di Antonello Ciccozzi
Premessa
Riprendo e rielaboro in forma saggistica un testo che ho presentato recentemente in ambito mediatico-divulgativo [1] in occasione di un fatto di cronaca avvenuto nella primavera del 2021: la scomparsa della diciottenne italo-pachistana Saman Abbas, presumibilmente uccisa dallo zio, come esecutore di una pressoché unanime sentenza di condanna a morte emanata dalla famiglia; il tutto in aderenza a uno schema ormai tristemente comune a queste vicende sempre più ricorrenti in Occidente. Se il cadavere della ragazza non è stato finora trovato, dalle intercettazioni telefoniche e dalle testimonianze del fratello (l’unico membro della famiglia che, coraggiosamente, ha denunciato l’accaduto) è emerso il seguente scenario che è stato ampiamente notiziato dai media [2]: l’uccisione è stata descritta dai parenti della vittima come l’unica soluzione possibile, un atto difficilissimo ma necessario, commesso tra le lacrime per lavare l’onore della famiglia dal comportamento della giovane; comportamento che veniva percepito come atto di gravissima inadempienza rispetto al dovere di essere una buona musulmana. In merito Saman veniva accusata di non essere rispettosa dei precetti religiosi, non veniva accettato il suo rifiuto rispetto al suo destino di matrimonio combinato in Pakistan, non era tollerato il suo desiderio di vivere all’Occidentale (ed è emblematico in merito che sui social Saman usasse il nickname “Italian girl”).
Preciso subito che – dati gli spazi di questo scritto e considerata l’ampiezza, la complessità e la delicatezza della questione – le parole che seguono non hanno nessuna pretesa di completezza o e men che mai di definitività ma vanno intese come atto di esposizione sommaria di una serie di problematiche chiave inerenti al tema, e come invito alla riflessione su prospettive contingenti rispetto a una serie di consolidati e diffusi assi interpretativi da tempo in uso per inquadrare simili eventi.
Trovo condivisibili le considerazioni dell’editoriale del n. 50 di Dialoghi Mediterranei sulla mancanza di attenzione da parte dell’antropologia italiana nei confronti di questa vicenda; e, soprattutto, sull’invito a uscire da quello che ormai si presenta nell’automatismo di un pattern rappresentazionale generalizzante che regolarmente emerge di fronte a simili, purtroppo sempre più ricorrenti, casi: il doppiamente erroneo posizionamento (in gran parte politico-ideologico) del dare solo la colpa all’Islam versus l’opposto e complementare sentenziare che l’Islam non c’entrerebbe assolutamente nulla con certi accadimenti delittuosi, che anzi osteggerebbe.
Sempre sullo stesso numero della rivista, questo tema è accennato anche nell’articolo di un giovane dottorando (Cordova 2021), che si appoggia a un importante testo di Fabietti (2001) per affermare che sbaglia «sia chi pretende di trovare in una Sura coranica la spiegazione a gesti e atti inquietanti, sia chi invece rispolvera un passo di segno opposto per sottolineare l’apertura del dettato divino alla pace e alla fratellanza»; e, per riconoscere in conclusione che, di fronte a simili gesti, la fobia del diverso è un sentimento di ostilità verso la diversità culturale che riguarda tanto noi quanto gli altri. Ovvero che anima tanto chi ostenta facili e semplicistiche condanne culturaliste essenzializzanti verso i rei quanto chi questi reati li commette come sua difesa culturale rivolta contro l’Occidente (luogo che resta per alcuni migranti, chiusi in un identitarismo non disposto a negoziazioni, una dimensione di alterità culturale nient’altro che negativa, minacciosa e da osteggiare).
Mi convince meno la restante parte del testo in cui emergono una serie di topic che trovo invece cogenti non tanto rispetto all’oggetto quanto al metodo, come indice dell’orizzonte disciplinare accademico che norma informalmente i criteri di rappresentabilità di certe vicende. Mi riferisco a come in questo caso la tragica vicenda di Saman venga tradotta entro un panorama assiologico in cui come colpevole emerge essenzialmente il noi occidentale, reo di non capire le migrazioni, di sfruttare i migranti, di non prendere coscienza delle sue colpe coloniali, di semplificare l’Islam in un modello statico, reo di colpe rispetto alle quali l’autore prescrive la cura urgente e vaga di «decolonizzare l’incontro tra esseri umani, all’infuori dei modelli sociologici del melting pot o del salad bowl». Insomma: dalle intercettazioni dei famigliari abbiamo sentito che una ragazza è sparita perché è stata accusata di non essere una buona musulmana, ma la causa di questi mali è prevalentemente attribuita all’Occidente; il tutto in nome della parola maestra del “decolonizzare”, termine sempre più inteso come cura pressoché unica per tutti i mali del mondo, dunque anche per simili usanze.
Leggere i giovani umanisti è importante anche in quanto essi ci danno la misura delle poetiche accademiche che fanno da sfondo ai loro pensieri, del paesaggio epistemologico e valoriale in cui si stanno formando. Certo, quelle due spore di ragionamento sull’ambivalenza dell’Islam e sui due versanti della xenofobia testimoniano un riconoscimento minimo che comunque è significativo e anche coraggioso, nei confronti di una problematica che viene di solito del tutto ignorata nei discorsi accademici sulle migrazioni; anche di fronte alla ricorrente eclatanza di casi di cronaca come quello di Saman. Tuttavia, per la restante quasi totalità del testo, come spesso avviene in questi casi, mi trovo davanti ad argomentazioni dalla forma ipercomplicata, nel loro illustrare in maniera fàtica la conoscenza di un galateo abbastanza bizantino di accortezze ermeneutiche postcoloniali da adottare quando si parla dell’Altro, ma sostanzialmente ipocomplessi, poiché rispondenti a uno schema di fondo elementare, quasi pavloviano in cui, di fronte a questioni che chiamano in causa l’alterità migrante, l’intellettuale universitario è chiamato a conformarsi ad un engagement paladino rivolto verso i vari Sud del mondo, interni ed esterni, che si risolve nell’ostentazione enfatica di una unidirezionale filippica sulle responsabilità dell’Occidente.
Come ho scritto altre volte, e ribadito proprio in quello stesso numero di Dialoghi Mediterranei (Ciccozzi 2021), a meno di non voler ammettere che come sempre anche oggi viviamo non nell’ordine superiore di un sapere perfetto e definitivo ma entro un usuale orizzonte paradigmatico con degli inevitabili limiti gnoseologici e altrettante chiusure autopoietiche, ritengo che l’attuale regime di verità accademica implicato dall’egemonia disciplinare ormai decennale del paradigma postcoloniale – tanto rizomatica e latente quanto pervasiva – abbia comportato, oltre a varie consapevolezze positive sulle responsabilità storiche e presenti dell’Occidente nei confronti del Sud del mondo, il problema dato dall’assolutizzazione manichea di tali responsabilità. A partire da questa postura ermeneutica, si arriva a sussumere l’Occidente nei suoi peccati coloniali, in un’essenzializzazione che lo priva di qualsiasi portato positivo, e a pensare che i problemi del Sud del mondo vengano solo dal Nord del mondo e mai da cause interne.
