dialoghi sul negazionismo
di Lella Di Marco
Come stiamo vivendo? Come è possibile opporre resilienza per non soccombere e in che modo stiamo cambiando? Abitiamo un tempo malato. Tutti hanno scritto e scrivono di tutto su tutto, le posizioni sono tante ma le incertezze e le dissonanze anche fra le voci degli scienziati rendono ancora più incoerenti e vuote le certezze dei politici. Il caos sotto il cielo è grande. Le uniche certezze sembrano essere quelle dei negazionisti, di chi nega verità e realtà con toni assertivi e di disprezzo. Io stessa, per esempio, assisto al mio quotidiano cambiamento: non mi fido più né di statistiche né dell’informazione ufficiale, e tanto meno della comunicazione politica che continua ad essere deviata e destabilizzante. Ho curiosità normali, da persona umana non indifferente. Voglio conoscere per capire perché nonostante il distanziamento mi sento parte della comunità per la quale intendo ancora spendere il mio tempo e le mie energie. Così incontro a Bologna persone soprattutto appartenenti a comunità non italiane, genitori con bambini, giovani studenti, donne, anziani. Li osservo, cerco pretesti per parlare con loro, leggere tra le righe le loro ansie, la fatica del quotidiano, ma anche la sofferenza dell’isolamento e la voglia di socialità e magari di “normalità”.
Quasi tutte le comunità straniere vivono in città dentro un orizzonte di insicurezza con la percezione di un pericolo che incombe, un sentimento più forte e più sensibile dei nativi. Reagiscono rinchiudendosi in se stesse, intensificando con la tecnologia i rapporti con i familiari rimasti nei paesi di provenienza. È acuta in ciascuno di noi la paura del contagio per cui l’altro è sempre visto come un potenziale untore, tanto più se straniero, se è islamico. E negli stessi musulmani la percezione dell’islamofobia ha alimentato quella che Samir Kassir ha definito “l’infelicità araba” in un suo testo tradotto e pubblicato in Italia nel 2006 da Einaudi. È appena il caso di ricordare che Kassir da storico e giornalista ha animato per due decenni la vita intellettuale e politica libanese incrementandone la vocazione democratica. Gli arabi a Bologna hanno chiuso la moschea e si sono rifiutati di festeggiare l’Aid collettivamente come gli altri anni, mentre durante il Ramadan sono riusciti a garantire un pasto caldo alla sera a chi non aveva una casa e una famiglia.
Credo che i loro figli, più dei genitori, stiano vivendo un periodo di maggiore sofferenza ed estraneità, privi della socializzazione che la scuola significa e delle relazioni con i loro coetanei. Alcuni di loro mi hanno detto che vivono una vita non loro. Rifiutati dagli italiani, risentono il clima di odio e ostilità nei loro confronti e spesso subiscono anche aggressioni violente per le strade, senza motivo, soltanto perché dei bulli, incontrati per caso, vogliono fare sentire la loro voce e la loro forza bruta. Sicché lo stare da soli in casa o con figli di loro connazionali è una forma di difesa e di allontanamento del pericolo. Questi ragazzi nati in Italia, non hanno avuto una educazione religiosa rigorosa, spesso non parlano neppure l’arabo, non si sentono islamici né attratti dall’ISIS che considerano gruppi terroristici telecomandati come emanazione di chi, nel mondo arabo, ha interesse a ostentare una prova di forza da opporre al rifiuto dell’Occidente nei loro confronti. Da una parte considerano la religione musulmana soltanto abitudine, tradizione, conformismo. Dall’altra, non avendo una lingua in comune con genitori, preferiscono affidare i loro pensieri, il loro vissuto alla musica rap in compagnia della quale si sentono vivi. Non hanno un loro spazio così sono orgogliosi di dare vita con la loro musica a spazi abbandonati, non luoghi, direbbe Augè, privi di identità urbanistica. Le loro madri si barcamenano a fare quadrare il bilancio per la spesa giornaliera, mentre alcuni padri hanno perduto il posto di lavoro.
