il centro in periferia
di Stefano Morandini
Vorrei raccontare la mia quarantena che è iniziata come insegnante a fine febbraio con il non ritorno a scuola dopo le vacanze di carnevale e pochi giorni dopo come ricercatore del progetto “National Borders and Social boundaries in Europe: the case of Friuli” del Graduate Institute di Ginevra [1]. Da sei anni insegno in una scuola superiore di Tolmezzo, il capoluogo della Carnia, la regione alpina del Friuli-Venezia Giulia, e questo mi permette, attraverso i ragazzi, delle forti connessioni con il territorio. La Carnia, fin dai primi anni Ottanta, ha rappresentato l’orizzonte di ricerca della demografia storica per il gruppo dell’Università di Trieste riunito attorno a Metodi e Ricerche, ma ha anche dato un contributo importante all’etnografia alpina.
I primi giorni sono stati di assoluto smarrimento, le ore scandite da lunghe telefonate con gli studenti, amici, il collega antropologo Alessandro Monsutti che stava per raggiungermi in Friuli per continuare la nostra ricerca sui confini, e i primi di marzo, in poche ore, in una notte, tutto questo si è fermato. Dopo un primo periodo di assoluto smarrimento, l’amico Vanni Treu che si occupa di formazione e da anni anima il dibattito sulle aree interne, mi ha chiesto di commentare un articolo de l’Espresso di Marco Pacini, che raccontava proprio di alcuni paesini della montagna friulana: “Nei villaggi della Carnia spopolata dove chi è rimasto vive da anni in quarantena”[2]; il tema non era certo nuovo, come in ogni posto di montagna la gente negli anni Cinquanta e Sessanta ha inseguito il lavoro, stabilendosi in pianura e tornando in montagna nei fine settimana o durante l’estate.
Un esercizio questo, di autoriflessione che faccio ogni mattina scorrendo i nomi dei pochi alunni delle mie classi, pochi e distanti tra loro, ancora di più in questo tempo dove la montagna si percorre nella direzione degli impianti di risalita e non più in quota attraverso i sentieri come si faceva un tempo. La domanda che suggeriva Pacini, nel suo articolo era stimolante: “Ma quale è il senso del distanziamento sociale nei villaggi di montagna?”, e la riflessione continuava in un commento di Treu: «bisognerebbe aver provato, almeno una volta nella vita, a sorvolare l’Italia di notte: ci sono aree completamente buie, senza alcuna luce. Quelle sono le zone delle aree interne, sia delle Alpi che degli Appennini. Sono i luoghi del silenzio. Sono i villaggi dai camini spenti. Eppure, per loro, come per un condominio in centro a Milano, esiste un Decreto che limita le libertà».
Tra le parole “nuove” che sono entrate nelle nostre case durante la quarantena, una mi aveva colpito più di altre, perché non riuscivo ad abituarmi a queste nuove pratiche a cui dovevo continuamente sottostare (confinamento, guanti, distanze, strisce colorate, file, mascherine, segnali, avvisi, cartelli); per questo ho cercato, parlando con Vanni Treu, di esorcizzarne gli esiti sociali già drammatici ed è nato #distanziati, un progetto per costruire un videoracconto della montagna friulana.
La prima crudele forma di distanziamento è stata quella di cui noi tutti abbiamo fatto esperienza mediata dalla televisione, dei malati chiusi nei reparti, privati delle parole, delle lacrime, degli abbracci dei loro cari, nel momento più difficile della loro vita e forse anche l’ultimo. In tutte le culture, l’elaborazione del lutto ha bisogno di rituali fatti di gente che si stringe, di parole sovraccariche di partecipazione, di pianto collettivo, di cortei funebri, dove ognuno mette i piedi sulle orme dell’altro, creando movimento, immedesimazione, comunità del dolore e nel dolore. Tutti noi abbiamo necessariamente sostituito queste pratiche, accompagnando con lo sguardo attonito e distanziato, i lunghi serpentoni di camion militari o le fosse comuni scavate dal Bronx a Manaus.
Il distanziamento sociale è e sarà la regola, ne discutiamo anche in questi giorni a scuola e questo ci costringerà a mutare il nostro modo di stare nella società, e non mi riferisco naturalmente agli inutili divisori in plexiglas delle spiagge o peggio ancora delle aule scolastiche, ma ad un vero e proprio ripensamento dei comportamenti, della fruizione degli spazi, fino ad arrivare forse ad un rovesciamento del rapporto tra centro e periferie. Se c’è qualcuno, che su questo ci può insegnare qualcosa sono gli abitanti della montagna friulana e non, che dagli anni Sessanta hanno difeso un territorio, che è diventato, man mano, periferia di periferie, dove l’isolamento, il distanziamento, la solitudine sono pratiche agite quotidianamente. Questa però, è un’eredità scomoda e non richiesta, la pianura e la città continuano a consumare spazi e risorse, condannando queste zone al destino anagrafico dei piccoli numeri. Ormai siamo davanti ad un destino inesorabile che non permette di tornare indietro, dove un tempo la presenza militare era anche una fonte di sostentamento (100 mila militari arrivavano ogni anno in Friuli dall’Italia intera e ci passavano quindici/dodici mesi della loro vita): ora di tutto questo rimane solo lo spettro della cortina di ferro, un gigante disteso e disarmato lungo un ex confine fatto di caserme/bunker/poligoni/opere militari che nella maggior parte dei casi non hanno trovato un nuovo riutilizzo [3].