È proprio questa dogmatica diffusa silenziosamente come una sorta di folklore accademico invisibile e pervasivo, che conduce alla tendenza disciplinare all’interdizione morale rispetto al riconoscere l’eventualità dell’estraneità ostile del migrante; posizione ben espressa dalla massima, cifra del rassicurazionismo immigrazionistica per cui “la diversità arricchisce”: ossia dalla generalizzazione che vuole che l’alterità migrante sarebbe null’altro positiva, senza se e senza ma, che comanda che il migrante debba essere percepito e rappresentato solo come soggetto a rischio e mai come oggetto di rischio. Così, il migrante che soffre viene essenzializzato sempre come tale, come migrante, mentre il migrante che fa soffrire smette di essere migrante in nome di una cultural blindness che lo essenzializza in altre categorie (il folle, il terrorista, il maschio, il tribale…). In tal modo, a partire da uno schema di fondo radicalmente anti-etnocentrico ed esotista che rovescia contrappassisticamente il sentimento etnocentrico e imperialista di superiorità coloniale, trasformandolo in senso di colpa entro la griglia manichea del “noi-cattivi/altri-buoni”, il negativo altrui, in quanto elemento epistemologicamente perturbante, viene regolarmente rimosso al momento del suo emergere: viene silenziato nella non trattazione delle vicende che lo riguardano, o proiettato sul noi Occidentale, nell’alterità interna della destra.
Rappresentazione dei migranti e schismogenesi
La dinamica di polarizzazione tra progressisti e conservatori in orizzonti antropologici divisi a compartimenti stagni trova nella attuale modalità di rappresentazione sociale (Moscovici 2005) della questione migratoria il momento probabilmente più intenso di schizofrenia del senso comune occidentale, delineando una dinamica schismogenetica (Bateson 1977) nell’accezione più genuinamente batesoniana del termine: la sinistra narra l’alterità che approda dai Sud del mondo con la generalizzazione positiva del buon-migrante-risorsa in risposta alla generalizzazione negativa della destra del cattivo-clandestino-minaccia; il tutto definisce un sistema di metà che negli anni tende sempre di più a separarsi in modo binario, inconciliabile, mutuamente esclusivo, senza spazi condivisi di senso (Ciccozzi 2014).
Alla postura allarmistica delle destre, che evocano la sostituzione etnica dei popoli europei attraverso le migrazioni dal Sud del mondo, e che per parlare dei migranti esaltano unicamente i singoli episodi di violenza e predazione dei “clandestini”, fa da contraltare quella rassicurazionistica delle sinistre, che raccontano solo di come i migranti rigenerino, sia demograficamente, economicamente che culturalmente la vecchia Europa, attraverso la loro diversità che non fa null’altro che arricchire. Va notato per inciso che il migrante viene disumanizzato in entrambi i casi, seppure in direzioni opposte, nella misura in cui la demonizzazione e la santificazione rappresentano due facce della stessa medaglia.
Questa specializzazione politica della produzione di immaginari collettivi genera un effetto di tribalizzazione tra comunità di senso nemiche, separate in due culture antropologiche, una dell’accoglienza e una della sicurezza, distinte dall’adorazione di due contrapposti totem concettuali espressi nell’archetipo del ponte contro quello del muro e caratterizzate da una postura immigrazionista contro una sovranista con cui si esprimono istanze contrapposte di aperura o chiusura assolute. Il confine di conformità alle idee dominanti in ciascuna meta-tribù è mantenuto da corrispettive «spirali del silenzio» (Noelle-Newman 2002), che disincentivano i singoli a esprimere opinioni distoniche rispetto alla maggioranza della propria metà di riferimento, così risulta tabù da entrambi le parti riconoscere ragioni parziali della controparte, pena l’esilio morale. Queste semiosfere in conflitto assumono l’assetto di camere d’eco in cui il pensiero viene espresso in un monolitismo dal suono gregoriano e la diversità d’opinione è bandita (tanto tra chi esalta l’identità culturale quanto da chi esalta la diversità culturale). La società che predica a metà di erigere muri e a metà di abbattere confini pratica la binarizzazione assoluta del confine politico interno che ne spacca in due il senso comune: sempre di più sinistra e destra non possono e non devono mescolarsi culturalmente.
La cognizione individuale di questi fenomeni di solito segue schemi sociali di percezione selettiva orientati su bias di conferma (Lee Ross, Anderson 1982) definiti ideologicamente, che corrispondono alla comfort zone dei valori ritenuti accettabili dalla propria comunità di senso. Nello specifico, l’attribuzione di significato a queste porzioni di reale è condizionata da un filtro per cui se si è di destra tutte le manifestazioni positive che riguardano il portato dalle migrazioni vengono rimosse, mentre se si è di sinistra avviene l’opposto: vige l’interdizione a cancellare tutto ciò che si manifesta come associabile in negativo alle migrazioni. In ultima analisi si tratta di un processo di cherry picking in cui si selezionano, a partire da un implicito finalismo interpretativo, tanto le notizie a cui dare rilievo o meno quanto le categorie interpretative da mettere eventualmente in campo per attribuirgli significato morale.
La rimozione dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante come necessità culturale
In tutti i modi, il punto che qui ci riguarda è che se si è posizionati in varia maniera a sinistra – e se non si vuole essere macchiati dall’impurità di un pensiero eterodosso rischiando di essere assimilati alla controparte – le interpretazioni in negativo dei fenomeni migratori sono interdette tout court dai repertori di senso degli appartenenti. In questi casi l’imperativo categorico che comanda che la diversità è ricchezza impone che, di fronte a episodi in cui la diversità pare più creare problemi che arricchimenti, si reagisca rimuovendo questo emergere dell’altro in forma perturbante di estraneità ostile; e lo si fa facendo finta di nulla, o al limite proiettandolo altrove, su categorie rassicuranti.
Infatti, non a caso, di fronte all’aumentare attuale nell’Occidente di episodi che riguardano famiglie di migranti coinvolte in matrimoni forzati e che in diversi casi arrivano a concludersi tragicamente con delitti d’onore, l’onore politico progressista che alberga nel suo inconscio collettivo meta-tribale si difende dallo scandalo della contaminazione valoriale, ossia dallo scandalo del migrante che non arricchisce ma porta violenza, attraverso un atteggiamento indifferente, omertoso, fatto di rimozioni e proiezioni che tendono ad assumere un assetto standardizzato. La paura del blaming (Douglas 1996), consistente in questo caso nel rischio di essere tacciati di fascismo, agisce come timore di contaminazione, di violazione di un confine di purezza morale, e fa da sentinella che scoraggia qualsiasi disallineamento. Per cui se qualcosa che riguarda in qualche modo i fenomeni migratori non va per il verso giusto, meglio stare zitti o deviare l’attenzione altrove, per non violare la sacralità assoluta del migrante.
Così, a seguito della scomparsa di Saman, una breve panoramica sullo scenario mediatico ci porta a questo pattern consolidato: in risposta al culturalismo grossolano e strumentale delle destre che se la prendono genericamente con l’Islam e i migranti, la sinistra si concentra, più che sull’analizzare l’evento, sullo screditare gli avversari politici ribadendo posizioni opposte rispetto ad essi. Quindi, l’oggetto del discorso si trasfigura; non è più l’indecenza della morte di una ragazza ma diventa l’indecenza morale delle destre, e il metodo si serve delle lenti opacizzanti della cultural blindness: l’Islam non c’entra nulla perché sono usi tribali, così come non c’entra nulla l’alterità migrante, perché è un femminicidio patriarcale, tale e quale ai nostri.