Molti esercizi commerciali cinesi hanno riaperto l’attività, in genere di ristorazione, di prestazioni estetiche e di commercio di casalinghi a prezzi concorrenziali, dopo un periodo in cui l’ordine arrivato dalla Cina era di chiudere. Non sono molto espansivi nel parlare con i nativi, hanno paura che li contagino e che gli italiani siano molto critici sul loro cibo. Però mantengono un loro orgoglio nella ripresa del lavoro e nel non chiedere sostegno alla amministrazione locale in quanto sono abituati da sempre a fare da soli con le loro forze. Sono gentili ma distaccati come a non voler essere contaminati da un’altra cultura. Molto rigidi anche gli studenti universitari e musicisti, danzatori, artisti in genere che sono presenti in città. Hanno una forza incredibile. Resistono oltre il dolore. Lo studio e la cultura come la professionalità per loro sono valori primari. Se minimamente rendono un po’ meno nello studio, si flagellano per il senso di colpa in quanto sono convinti che con la loro mancanza per primo hanno offeso lo Stato, poi i docenti che lavorano per loro e poi se stessi e ovviamente anche i genitori. Non esitano ad impegnarsi nella concorrenza spietata per essere i primi. Mai nessuna critica ho sentito sia stata da loro espressa nei confronti del governo cinese.
Atteggiamento simile da parte dei russi. Sono mediamente colti, in possesso di lauree in campo economico e scientifico e coltivano un grande amore per l’arte italiana. Anche loro hanno come interrotto un processo di integrazione iniziato molto bene sull’orgogliosa spinta di fare conoscere la loro terra e le caratteristiche del loro popolo accompagnata dal disappunto che nelle scuole italiane non si studi la lingua russa. Vivono appartati, si vedono raramente in gruppo con i loro bambini in qualche parco, pronti a schivare ogni contatto sociale.
Un gruppo di giovani del Togo e del Mali mi ha comunicato una bella ventata di ottimismo, per il loro spirito di serenità, di saggezza e di conoscenza di come gira il mondo, di leggerezza con la quale schivano o respingono atteggiamenti di aggressività e di rifiuto nei loro confronti. Tutti universitari, hanno dovuto sospendere lo studio e andare a lavorare per potersi mantenere. Parlano correttamente la lingua italiana e sembrano preoccupati soltanto di non potere studiare come vorrebbero per le loro pressanti urgenze materiali. Nessuno vuole parlare con loro, tanto che erano sorpresi e mi hanno ringraziato del fatto che io abbia rivolto loro la parola. Parlano con cognizione di causa dei problemi internazionali, della crisi della globalizzazione, del colonialismo storico e dell’umiliazione degli africani. Sembrano usciti da un corso di formazione su Fanon e Malcom x e invece no, non hanno letto alcun libro, segno che in molti giovani africani che studiano c’è consapevolezza della storia e dello sfruttamento dell’Africa. Non sembrano preoccupati del pericolo Covid 19, tanto in Africa – dicono – le persone muoiono a grappoli per molto meno e in continuazione.
Un enorme malessere sembra colpire tutti, anche se in forma diversa, dal panico all’angoscia, all’insonnia, all’aggressività, alla violenza, al suicidio, all’autolesionismo, fino ai traumi post ricovero per covid con crisi di demenza, perdita di memoria, allucinazioni. Le donne più fragili facilmente ne sono vittime e con loro i bambini, i preadolescenti e gli adolescenti temo stiano pagando e pagheranno ancora un prezzo molto alto. Nella confusione e nel disagio come gli adulti, con la loro esuberanza e la voglia di vivere soprattutto nella trasgressione, i giovani organizzano feste via social alla ricerca di forti emozioni con abuso di alcool e sostanze stupefacenti, per la gioia dei bar e la ristorazione tutta che per mesi ha pianto la perdita di guadagni. Stressati da mille richiami e imposizioni e divieti, in alcuni giovani sono evidenti comportamenti omologati, c’è in loro una prepotente voglia di visibilità, e nell’afasia lasciano parlare il loro corpo, tatuato con segni e colori eloquentissimi, vi sono scritte le loro idee, le appartenenze socio-politiche, i miti e le utopie.