#Distanziati è diventata, in poche ore, una pagina FB dove far incontrare le esperienze della quarantena, narrata attraverso parole, fotografie, video, poesie, una comunità di circa mille persone che due volte al giorno si davano appuntamento in questa piazza. Questo contenitore riempito di testimonianze, affettività, parole, immagini è durato per tutto il periodo del distanziamento, raccogliendo ogni genere di materiale dalla Carnia ma anche dalla Lombardia, dalla Valle D’Aosta, dal Piemonte, dal Veneto, dalla Svizzera, dalla Slovenia: una sorta di onda di risonanza che si è propagata da sola, rimbalzando tra i profili FB.
Da studioso dei confini un secondo aspetto, mi ha colpito, ferendomi, la chiusura delle frontiere di Slovenia e Austria, prima presidiate dalla polizia e poi chiuse con metodi antichi: giganteschi massi sulla carreggiata, blocchi di cemento, transenne, new jersey. Tutto questo, visto dal Friuli-Venezia Giulia è sembrato una forma di tradimento verso le comunità linguistiche slovenofone, ma non solo, che hanno da sempre intrecciato rapporti, sviluppati a cavallo del confine. Il confine fino a quando non diventa ‘frontiera’ è uno spazio grigio, indefinito dove da una parte e dall’altra nottetempo si passava, nascondendo tabacco, caffè, carne, zucchero, stecche di sigarette da contrabbandare, nascosti in lunghe tasche di tela cucite tra le sottovesti delle donne o nei calzoni degli uomini, vi partecipavano anche i bambini.
Da tempo assieme al collega Alessandro Monsutti, discutiamo di rapporti tra Stati durante la Guerra fredda, di confini che non esistono ma che sono solo retoriche, ed ecco, che a causa dell’emergenza Covid-19 la Slovenia ha chiuso tutto in una notte mentre a Bruxelles si discuteva sulla possibilità di interrompere l’area Schengen. Ho chiesto subito delle fotografie ad un mio studente goriziano che le ha scattate dalla sua finestra, da dove si scorge un valico di seconda categoria, le conserverò assieme a quelle della guerra d’indipendenza slovena, con i carri armati schierati che temevano un’invasione da parte italiana, così gli era stato raccontato, e a quelle dei discorsi europeisti con i politici allegri che brindavano ad un futuro di reciproca collaborazione.
Volevo portare l’esperienza di #Distanziati tra i miei studenti della quinta. Stavano attraversando, loro malgrado un’esperienza unica, chiusi nelle loro stanze ci siamo guardati in questi mesi di didattica a distanza, lontani, assonnati, in eterno equilibrio tra connessioni lentissime e disconnessioni frequenti, la montagna è anche questo, si chiama digital divide e anche in questo lo svantaggio riguarda principalmente le aree interne, poco abitate e quindi poco interessanti per i gestori.
Forse ho capito molto più io, attraverso la didattica a distanza, di loro: li osservi mentre tu cerchi di spiegare le cause della Seconda Guerra mondiale e loro ti interrompono per chiedere del loro compagno di classe che non si connette mai; questa è una nuova umanità che non vuole lasciare nessuno indietro e che non ha nulla a che fare con l’Europa o con i popoli, queste sono persone e hanno capito e noi con loro che siamo fatti di relazioni. Ho chiesto loro, di lavorare sulle emozioni che li attraversavano, paura, fragilità, solitudine, attese per il futuro e di mandarmi i pensieri sotto forma di file audio con alcune foto della loro quotidianità. Tutto ha preso una forma sul mio computer, si è quasi creato da solo, componendosi con alcune immagini che avevo registrato durante l’anno nei laboratori, mentre ancora erano spensierati e rincorrevano con gli occhi, cercando l’obiettivo della mia telecamera. È nato così un capitolo scolastico di “#distanziati. Videoracconto della 5 PIA”, si può guardare qui: https://youtu.be/ETe4QJZg6Xg e diventerà, tra pochi giorni, il punto di partenza per il loro esame di maturità.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Finanziato dal FNS, Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica.
[2] L’Espresso del 12 aprile 2020.
[3] Un buon esempio di recupero è questo, descritto in Place of Memory di Stefano Morandini ed Alessandro Monsutti: https://youtu.be/nwazIj1XoAg.
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Stefano Morandini, antropologo/insegnante, nel 2003 si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi sul Carnevale/Pust nell’area di contatto friulano-slovena. Nel 2008 ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Udine (Ph. Degree) in Storia. Culture e strutture delle aree di frontiera (tutor prof. Gian Paolo Gri) con un progetto di ricerca dal titolo: La dimensione delle relazioni interetniche nella struttura rituale delle comunità di frontiera (Valli del Torre e del Cornappo). Nel 2012 ha conseguito la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia con una tesi in Antropologia del Patrimonio (relatore prof. Pietro Clemente) dal titolo “Le Storie macinate di ‘Sef mulinar”. Dal 2008 è aggregato al Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Udine. Attualmente è senior research nel progetto di ricerca internazionale “National Borders and Social Boundaries in Europe: the case of Friuli”. È autore di numerosi studi che riguardano l’antropologia visuale, linguistica e museale.
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