Infatti, a voler presentare una casistica minima, ecco una serie di interpretazioni della vicenda: leggendo “Fanpage.it” (9 giugno 2021) apprendiamo già dal titolo che la destra starebbe strumentalizzando la vicenda di Saman, la quale sarebbe stata uccisa «in quanto donna che voleva emanciparsi dal patriarcato, non in quanto apostata musulmana» (nonostante che questa motivazione sia emersa chiaramente dalle intercettazioni telefoniche della famiglia), e che si sta parlando troppo di questo delitto «rispetto agli altri quaranta e rotti femminicidi accaduti in Italia nel 2021, per i quali non ci risulta essere stata posta tale enfasi sulla cultura-religione cattolica», e lo si sta facendo per dispensare islamofobia a buon mercato. Da “Il Manifesto” (05 giugno 2021) apprendiamo che questi episodi vanno classificati come generici femminicidi, che avverrebbero «in nicchie etniche molto ristrette», che «non c’entrano nulla con la religione», ma riguardano assolutamente il patriarcato, dove peraltro «fino a non molti anni fa in Italia il delitto d’onore era un costume diffuso». Su “Rolling Stone Italia” (9 giugno 2021) titolano che «il caso di Saman Abbas non c’entra con l’islam» e ci avvertono che «parlare di questo crimine associandolo unicamente all’origine, alla nazionalità e alla fede della famiglia sarebbe un gravissimo errore. Una semplificazione che finirebbe per etnicizzare un reato che è quello dei matrimoni forzati». Similmente in TV (Zona Bianca, Rete4, 30 giugno 2021) il vignettista-opinionista Vauro in polemica con la destra si pone in linea con una lettura relativizzante da cultural blindness, sentenziando che si tratterebbe di un femminicidio in cui l’Islam non c’entra nulla, nella ormai rituale precisazione, benaltristica e relativizzante, che «anche nella nostra sottocultura c’è l’idea che il maschio sia proprietario della vita della femmina fino ad ucciderla».
Riassumendo, i pattern interpretativi sono i seguenti:
- i crimini non vanno etnicizzati (la responsabilità è individuale, la cultura non c’entra);
- l’Islam non c’entra;
- è un femminicidio come i nostri, è il patriarcato, sono usi tribali, succedeva anche da noi;
- associare questi delitti all’Islam è islamofobia.
Proverò a spiegare perché gli assiomi appena illustrati sono sia fraudolenti che pericolosi. Lo faccio perché ritengo che la sinistra debba emanciparsi da questa primordiale pulsione alla rimozione della diversità che non arricchisce ma rivela l’eventualità dell’estraneità ostile del migrante. E ritengo che, in casi simili e in generale, debba farlo per il bene della sinistra e in nome di un atteggiamento antifascista verso il mondo che sia in grado di comprendere l’ur-fascismo, ossia il carattere generale e metastorico del fascismo (Eco 2016) per riconoscere non solo i rigurgiti fossili del fascismo nostrano ma anche le forme emergenti del fascismo altrui; dove questo problema riguarda non solo l’ambito politico e mediatico ma anche la metafisica latente del mondo accademico. Questo anche a tutela del positivo reale dei processi migratori, in nome del principio che è sconveniente combattere gli stereotipi negativi xenofobi sui migranti (basati sulla generalizzazione del cattivo clandestino) con l’atto del tutto ideologico e pseudoscientifico in quanto parziale, del produrre contro-stereotipi positivi xenofili (basati sulla generalizzazione del buon migrante).
I crimini non vanno etnicizzati? La responsabilità è individuale?
Non sempre. Crimini come i delitti d’onore vanno compresi nella loro valenza di reati culturalmente connotati o motivati (De Maglie 2010; De Pasquali 2016), quindi in questi casi andrebbe distinto che se la responsabilità è individuale (concetto già di per sé vacillante di fronte al fatto che la stessa nostra concezione di individuo non è universale ma culturalmente condizionata, prima ancora che di fronte al caso una famiglia che agisce collettivamente al fine di ammazzare una figlia rea di aver violato un tabù) la causalità rimanda in varia misura a un piano culturale, inteso nel senso antropologico del termine. Così, usare il deus ex machina dell’antirazzismo coniugato nel precetto di non etnicizzare i crimini significa imporre un dispositivo di cultural blindness giuridica che opacizza elementi fondamentali per l’interpretazione di certi reati. In questi casi il “non etnicizzare i crimini” funziona come un precetto di omertà che impedisce di vedere che vi sono famiglie che agiscono volitivamente in quanto obbediscono a codici d’onore che hanno una dimensione etnico-culturale e che, come vedremo tra poco, non possono essere separati del tutto da quella religiosa.
Avendo personalmente proposto di definire simili questioni stricto sensu proprio in termini di «causalità culturale» (Ciccozzi, Decarli 2019), mi pare il caso di specificare che comprendere il condizionamento culturale in ambito giuridico e inquadrarlo come causalità culturale non significa riesumare vecchi determinismi di stampo configurazionista – quelli del culturalismo americano affermatosi per qualche decennio da “Modelli di cultura” in poi, per intenderci (Benedict 1960) – per usarli come stereotipi sui caratteri nazionali o etnici, pensati in generalizzanti semplificazioni meccanicistiche da calare dall’alto sui singoli casi giuridici.
Il punto è che se l’idea che vi sia un nesso deterministico, definibile aprioristicamente in base a schemi culturalisti generalizzanti, tra l’appartenere a un dato gruppo e l’avere necessariamente degli specifici comportamenti individuali è stata giustamente accantonata, questo schematismo è stato superato per rovesciamento radicale dei suoi princìpi. In funzione di quest’inversione epistemologica si è finiti nell’indeterminismo assoluto della cultural blindness, che, mentre soddisfa alcuni obblighi del politically correct attraverso il dogma “la cultura non c’entra”, finisce con l’azzerare la possibilità di comprendere la misura in cui, rispetto a ogni caso particolare, il comportamento individuale può essere in varia misura condizionato dal background culturale del soggetto. E questo condizionamento rimanda a un nesso fuzzy, sfocato, come più o meno sfocato, composito o monolitico può essere il background culturale di riferimento del soggetto. Tutto ciò può essere interpretabile a posteriori e in base a un approccio individuante; per capire, attraverso una descrizione densa dei fatti, quanto, caso per caso, la cultura antropologica conta come sfondo valoriale motivazionale che condiziona l’azione individuale.
Forse anche a causa di un implicito veto dato dal rischio di essere tacciati di razzismo culturalista, questo accomodamento verso l’indeterminismo della cultural blindness liquida in maniera troppo netta e totalizzante le angustie del culturalismo aprioristico e generalizzante per risolversi in un altrettanto angusto, seppur di segno opposto, indeterminismo culturale di maniera. Così facendo però si mutila la possibilità di inquadrare il peso della cultura in certe condotte giuridicamente rilevanti, e si priva l’antropologia culturale della possibilità di un ruolo formalmente definito in ambito di expertise legale. In tal senso si tratterebbe di uscire dall’opposizione polare “è la cultura/la cultura non c’entra”, di rompere questa semplificazione binaria per guardare, in una prospettiva post-configurazionista, al peso quali-quantitativo del background culturale, ovvero per capire in che modo e in che misura la cultura fa da premessa, da trigger, nei confronti dell’agire individuale.
Il dogma “l’Islam non c’entra” esprime un posizionamento ideologico che rimanda a un’altra modalità ricorrente con cui si manifestano le opposizioni complementari che sostanziano la schizofrenia sinistra/destra del senso comune occidentale: di fronte a varie forme di violenza dove gli uccisori, dal loro punto di vista, adducono apertamente una giustificazione religiosa, dicendo di agire in nome o a difesa dell’Islam, per i conservatori la colpa è tutta dell’Islam, di tutto l’Islam per intero, mentre per i progressisti l’Islam non c’entra assolutamente. O tutto o niente. Ma è colpa dell’Islam o no? Va subito detto che ridurre la questione a un simile binarismo significa porla in modo scorretto. Prima di tutto andrebbe distinto il livello istituzionale, quello ufficiale della religione da quello della religione come pratica a livello del vissuto quotidiano delle persone: allora si capisce che il problema non è quello che dice l’Islam – che peraltro parla con una voce plurale, in una nebulosa di autorità religiose senza un vertice e centro unitario riconosciuto come tale da tutti i credenti – ma quello che fa la gente in nome dell’Islam, o meglio dell’idea che ha di esso.
