di spopolamento che sta vivendo il territorio da cui provengo, ha l’opportunità di avere la collocazione centrale che da sempre merita, e che da sempre è stata mortificata dal freddo criterio dei numeri: se si è in pochi si ha scarso peso politico, se si è in pochissimi non si conta nulla. È questo un altro presupposto che spinge verso l’obiettivo di fare “rete”, unico modo per rendere quel «grido» meno flebile. L’essere in rete può rendere meno arduo mettere mano e finalmente smascherare i nervi scoperti del «sindacalismo territoriale» e dei «rentiers del sottosviluppo», che non mancano mai e ovunque. Tale azione coraggiosa, promossa nelle pagine de La narrazione, può e deve portare alla luce coloro che agiscono in seno a quelle losche categorie, perché soltanto svelandoli e divulgandoli nel modo più ampio possibile se ne potranno rafforzare lo spirito e l’azione di contrasto.
La mia formazione, l’attività professionale che svolgo e i principali caratteri naturalistici del mio territorio, rendono particolarmente coinvolgente la questione della «continua interazione uomo-natura basata su equilibri fragili e peculiari» (Bonardo). In molti ambiti appenninici, a causa dell’inarrestabile abbandono che ha fortemente ridotto la pressione antropica, l’interazione uomo-natura si è fortemente attenuata, e in taluni casi addirittura interrotta. Differentemente da quanto descritto per le aree alpine, in Appennino questa novità non ha favorito i «ritorni» ma la “permanenza” di specie faunistiche storicamente presenti; comprese quelle che si caratterizzano per la problematica convivenza con l’uomo ma sono di indiscusso pregio conservazionistico, come l’Orso e il Lupo.
La complessa ma possibile coesistenza delle attività antropiche con queste pregevoli componenti ecosistemiche è spesso negata proprio dai «rentiers del sottosviluppo», che anche attraverso la sistematica denigrazione di entrambe le specie sono riusciti e riescono a trarre consenso, e profitto. Sciagurata dinamica spesso sostenuta da una politica ingerente. Per rendersi concretamente conto di tutto ciò, basta un minimo di curiosità e la volontà di non tacere sulle dinamiche in atto, per scoprire che la gestione di alcune Aree Protette, degli Ambiti Territoriali di Caccia e delle foreste è spesso affidata a “figure amiche” ma scarsamente idonee per profilo formativo e competenze; con l’effetto ormai tangibile di «perdita della biodiversità e [...] danni al patrimonio boschivo».
L’affermazione che «I santuari del turismo alpino tirano avanti grazie a robuste iniezioni di soldi pubblici mentre le Alpi profonde rimangono senza le prerogative minime per la sopravvivenza delle comunità» (Camanni) può essere integralmente traslata a molte realtà dell’Appennino, seppure con presupposti e risultati localmente diversi; fenomeno sul quale l’approccio narrante di Dislivelli sta creando le condizioni per fare chiarezza.
Date le precarie condizioni della mia terra d’origine, mi ha positivamente toccato leggere che in Appennino «dovremmo tornarci [e che, nei paesi] vi è un luogo dove le persone si scambiano parole, incontrandosi casualmente. E conoscendosi, o riconoscendosi, si incontrano per chiacchierare. È qui che la piazza ha un suo specifico tempo dell’incontro» (Molinari). Mi sono sentito a casa quando ho letto: «Ci sono alcuni luoghi in Appennino dove non vi sono botteghe né negozi» (Molinari), e di riflesso ho pensato che ci sono altri luoghi, in Appennino, in cui l’ultima bottega ancora c’è, ma sta per chiudere.
Casualmente, qualche giorno prima di dedicarmi a questa breve recensione, ho inviato in visione alla redazione di Dislivelli un breve articolo in cui ho provato a descrivere le sensazioni che si vivono in un paese di «media montagna» che sta per estinguersi. Tra l’altro, proprio a proposito di «piazza» e di «botteghe», ho “narrato”: «Ritrovarsi, al mattino, con l’ultimo negoziante che ancora ha il coraggio di alzare la serranda, sentirsi dire che non ce la fa più, e che intende chiudere, perché le tasse sono troppo alte e gli introiti sempre più bassi, che il suo incasso giornaliero farebbe ridere il più misero tra i negozianti di pianura, e che non c’è più margine … questa è la [mia] montagna». Eventi tristissimi come questo potrebbero essere evitati, ma «Solo la politica può farlo, e la politica non lo sta facendo. Non ci sta nemmeno pensando» (Camanni).
Voglio chiudere esprimendo totale ammirazione per gli sforzi compiuti e sana invidia per gli eccellenti risultati ottenuti in Sud Tirolo. L’apprezzamento per coloro che «Le alpi [le vedono] dall’Alto (Adige)» (Membretti & Ravazzoli) pone le fondamenta nella loro provata capacità di non cullarsi sugli allori, di avere una visione critica su ciò che potrà accadere in futuro, nel porsi per tempo il dubbio su dove potrà portare il trend di sviluppo in atto, sul coraggio e l’inconsueta sensibilità del rimarcare che «nella cosiddetta terra di mezzo, o media montagna, in luoghi sospesi tra il divertimentificio e la rovina, in cui trionfa la proprietà indivisa e i valligiani spesso invidiano la gente di città senza trovare il coraggio di andare via» (Camanni). I valligiani ancora restano perché, forse, in quei luoghi una speranza di futuro ancora c’è; mentre altrove, dove la speranza non c’è, l’esodo continua.
È in questa vasta complessità contestuale che lo spazio de La narrazione assume un ruolo cardine. Avere l’opportunità di leggere che qualcuno ce l’ha fatta, e poter conoscere qual è il percorso seguito, può dare a molti luoghi della «media montagna» dell’Appennino quella speranza che manca.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia ed ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) ed ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza di Roma” (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica, Scienze della Vita e dell’Ambiente). Per passione studia la cultura del Cicolano, ed ha pubblicato saggi sull’emigrazione stagionale, la poesia pastorale e le cronache paesane della prima metà del secolo XX. È autore di alcune monografie, tra le quali La Lenticchia di Rascino; I racconti di briganti; La caccia al lupo nel secolo XIX; Il maiale; La Biancòla; Il corredo della sposa.
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