Un gruppo di universitari con un po’ di coscienza politica e di consapevolezza su quello che sta succedendo nel mondo si è dichiarato anarchico-antisistema e anticonsumista, contro ogni forma di potere precostituito. Delusi da molti professori universitari, della didattica a distanza, sono incerti se continuare gli studi in questa forma che vivono come spreco di tempo e di soldi necessari per l’iscrizione. Studiano, fanno una specie di resistenza passiva consumando il minimo per sopravvivere, scambiandosi libri e vestiti, allenandosi nei parchi per non pagare la palestra, evitando e condannando ogni forma di sperpero. Stanno scoprendo i classici che leggono con entusiasmo e amano qualsiasi forma di antagonismo sociale culturale e politico presente negli altri Paesi. Sono rimasti affascinati dalla mostra dei tatuaggi dei detenuti russi realizzati dal secondino-fotografo russo Sergei Vasiliev scattate fra il 1987-89 nelle peggiori carceri russe riunite nell’esposizione Russian Criminal Tattoo. Come del resto, non rimangono indifferenti all’antagonismo in Bielorussia o alle proteste degli studenti in Cina. Diffidano delle istituzioni ma sono lontani anni luce dal mondo del negazionismo.
Bologna ha conosciuto i rovinosi depistaggi a proposito della strage alla stazione del 2 agosto 1980 e non sono mai cessate le campagne negazioniste sulle responsabilità politiche anche a distanza di quaranta anni da quella tragedia. Rispetto al fenomeno della pandemia lo stesso fronte è ancora mobilitato nel tentativo di speculare sullo stato di confusa vulnerabilità della popolazione. Per capire meglio questa realtà e conoscerne radici storiche e aspetti sociali ho voluto incontrarmi con un attento osservatore delle dinamiche più oscure del nostro tempo. Ho parlato a lungo con Alberto Maggi, teologo e biblista, che nonostante vicissitudini personali, conserva uno visione decisamente positiva della vita e del mondo, uno sguardo aperto e sgombro da qualsiasi velo ideologico.
Come vede la situazione che stiamo vivendo?
«La considero, al di là delle sofferenze soggettive, una grande opportunità di rinnovamento. Di costruzione di un altro mondo. È proprio nei momenti di grande difficoltà che vengono fuori gli elementi più forti di rinnovamento e di apertura. Siamo stati fin troppo chiusi in noi stessi a goderci un benessere che era superfluo, apprezzando una società dei consumi che prima o poi si sarebbe inaridita».
Secondo lei tutti hanno preso coscienza della gravità del momento storico? Come vede i negazionisti – quelli che si oppongono all’evidenza?
«Il negazionismo ha radici antiche e già nelle prime pagine della Bibbia si trova il primo negazionista. Nel Libro della Genesi si legge che il Creatore aveva avvertito l’uomo e la donna, da lui creati, di non mangiare “dell’albero della conoscenza del bene e del male”, perché altrimenti sarebbero morti (Gen 2,17). Ed ecco spuntare il primo negazionista della storia, il serpente, che disse alla donna: “Non morirete affatto!” (Gen 3,5), e si sa come poi è andata a finire. E negazionisti spuntano anche al tempo di Noè, “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” (Gen 6,9). Avvertito da Dio dell’imminente disastro, pensa a mettersi in salvo costruendo un’arca di legno, ma gli altri no, “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito… e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti” (Mt 24,38).
Non c’è qualche relazione tra negazionismo e fede religiosa?