Per molti musulmani una serie di violenze non c’entrano nulla con quello che loro ritengono che sia, come spesso di sente dire, “il vero Islam”; per altri il loro modo di intendere l’Islam è fonte e giustificazione di una serie di violenze, che si configurano in tal modo come sacrifici umani effettuati in nome di una divinità. Per alcuni musulmani il confine tra sacro e profano si segna con il sangue, e quindi con l’uccisione di chi, a detta loro, non è un buon musulmano, e questo è un dato di fatto, anche a partire dal caso di cronaca portato qui come esempio. Quindi è inutile prendersela con le religioni in astratto: è in tal senso che nella narrazione mediatica di certe vicende andrebbe capito che il problema è l’uso sociale delle religioni: il problema non è l’Islam ma quello che certa gente fa in nome dell’Islam, per come lo interpreta.
Similmente la proiezione della questione sulla categoria del tribale è basata sulla pretesa di separare in un’opposizione netta l’Islam dalla cultura tribale (categoria per di più altamente problematica), quando invece sia storicamente che geograficamente l’Islam veicolato come dottrina dalle autorità religiose e praticato dalla popolazione si è spesso combinato con una serie di usi e costumi locali che percepisce in sintonia con i propri dettami di fede più che opporsi ad essi (mentre è severissimo, spietato nei confronti di tutto ciò che considera haram, proibito).
In merito basta guardare alla situazione in Pakistan, dove i delitti d’onore sono diffusi in tutto il Paese e in crescita allarmante in alcune aree rurali a partire da arcaici «sistemi quasi-giudiziari paralleli» come il Jirga il Panchayat, che continuano a emettere verdetti di karo-kari contro chi lede l’onore delle famiglie con rapporti sessuali non consentiti, e diventa pertanto punibile con l’uccisione arbitraria da parte di chiunque, e con qualsiasi mezzo. Tali uccisioni sono viste come sacre, culturalmente accettabili e perfino eroiche, per cui famiglie e comunità proteggono gli assassini dalla giustizia formale, che più che opporsi a certi crimini di fatto li tollera in varia misura a partire dall’influenza di gruppi di potere islamisti conservatori (Lari 2011). Il contesto è quello di una polarizzazione intra-islamica in cui da un lato ci sono studiosi che decretano i delitti d’onore come del tutto non islamici, mentre altri li giustificano pienamente proprio in nome dell’Islam (Gauhar 2014).
Stando a una recente pubblicazione sul tema (Patel, Gadit 2008) emerge un quadro desolante in cui in una parte consistente del Pakistan permangono «interpretazioni patriarcali tradizionali dell’Islam, che valorizzano la castità femminile e la superiorità maschile» e dove il sistema di giustizia formale «include leggi che sembrano avallare le sentenze di genere dei tribunali tribali». Qui, per fare un esempio assai significativo, leggi come la “Hudood Ordinance” del 1979 hanno messo le donne stuprate in condizione di non poter denunciare la violenza, poiché per provarla si richiedeva la testimonianza di almeno quattro musulmani adulti di buona reputazione contro il sospettato maschio (che peraltro aveva la possibilità di testimoniare contro la donna in tribunale). Così «il fallimento nel provare lo stupro poneva la donna a rischio di essere perseguita per adulterio, la cui punizione era la morte per lapidazione. Questa legge non solo ha giocato un ruolo nel dare una sanzione legale allo status sociale subordinato delle donne, ma ha dato un’implicita giustificazione legale e culturale alla pratica del karo-kari». In questo modo «le forze sociali fondamentaliste in Pakistan si sono fortemente opposte a qualsiasi cambiamento della legge, poiché credevano falsamente che fosse in accordo con gli insegnamenti dell’Islam», come avviene regolarmente in diffuse prassi interpretative che fanno sì che degli usi patriarcali di matrice tribale trovino in queste vulgate islamiste locali una cornice formale di sacralizzazione proprio attraverso la Sharia.
Infatti, le comunità che adottano questi istituti tribali hanno la possibilità di non vederli affatto in contrasto con la loro visione dell’Islam, ma anzi di percepirli in pura continuità con la religione, al punto che «la maggior parte delle decisioni di Jirga e Panchayat locali sono sostenute in nome della religione», in un contesto dove i leader religiosi locali promuovono una religione orientata al maschile e che diffonde sistematicamente tabù contro le donne (Khan, Nawaz 2020). Tutto questo rende di fatto arbitraria e fuorviante la rappresentazione di una linea di confine netta che separerebbe completamente il patriarcato dall’Islam, la dimensione tribale da quella religiosa; ovvero chiarisce che scollegare totalmente questi reati dalla religione è sbagliato così come è sbagliato identificarli del tutto con essa.
È un femminicidio come i nostri?
Poi, relativizzare certi crimini omologandoli ai femminicidi che avvengono in Occidente e ascrivendoli alla questione di genere del patriarcato significa opacizzare delle differenze connotative del tutto rilevanti. È un modo per rimuovere un evento perturbante (la manifestazione della diversità culturale come alterità incompatibile, come estraneità ostile rispetto ai nostri valori) proiettandolo su una categoria rassicurante in quanto riguarda non l’altro ma anche il noi. La questione inerisce anche in questo caso al diverso peso del background culturale come trigger motivazionale che innesca le condotte volitive individuali che si concludono con l’uccisione di una donna da parte di un uomo, e a certi tentativi di rimozione dei nessi di causalità culturale, proiettandoli in questo caso su un orizzonte ermeneutico incentrato sulla prospettiva di genere.
I femminicidi occidentali sono commessi da un io malato: una singola persona che uccide la partner per una brama di possesso legata a sentimenti di onore e prestigio che attingono a un retaggio patriarcale arcaico partecipe come spettro culturale del tutto remoto, che si sedimenta in forma psicopatologica nel sé che si ammala proprio perché lo accoglie. Si tratta di un retaggio che è assolutamente delegittimato nel presente culturale ufficiale, eliminato da orizzonti normativi e di valore, rintracciabile al massimo come folklore reazionario residuale che sopravvive nei meandri più arretrati di una cultura del possesso curata da un processo sociale di smantellamento che, seppur non giunto al compimento, dura da decenni; e che ha prodotto passi di emancipazione che non dovrebbero consentire certe relativizzazioni di maniera.
I delitti d’onore sono commessi da un noi culturalmente obbligato: di solito sono commissionati collettivamente da famiglie spesso disperate che sono costrette a uccidere il membro che si ribella a una legge percepita come sacra. È per loro una soluzione spesso dolorosa ma comunque inevitabile. Sono costrette perché solo attraverso questo sacrificio umano possono salvare la famiglia dalla morte sociale che decreterebbe per essa la comunità, sprofondandola nella vergogna per aver violato un tabù, per aver profanato un codice d’onore dal quale non ci si può in nessun modo sottrarre. Si tratta di uccisioni rituali che avvengono in una dimensione culturale di operabilità nel valore da cui non ci si può allontanare, che si presenta come obbligo morale inaggirabile.
Insomma, i delitti d’onore rispetto al rifiuto del matrimonio combinato, così come quelli che riguardano l’apostasia o la violazione di altri tabù religiosi, riguardano un noi che emette una sentenza di morte nei confronti di un membro della comunità ritenuto reo di una profanazione. Un noi che appare malato solo se visto in una postura universalistica dalla nostra prospettiva culturale, dal nostro noi. Quel noi, generalmente la famiglia allargata, uccide una persona accusata di coltivare un proprio io in una pretesa di autonomia considerata inammissibile, in quanto individualità in contrasto con precetti comunitari, tribali, di tipo etnico-religioso in cui è presente una componente islamista sincretizzata con usi tribali non consente una separazione netta rispetto all’Islam. Dal loro punto di vista quelle persone uccidono in nome del bene della famiglia e della comunità, per loro si tratta di sacrifici rituali dal valore palingenetico, con cui purificano il loro orizzonte morale da quelle che percepiscono come contaminazioni (Douglas 1966) che espongono al rischio esiziale della condanna da parte della comunità alla morte sociale della famiglia.
