di Nino Giaramidaro
Si dice “plas”. Un latino sguaiato che nemmeno i peggiori interpreti del latinorum riuscirebbero a pronunciare. Qualcosa di simile al “neologismo” plas-tica che identifica anche l’eternità. Meno male che spesso è parola scritta sullo schermo e uno se la può leggere come vuole oppure lasciare lì dov’è per quella frazione di secondo di vita che il suo inventore le concede. Senza capirci nulla, nihil – latino ancora immune dall’anglofilia “in”.
Se poi la parlano in quel borbottio rapido e babilonesco che accompagna le corse in automobili – preferibilmente di notte, alla luce del sole accadono solo banalità – di marca invisibile, quasi uguali anche sul rettilineo; oppure di coloro i quali tengono la felicità racchiusa in un mulino, ancora oppure di quelle donne che appena si imbattono in una scopa cominciano a ballare non ho ancora capito se per stoltezza, sì, si può cambiare canale. E si trova quel pezzo di pubblicità che si era irrimediabilmente perduto: un attentato all’Auditel, successo o insuccesso di un programma – ma come fanno a determinare i dati di ascolto?
Devo onestamente aggiungere che mi viene il freddo a guardare certi programmi. In quel fondo di divano in cui mi sistemo ho bisogno di un plaid – non so più come chiamare quei metri quadrati di ex lana. Distese di ghiacci che vanno da Amburgo in su; non ricordo i nomi che hanno, ma contengono almeno quattro consonanti di fila. Piccoli paesi dove però si uccide senza risparmio. E vengono ammazzate soprattutto le persone simpatiche. Un agitarsi concitato di personaggi sotto copertura, tutti con barbe incolte e pistoloni tenuti a due mani e inclinati di novanta gradi, sparatorie chiassose che si acquietano dopo che lo “sparato” riesce a fuggire e io ho già preso l’acqua frizzante dal frigo.
Lessico familiare. Quando ero ragazzo sparatine di questo tipo si seguivano al cinema ed erano affidate alle riconoscibilissime Colt 45 oppure ai Winchester che i grandi dello schermo ricaricavano facendoli oscillare con una mano sola. Film che si chiamavano con geografica ironia “americanate” – in altre parti della Sicilia “sceriffate” – e c’era Audie Murphy che ne interpretò trentacinque: il soldato più decorato d’America, eroe di tanti film di serie b. “Stardust” era il cavallo di Randolph Scott e c’erano molti che tifavano per il quadrupede anziché per “Randy”. Non funzionò l’accoppiata fra Randolph e Zachary, tutt’e due Scott, il primo protagonista, il secondo antagonista, cioè cattivo, “traditore”, rinnegato. Nella mia memoria c’è solo “Colt 45”.
La fisarmonica ha una parentela con il bandoneon del tango, ma è meglio sentirla d’improvviso, suonata “na cestě”, sì per una strada di Praga o sull’ex marina di Palermo. Oppure allo Shangai di Basile (scritto in italiano), una terrazza con vista sulla “Ucciria” quando la piazza Caracciolo era il grande mercato del pesce, delle sigarette di contrabbando e dove si aggiravano gli emissari dei ladri con i quali si contrattava il rilascio del rubato. Di lassù giungevano note di fisarmonica dedicate agli equipaggi dell’Alitalia in attesa del prossimo volo: melodie antiche, della giovinezza di Giovannino (vero nome), che colpivano insieme ai riverberi del sole sulle madreperle e i pochi ottoni che il musicista di strada faceva ondeggiare come una perturbazione. E il fumo. Se la rosa dei venti era benigna si poteva annusare la pasta “con glassa” oppure la “mezza” con piselli o la rinomata con le sarde. Piatti esorbitanti, senza paragone con la forchettata odierna nei piatti piani dei grandi cuochi, barbuti e obesi malgrado la loro stitica cucina.
Ci voleva una intera canzone prima che la scodella si svuotasse, e la magia della fisarmonica e del suo spolpatissimo suonatore contribuivano a una digestione che non avrebbe risentito dei vuoti d’aria.
Nové Město, città nuova attorno a piazza San Venceslao, Praga fremeva per dimenticare il regime di Mosca ma, na cestě, piccoli gitani cavavano tristezze musicali da vecchie Hohner della grande Musikinstrumente GmbH & Co. Era come se il motivo conduttore di quella musica si collegasse all’altra palermitana, sì entrambe musiche della fame, suonate con estraneità, struggente lontananza smarrita nei luoghi di familiarità obbligata. Alcuni scoscesi sino ad arrivare alle scale dello spettacolo: non a salire bensì a discendere con la dovuta pompa.
A Sanremo le signore inguainate erano soccorse da boys illustri sugli scalini che il copione non aveva potuto “allisciare” senza inciampare nella lunga tradizione del palcoscenico. C’era stata una signora molto “scaligera” e molto profumata di Arpège che le scale le discendeva da sola, tutta bianca di piume, paillettes, e altri riflettenti, su tacchi da teatro, un cesto di rose rosse nella sinistra e con la destra lanciava i fiori cantando Sentimental come un bacio perduto, sentimental come un dolce segreto. Sentimental come un sogno incompiuto. Oppure Ti parlerò d’amor…Anna Maria Menzio cioè Wanda Osiris che Achille Starace fece diventare Vanda Osiri.
Insomma, sempre il dio della vita e della morte in un tempo in cui l’Oriente suggeriva: si chiamavano Horus indovini e aruspici e facevano colpo. Oggi abbiamo Amadeus, Amedeo Umberto Rita Sebastiani: una esse soltanto per separare il reale dall’immaginario dove non è più ragionevole attardarsi.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
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