C’è poi un altro tipo di negazionismo dalle conseguenze drammatiche, perché si fonde con il fanatismo religioso. È il negazionismo che, forte delle sue sacre convinzioni, rifiuta la realtà perché è inammissibile, scomoda o spiacevole. Un esempio di questo negazionismo si trova negli scritti di Geremia, dove il profeta avverte il popolo dell’imminente pericolo, rappresentato dall’invasione dei Babilonesi guidati da Nabucodonosor, invitandolo ad abbandonare false certezze: “Non confidate in parole menzognere ripetendo: Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore” (Ger 7,4). Ma il grido d’allarme del profeta non fu ascoltato nonostante l’evidenza dell’approssimarsi della tremenda invasione. Gerusalemme era la città del Dio d’Israele e per questo non poteva essere conquistata. La tradizione religiosa, infatti, credeva che Gerusalemme fosse imprendibile in quanto Dio stesso avrebbe impedito la caduta del luogo che conteneva la sua presenza. Del resto anche il salmista esaltava l’imprendibilità di Gerusalemme, perché “Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba… Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 6.8), per poi dover amaramente constatare che “hanno ridotto Gerusalemme in macerie” (Sal 79,1), come già Geremia aveva vanamente profetizzato: “Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine” (Ger 26,18).
Dove sono dunque da ricercare le cause profonde di questo fenomeno?
Le radici del negazionismo vanno ricercate nella paura. Il negazionista è, infatti, un individuo che è vittima della sua stessa paura che non vuole riconoscere. Non sapendo come gestire la sua ansia, semplicemente la nega e, non sapendo affrontare un mondo che è in costante cambiamento, lo rifiuta. Tutto quel che è complesso, quel che richiede riflessione, un ragionamento articolato e fondato, esula dalle sue capacità e liquida il tutto con un secco NO. Forse l’immagine con cui si potrebbe raffigurare il negazionista è quella dello struzzo con la testa infilata per terra. Il pericolo c’è, ma lui si ostina a non vederlo, a ignorarlo, illudendosi così di eliminarlo dal suo orizzonte. Per farsi notare il negazionista deve andare contro l’evidenza, e contro la verità, e per questo suo delirio deve appoggiarsi su una visione della società vittima di ogni tipo di complotto, dal finanziario al religioso, con il continuo sospetto che si traduce in rifiuto di tutto quel che con le sue limitate capacità intellettuali non riesce a comprendere».
Ma intanto creano confusione e sospetti
«Di questo non mi preoccupo. La luce prevale sempre sul buio. Vedo che soprattutto in questo periodo di grandi paure e fragilità stanno aumentando i fedeli con la voglia di essere attivi, partecipi per il benessere della collettività. Del resto l’unica ricetta è continuare per la nostra via accettando con gioia quello che abbiamo e costruire assieme un percorso di cambiamento, contrastando così anche l’arroganza e incompetenza di gran parte della gerarchia ecclesiastica».
Da laica apprezzo moltissimo il pensiero e l’operato dei nuovi “teologi”, pur nelle loro differenze, chi ancora dentro la Chiesa, chi a latere. Naturalmente la loro rimane una visione eminentemente idealista, soprattutto di ri-costruzione delle coscienze, volta a contribuire come comunità alla cura e alla gestione del bene pubblico.
A guardar bene, sul negazionismo il giudizio può essere morale, psicologico o politico. Di fatto quello che succede sembra una commedia di Eduardo, come se il virus negato si sia offeso e allora come un fulmine colpisce sbruffoni e negazionisti, in forza della legge del contrappasso.
Al di là degli aspetti connessi alle speculazioni politiche e ai settarismi ideologici, forse ciò di cui occorre preoccuparsi di più sono gli effetti di quel “negazionismo psicologico” in qualche modo praticato dal governo e dal personale medico, soprattutto in questa seconda fase della pandemia. È pur vero che la disgregazione è ovunque e che nella globalità del sapere e della ricerca ogni disciplina sembra essere autonoma, separata da tutto il resto, e allora succede che si opera scollegati in un grande deficit culturale. Nessuno ha analizzato la pandemia come un fenomeno biopsicosociale, curando così soltanto la malattia e non avendo attenzione al malato. Nella attuale fase la situazione è ancora più complicata in quanto l’esplosione delle depressioni, dei disturbi mentali e bisogni psicologici (prevedibilissimi), non trovano adeguate risposte a livello del servizio sanitario. L’unica cura è affidata ad ansiolitici e antidepressivi. Farmaci del resto usati anche prima, tanto da collocare l’Italia al primo posto tra i consumatori.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.
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