Ci dobbiamo rendere conto dell’enormità di questo dettaglio, in termini di diversità culturali problematiche, reciprocamente incompatibili e che portano in sé una serie di difficoltà d’integrazione reali ma che ancora ignoriamo; che rimuoviamo abbagliati dal mantra della diversità che arricchisce e basta: a differenza di quanto da anni in Occidente è stato collettivamente sanzionato a partire dalla trasfigurazione giuridico-culturale di una serie di princìpi cardine dell’umanesimo, in questi contesti vige la pena di morte per una serie anche abbastanza ampia di condotte che vengono culturalmente percepite come reati gravissimi; e questo scaturisce da un intreccio sincretico di obblighi tribali e religiosi.
Poi, i femminicidi occidentali si consumano in situazioni conflittuali che avvengono entro una cornice socio-storica di prevalente emancipazione femminile, e possono anche inerire a relazioni di ostilità simmetrica, del tipo aggressivo-aggressivo; ovvero non solo complementare, del tipo aggressivo-remissivo (Bateson 1972; Watzlawick, Beavin, Jackson 1997). In Occidente spesso entra (giustamente) in ballo una rivendicazione di genere basata su una concezione forte e prioritaria di autodeterminazione della soggettività della donna, dove ad essere uccisa è una volontà di essere che si delinea nella sua pienezza in una rivendicazione di parità, senza compromessi. Questa rivendicazione di parità assoluta è inerente a un processo di emancipazione che, per quanto ancora problematico, parziale, non concluso, va avanti da oltre un secolo ed è solidamente ancorato su una dimensione culturale di operabilità nel valore e puntellata da un sempre più consistente sostegno normativo. I delitti d’onore qui in questione invece regolarmente avvengono in situazioni di pressoché radicale assoggettamento della donna, in un piano del tutto sbilanciato tra uomo e donna, e ulteriormente appesantito dalla forza gravitazionale della famiglia e della comunità; un piano relazionale costretto in una imponente gerarchizzazione dei ruoli di genere, nettamente sbilanciato su un asse aggressivo-remissivo. Siamo qui in cornici di senso cui è punita qualsiasi minima volontà di essere altrimenti rispetto a dei pervasivi e inaggirabili oneri di sottomissione che sanciscono una netta disparità uomo/donna.
Intendiamoci, comunque in qualsiasi parte del globo si tratta di donne che vogliono giustamente liberarsi da odiose catene; quello che varia, anche in modo iperbolico, è però la consistenza e il peso, la diffusione e l’approvazione sociale delle catene in questione. Pertanto, diluire i delitti d’onore nella categoria del femminicidio e del patriarcato produce un’opacità del “noi non siamo meglio di loro”, un relativismo della cultural blindness che, se consola rispetto all’imperativo categorico implicito del tutelare il dogma progressista multiculturalista che comanda che “la diversità è arricchimento”, lo fa al prezzo di mascherare questi reati culturalmente motivati in una cappa di omertà politically correct. Tanto più che in questi casi l’uccisione avviene a partire da sentenze famigliari o comunitarie di colpevolezza sostenute dalle stesse donne del gruppo (è il caso di ricordare che dalle intercettazioni è emerso che anche nel caso di Saman la madre della ragazza ha partecipato attivamente e in modo perentorio alla sentenza di morte emessa dalla famiglia contro la figlia). Si dirà che queste donne che condannano altre donne sono vittime inconsapevoli anche loro, ma di fronte a figlie condannate a morte dalle madri al pari del resto della famiglia la categoria del patriarcato vacilla, mentre, se si vuole ammettere questo condizionamento, emerge in modo difficilmente eludibile la questione del peso della causalità culturale.
Succedeva/succede anche da noi! È il patriarcato
Purtroppo, la proiezione di questo tipo di delitto d’onore sulla categoria del patriarcato ha fatto recentemente da fondamento a una vicenda tristemente per molti versi sovrapponibile a quella di Saman Abbas, ovvero alla sentenza del processo per la morte dell’italo-pachistana Hina Saleem, uccisa nel 2006 dal padre in seguito alla scelta di andare a convivere con un ragazzo italiano non musulmano, ovvero in quanto accusata di aver infangato l’onore della famiglia per non essersi comportata come una buona musulmana. In questo caso il giudice d’Appello ha rifiutato l’argomento culturale per quello patriarcale, motivando la sua decisione nella convinzione (errata, come appena visto) che i delitti d’onore non risulterebbero giustificati in Pakistan, e sostenendo che il padre avrebbe agito per vendetta contro la figlia disobbediente solo in quanto padre-padrone «come potrebbe avvenire per qualunque soggetto dotato del medesimo carattere e della medesima indole, qualsiasi sia la sua appartenenza etnica o culturale» (Ruggiu 2015). Questa decisione, ribadita in Cassazione, rimuove totalmente la dimensione della causalità culturale nell’accomodamento su un framing di genere, propedeutico a un tanto diplomatico quanto miope rifiuto radicale di qualsiasi prospettiva capace di riconoscere una dimensione culturalista del fenomeno, in nome di un implicito precetto di cultural blindness. Oltre a considerare come, in generale, sia abbastanza arbitrario pretendere di separare del tutto l’orizzonte del patriarcato da quello della cultura antropologica, nel caso particolare di questa sentenza c’è da rilevare che il tutto è avvenuto anche in risposta all’argomento della difesa, che chiedeva il riconoscimento del background culturale del padre come attenuante, in nome di un principio di cultural defense.
Il “succede/succedeva anche da noi!”, ossia il frame benaltrista, relativizzante, radicalmente antietnocentrico fino all’esotismo, del “noi non siamo meglio di loro”, è indice di un paternalismo giustificatorio che, di fronte a certi reati, invoca una postura di indeterminismo culturale sostenendo che istituti come i matrimoni combinati, i delitti d’onore e le spose bambine c’erano o sono ancora presenti anche in Occidente; e fa questo attraverso la ricerca di casi sporadici del passato o presenti che vengono surrettiziamente presentati come rappresentativi. Da noi questi casi c’erano – o possono essere presenti come remote sopravvivenze del tutto delegittimate culturalmente e normativamente e relegate a una dimensione psicopatologica e penale – perché sono pratiche che, se non ci si vuole accomodare nella generalizzazione di certe suggestioni neoprimitiviste, vanno riconosciute come presenti in gran parte del pianeta e per gran parte della storia della nostra specie. Si tratta di usi e costumi che hanno variamente fondato l’antropologia della famiglia di tanti gruppi umani, nel senso che hanno preceduto le concezioni individualistiche e secolarizzate dei rapporti di coppia che, dalla modernità, si sono diffuse in tutti gli strati sociali dell’Occidente (e che oggi rappresentano la cifra dell’emancipazione che in questa parte del mondo si è conquistata in merito alla libertà delle persone di decidere in autonomia con chi e come avere rapporti sessuali o metter su o meno e in che modo famiglia).
Da noi c’erano questi usi, presenti però in forme quali-quantitativamente non paragonabili all’entità e alle sanzioni che essi prevedono in certi luoghi del mondo oggi. Questi usi da noi non ci sono più da tempo perché, a differenza di tante società da cui migrano in Occidente tante persone, abbiamo declassato a disvalori i princìpi che li motivavano e abbiamo stabilito delle leggi che li vietano. Per questo con chi viene da questi luoghi si può essere multiculturalisti solo relativamente all’apertura verso disposizioni culturali che non confliggono con i nostri ordinamenti normativi e con gli assetti fondamentali del nostro orizzonte valoriale, ma si dovrebbe praticare un assimilazionismo intransigente rispetto a usi e costumi qui eticamente e giuridicamente inammissibili.
Dalla cultural defense al background culturale come aggravante
La giurisprudenza italiana inizia a riconoscere questa posizione dal momento in cui alla cultural defense, la chiamata in causa del background culturale per la richiesta di attenuanti a favore dell’imputato, viene fissato un limite e riconosciuto il rischio di «balcanizzazione del sistema giuridico» (Bernardi 2006). Al contrario, se un reato viene consumato a partire da un background culturale incorporato che non fa percepire al reo quella condotta come riprovevole ma anzi gliela fa considerare praticabile se non anche giusta, si inizia a ritenere che la sanzione debba essere più severa in proporzione all’antiteticità tra lo sfondo valoriale che ha ispirato il reato e quello che ispira le leggi che definiscono la tutela penale (Desi 2007). Questo implica che il nesso di causalità culturale possa pesare come aggravante, proprio a tutela di un insieme di princìpi di civiltà che viceversa sarebbero erosi dalla mancanza di questo riconoscimento.
In merito la Cassazione (sent. 46300/2008) ha stabilito che «esistono princìpi cardine nel nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia e rapporti interpersonali di coppia che devono rimanere intatti. Essi costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come “antistorici” a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione di diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero». Si tratta di una posizione che rivela «l’orgoglio per il percorso di modernizzazione dell’Italia» e manifesta «la preoccupazione per retromarce inaccettabili» (Gianaria, Mittone 2014).
Questo in sostanza vuol dire che, per quanto disperse in una nebulosa sempre più disordinata e disorientante di riferimenti giuridici non sempre convergenti, da diverse fonti giurisprudenziali emerge l’indicazione per cui le consuetudini inerenti a orizzonti valoriali non occidentali contrarie al nostro ordinamento penale non possono essere consentite (Cassazione, sent. 45516/2008). Sicché abbiamo il diritto e il dovere di difendere certe conquiste di civiltà; abbiamo il diritto e il dovere di farlo per rispetto del coraggio delle persone che hanno lottato per farcele ottenere, non di offenderle facendo spallucce attraverso questi strumentalmente apologetici “lo facevamo anche noi”.
Il tutto ci dovrebbe fare capire, fuori dalla tentazione dello schieramento politico-ideologico polarizzante, che il multiculturalismo ha un limite dopo il quale bisogna essere assimilazionisti: chi ammazza una figlia in nome di un codice d’onore, chi pensa che violentare una donna non sia un reato a partire da una visione del mondo arcaica e predatoria dei rapporti di genere introiettata nel paese di nascita, chi ritiene che sia lecito e irrinunciabile mutilare gli organi genitali femminili per trasformare la donna in un essere socialmente docile, chi commette reati interni alla famiglia in nome di precetti religiosi non compatibili con gli ordinamenti giuridici occidentali, chi fa tutto questo mette in pratica dei micro atti di colonizzazione culturale, di imperialismo dal basso che vanno riconosciuti e sanzionati come forme di ur-fascismo esotico, come tattiche spontanee sostanzialmente meta-terroristiche, in quanto rivolte contro princìpi di civiltà che abbiamo il diritto e il dovere di tutelare, e che i rei percepiscono viceversa come terreno di conquista a partire da una loro disposizione di estraneità ostile nei confronti delle nazioni che li ospitano e delle Costituzioni che le regolano.
E non si tratta di ripiegare in un essenzialismo culturalista che pretende sovranisticamente di cristallizzare e sacralizzare tutto l’orizzonte culturale Occidentale come monolite indiscutibile, qui si parla di esonerare qualcosa dall’estetica antiessenzialista radicale della fluidità elevata a principio ontologico unico, di escludere dall’imperio del divenire che non riconosce altro che il mutamento un nucleo minimo di valori fondamentali che hanno ispirato le nostre norme giuridiche in un tragitto filosofico di lungo corso; valori che riguardano i diritti della persona a partire da una concezione che abbiamo ereditato dall’umanesimo, e che non merita di finire nella pattumiera postcoloniale insieme a varie altre meno edificanti posture a cui facciamo bene a rinunciare.
Associare questi delitti all’Islam è islamofobia?
Dalle intercettazioni è emerso che la famiglia di Saman rimproverava la giovane di non essere una buona musulmana; ma, nonostante questa evidenza, l’interpretazione di questa vicenda entro una prospettiva che comprendesse in qualche modo la variabile religiosa ha portato all’accusa di islamofobia.
Se l’islamofobia – lo stereotipo negativo che tutto l’Islam sia violento, aggressivo e incompatibile con l’Occidente e che così sia ogni musulmano – esiste e va contrastata riconoscendola come forma diffusa di xenofobia o finanche di razzismo anti-musulmano, va compreso che il tema è complesso e ambivalente. Negli ultimi anni si assiste alla proliferazione di una letteratura accademica che esalta la necessità di combattere l’islamofobia delle destre occidentali (solo a titolo di esempio si veda: Lean 2012); e in molti casi si tratta di pubblicazioni ambigue, situabili in una zona grigia di engagement in cui è difficile distinguere tra scienza e fede, tra critica all’islamofobia e posizionamento in direzione di un’islamofilia ideologica o anche fideistica. Viceversa, c’è pochissima attenzione, se non proprio rifiuto accademico, rispetto alla strumentalizzazione dell’accusa di islamofobia praticata dalle destre islamiste: a come l’islamofobia può trasfigurarsi in uno spauracchio da agitare per mettere a tacere non solo qualsiasi critica nei confronti dell’islam ma anche per delegittimare l’opposizione nei confronti dell’imperialismo della Sharia.
Qui va compreso che l’accusa sistematica di islamofobia – estesa anche a chi critica gli aspetti dottrinari o l’uso sociale dell’Islam in relazione a concezioni anche politiche della religione, e quindi rivolta a chi si oppone all’islamismo – è un atto che sancisce indirettamente un’intoccabilità che ha come corollario quello di delimitare un ambito sacro, non discutibile, non negoziabile, da uno profano. E questo implica una sostanziale modalità di introduzione della Sharia in Occidente.
La questione è seria perché qui corriamo il rischio di dimenticare che per secoli il mondo è andato avanti anche in quanto le persone hanno avuto la possibilità e il coraggio di criticare culture, norme, valori, religioni. Questa possibilità, il riconoscimento che l’eresia può essere un motore di cambiamento sociale, è stata pagata a caro prezzo nella storia, ed è un bene prezioso da difendere. E qui va chiarito che, come l’opposizione all’islamismo non è derubricabile a islamofobia, si dovrebbe poter criticare anche l’Islam, soprattutto nei suoi usi sociali, senza essere necessariamente islamofobi; e che farlo non significa attaccare delle minoranze: l’Islam non è la religione di una minoranza, è la seconda religione del mondo e la prima per crescita demografica, se lo eleviamo all’immunità dalle critiche, e se per di più lo facciamo in una cornice culturale che invece critica tutto il resto, lo stiamo sacralizzando. Per questo l’accusa sistematica di islamofobia, in questi casi istituisce un piano di discriminazione morale, di superiorità in cui si vuole configurare un ambito di senso sacro che non può essere assolutamente toccato, rispetto a tutti gli altri a cui oggi si attribuisce più che mai profanabilità, spesso assoluta, come cifra gnoseologica della postmodernità che vede e vuole tutto fluido e abbattibile, ma che sottende una doppia morale per cui è disposta a intendere ciò più in riferimento all’Occidente che altrove.
Se l’uso strumentale dell’accusa di islamofobia può finire con l’istituire un’immunità sacrale propedeutica in ultima analisi all’affermazione della Sharia, guardando ai modi in cui quest’orizzonte normativo viene disseminato anche attraverso un processo quotidiano di sporazione in singoli atti minimali, possiamo tornare alla vicenda qui posta come esempio. In tal senso appare rivelatore il fatto che, proprio a seguito della sparizione di Saman Abbas, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII) abbia colto l’occasione per emanare, nella solennità di una grande eco mediatica, una fatwa contro i matrimoni combinati [3]. Un simile atto sottende e rivela due piani problematici, uno paradossale e l’altro di ambiguità. Da un lato così emerge il paradosso per cui, mentre si predica che l’Islam non c’entra nulla con questi usi, si riconosce indirettamente che gli stessi sono diffusi e praticati tra i musulmani italiani tanto da meritare una sanzione (peraltro significativamente non condivisa dal resto delle sigle musulmane italiane che, a dispetto del nome unificante, non si riconoscono nell’UCOII).
D’altro canto, poiché la fatwa è il mezzo in cui si l’autorità religiosa esprime l’orientamento sciaraitico prevalente riguardo ad una certa fattispecie giuridica, in tal modo – almeno per la parte islamista dei musulmani che intende la fatwa più come vincolo che come opinione – si inscrive la religione musulmana praticata in Italia in una cornice di tipo giuridico, si afferma un principio normativo che regola il comportamento delle persone non in base al diritto positivo espresso attraverso la Costituzione ma a in base a un orizzonte di riferimento assolutamente religioso. In questo modo, in buona sostanza, si ammicca alla Sharia. In seguito a diverse polemiche l’UCOII ha diffuso un comunicato [4] in cui chiarisce che non intende la fatwa come una sentenza giuridicamente vincolante. Posto che si tratta di un’osservazione pleonastica, in quanto nel nostro attuale orizzonte normativo l’UCOII non avrebbe avuto l’autorità rendere la fatwa giuridicamente vincolante, resta il fatto che una comunità musulmana che orienta le condotte individuali giuridicamente rilevanti non a partire dalla Costituzione ma attraverso lo strumento della fatwa, dà l’impressione di ammiccare una concezione politica dell’Islam.
Questo dovrebbe far riflettere perché in Europa si assiste da anni al diffondersi di una giurisprudenza islamica parallela a quelle nazionali, in nome di un pluralismo giuridico che desta molti dubbi. Qui il mondo accademico è preso da un dibattito variegato in cui emerge una tendenza alla polarizzazione, in una crescente difficoltà nella possibilità di distinguere la produzione scientifico-umanistica in qualche modo più neutrale da quella per vari versi embedded. Da un lato si raffigura la questione nell’idea ottimistica che la legge basata sui diritti umani e la Sharia non si contraddicano a vicenda ma siano reciprocamente compatibili (Namli 2013), o che ci possa essere un’evoluzione della Sharia compatibile sia con una vita basata sulla fede che con gli ideali liberali (Turner, Zengin Arslan 2011), ammiccando in tale maniera alla possibilità di un sincretismo non più ossimorico ma attuabile tra legge di Dio e diritto positivo. Dall’altro c’è chi solleva preoccupazioni per il fatto che, nella copertura data da vaghi ideali multiculturalisti tradotti nella forma di un pluralismo giuridico dalla scarsa consistenza empirica, in Europa si assiste da anni al proliferare sotterraneo di tribunali paralleli della Sharia in campo di diritto della famiglia, istituti che rivelano sempre di più un’incompatibilità grave con la giurisprudenza ufficiale e che dovrebbero essere sanzionati da divieti assoluti di pratica (Kyriazi 2020); questo proprio per evitare il rischio di balcanizzazione del sistema giuridico di cui si diceva poco più sopra.
L’europeizzazione dell’Islam come antidoto all’islamizzazione dell’Europa
Certo, va chiarito che non tutti i musulmani vogliono e operano per la Sharia; e che questa tensione è presente anche nei Paesi islamici, costantemente in bilico tra desideri di modernizzazione e pulsioni tradizionaliste. Non tutto l’Islam è fondamentalista ma nell’Islam il fondamentalismo è un problema in quanto regredisce l’Islam a forma esotica di moderno fascismo di matrice islamista. In un certo senso il fondamentalismo islamista è traducibile nella destra, nel conservatorismo, nella modalità islamicamente peculiare con cui il localismo, il sovranismo si manifesta nei Paesi musulmani; e la crescita del fondamentalismo nell’Islam è un problema che riguarda la Umma, l’ecumene musulmana, quindi anche l’Europa e il mondo.
Sarebbe ora di ammettere che riconoscere che la differenza non sempre arricchisce, non significa “porgere il fianco alle destre” ma può voler dire togliergli argomenti di consenso populista in un modo più efficace di quello finora praticato dai progressisti multiculturalisti di fronte a fenomeni di violenza correlabili alle migrazioni, quello della rimozione-proiezione, che poi è omertà ideologica basata sulla sineddoche dell’indottrinamento alla percezione selettiva della realtà. Per una questione di inerzia migratoria e demografica dobbiamo prendere atto del fatto ineluttabile per cui nel futuro dell’Europa ci sarà un aumento della presenza musulmana. Se le persone di destra auspicano tanto inquietanti quanto impraticabili chiusure assolute e cacciate in massa, a sinistra è il momento di ragionare sul bivio che una ventina di anni fa ci ha illustrato Bassam Tibi, e che abbiamo troppo presto perso di vista: l’alternativa tra due possibilità. La prima, anch’essa inquietante ma realistica è quella di un’islamizzazione dell’Europa a partire da una postura islamista orientata a un primordiale e mai sopito progetto di conquista dell’Europa attraverso l’imposizione della Sharia. La seconda, che forse è l’unica soluzione a questo rischio, è quella data dal difficile ma non impossibile proposito dell’europeizzazione dell’Islam, ovvero da un Islam riformato a partire da princìpi europei di separazione tra religione e politica, democrazia, diritti umani individuali, pluralismo, società civile (Tibi 2003). Qui si comprende bene che il rischio non è nell’Islam in sé ma nella Sharia, nell’islamismo, nell’Islam politico o fondamentalismo islamico, che significa in concreto la volontà e il progetto di sostituzione del diritto positivo con la legge di Dio.
Europeizzare l’Islam vuol dire prima di tutto tutelare il diritto positivo dal rischio di islamizzazione; questo nella consapevolezza che per gl’islamisti non esiste separazione tra migrazione e conquista, poiché considerano l’Egira (la migrazione islamica) non come un tentativo di emancipazione economica individuale ma come una modalità fondamentale della jihad (lo sforzo per la propagazione dell’Islam) legata al dovere del Da’wa, (del proselitismo in favore del progetto di islamizzazione del mondo), ossia di ampliamento del Dar al-Islam (la dimora dell’Islam) al mondo intero. Ciò in una visione databile fino a 1200 anni fa al tempo degli Omayyadi, che a ben vedere rappresenta il primo tentativo di globalizzazione della storia dell’umanità (ibid.).
Da tutto questo si evince l’importanza di sottolineare sempre la distinzione tra Islam e islamismo, tra musulmani e fondamentalisti, differenza del tutto rilevante, per quanto difficilmente determinabile in quanto espressione di visioni del mondo non codificate su un piano formale, e significativamente rifiutata sia dalle destre che dagli islamisti stessi. È una differenza nascosta ma rilevante, come si può evincere da alcune recenti ricerche quantitative. In proposito, un sondaggio del Pew Research Center [5] ci informa che
- «una percentuale schiacciante di musulmani in molti Paesi vuole che la legge islamica (Sharia) diventi la legge ufficiale del Paese» (AaVv 2013: 15);
- «La maggior parte dei musulmani dice che la moglie deve sempre obbedire al marito» (ivi: 27).
- «In 10 dei 20 Paesi in cui esistono campioni adeguati per l’analisi, almeno la metà dei musulmani favorevoli a rendere la Sharia la legge del paese è anche favorevole alla lapidazione dei coniugi infedeli» (ivi: 54).
- «I musulmani affermano a grande maggioranza che il comportamento omosessuale è moralmente sbagliato» (ivi: 81).
- La vita moderna e la devozione religiosa non sono in contrasto per il 54% dei musulmani intervistati (ivi: 140).
- La violenza contro i civili per difendere l’Islam è rifiutata dal 72% dei musulmani intervistati; ma giustificata – raramente, talvolta o spesso – dal 10%, l’8% e il 3% di essi (ivi: 142).
Similmente da una ricerca francese emerge che il 32% dei giovani musulmani è assolutista nella religione (Galland, Muxel 2020: 91), che «un quarto degli studenti delle scuole secondarie non condanna pienamente gli autori degli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan» (ivi: 27), e «il 20% dei musulmani ha dichiarato che in certi casi è accettabile “combattere con le armi in pugno per la propria religione”» (ivi: 124). Come pure un sondaggio inglese indica che il 43% dei residenti nel Paese sarebbe favorevole a introdurre elementi di Sharia nella legislazione della Gran Bretagna (Frampton, Goodhart, Mahmood 2016: 43).
Personalmente non credo ciecamente in certe “santità dei numeri”, ossia sono abbastanza distante dalla postura proto-positivistica in voga verso i dati quantitativi in ambito umanistico, e diffido dalla pretesa di oggettivismo che assimila ingenuamente i costrutti statistici alla realtà socio-culturale; ma – pur ammettendo che questi dati sono dei «fatticci» (Latour 2017) che non andrebbero essenzializzati – da queste ricerche traspare, per quanto approssimativa, una tendenza poco equivocabile.
Per questo dobbiamo sperare che la politica progressista si renda conto che soprattutto tra la parte islamista dei migranti musulmani c’è una diffusa tendenza all’estraneità ostile all’Occidente orientata in direzione della Sharia, un’estraneità che non può essere spiegata solo come reazione a situazioni di esclusione sociale ma che andrebbe compresa anche come manifestazione aggressiva e imperialistica di un loro assimilazionismo inverso; che emerge dal basso e in modo interstiziale come potenza istituente contro il potere costituito delle costituzioni laiche occidentali. Un’estraneità ostile che pertanto andrebbe affrontata con un dialogo meno improntato a illusori e pericolosi multiculturalismi all’acqua di rose – che ammiccano a improbabili pluralismi culturali e finanche giuridici in cerca di facili tornaconti elettorali – e più alla richiesta del rispetto dei princìpi cardine degli ordinamenti normativo-valoriali occidentali.
Purtroppo però l’orizzonte antropologico progressista ha bisogno di rimuovere queste emergenze dal paesaggio del presente, e lo fa anche per un misto di malcelate ingenuità che hanno attecchito come conseguenza dell’acclimatamento nella weltanschauung data dal paradigma postcoloniale. La prima è un’ingenua nostalgia rousseauiana, dove lo stereotipo positivo del buon-migrante trasfigura e attualizza il mai dimenticato archetipo di epoca illuminista del buon selvaggio; ma di questo ho detto abbondantemente. La seconda ingenuità è data dal bisogno di coltivare un senso di colpa per il potere perlopiù passato, e quindi dall’illudersi di vivere ancora in un orizzonte mono-imperialista in cui l’Occidente, quello dei maschi bianchi, è il solo polo egemonico e fonte di tutti i mali del mondo; mentre il resto del mondo è subalterno ad esso e privo di peccati. Questo mentre da anni ci sono altri imperialismi emergenti entro varie scale di grandezza, e altri fascismi ad essi collegati, che in tal modo restano invisibili e quindi ancora più pericolosi. La terza ingenuità è data da una certa dose di arroganza universalistica e segretamente assimilazionista che alberga negli interstizi del multiculturalismo, e con cui probabilmente si sublima una malcelata paura dell’altro di fronte a eventi perturbanti come attentati o aggressioni regolarmente circoscritti alla psicopatologia individuale (mostrando totale noncuranza per la categoria del “matto” su cui viene proiettata la causa unica della violenza): parlo del sentimento con cui ci si illude che questa moltitudine subalterna che dai Sud del mondo approda in un’Europa sempre più invecchiata e in crisi, sia fatta di esseri umani che una volta assaggiato il balsamo della civiltà vorranno generalmente abdicare di propria sponte dai costumi che indossano e arricchirci con il loro farsi europei diversi ma non troppo.
Il punto è che basta passare dalla rappresentazione idealizzata del buon-migrante-risorsa all’esperienza del migrante-persona-reale per capire che tra la pluralità di chi arriva in Europa c’è anche tanta gente che, a torto o a ragione, non sa che farsene della nostra civiltà, della nostra cultura e dei nostri diritti (Ciccozzi 2016). E spesso non sa che farsene anche dei diritti di sinistra, che capisce sempre meno, e interpreta come patetici segni di decadenza; questo a partire dalla mutazione, da certe parti del tutto incompresa, dei diritti del lavoro in diritti civili. Non a caso, in vari luoghi il multiculturalismo si è trasformato in un cavallo di Troia attraverso cui l’Europa e l’Occidente si vanno banlieueizzando in no-go zones, in società parallele, in cui si delineano interstizi normativi dove di fatto già vige la Sharia; dove il rifiuto di questi migranti ad assimilarsi a noi si rovescia in segnali da cui si intravede un opposto progetto di assimilarci a loro. Tranne rare eccezioni (Friedman 2018) subito duramente criticate (AaVv 2018), rispetto a questi fenomeni il mondo accademico mantiene una linea rassicurazionistica; lo fa nel rifiuto della questione, nell’idea che le emergenze riguardino solo il razzismo degli occidentali verso i migranti, e che visto che questi fenomeni sarebbero in fondo invenzioni delle destre (Lenin, Tiley 2012), problematizzarli in termini di rischio sottenda un eccesso di allarmismo da evitare per non dare ragioni ai sovranisti (o per non rischiare di essere bollati come studiosi reazionari).
In questa visione stare a guardare a questioni come i delitti d’onore tradirebbe una concezione post-multiculturalista, un’attitudine governamentale neoliberale volta a strumentalizzare questi temi per separare i “buoni” cittadini da quelli “cattivi” e inammissibilmente diversi (Gozdecka, Ercan, Kmak 2014). Insomma, in ambito accademico prevale la linea che afferma che il problema dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante non esiste nella realtà, che sarebbe in fondo un costrutto governamentale sovranista. Personalmente ritengo che questo possa e debba essere discutibile; e che sia un atto politico-ideologico – di rimozione del rischio e di sua proiezione su un nemico interno – quello di inibire un pluralismo ermeneutico sul tema attraverso il blaming, l’accusa essenzialmente complottistica di vicinanza con le destre mossa nei confronti di chiunque interpreti certi fenomeni fuori dalle posture rassicurazionistiche imposte dal dominio del paradigma postcoloniale.
Per tornare al discorso iniziale, tutto questo non vuol dire che c’è un nesso di derivazione necessaria tra Sharia e delitti d’onore, ma dobbiamo capire che questi orizzonti culturali intrattengono tra di essi una connessione sfocata e intersezionale che diventa ancora più rilevante proprio dal momento in cui si oppongono all’Occidente; e a quello che resta della sua egemonia culturale in termini di diritti umani, e di corrispondenti pretese universalistiche (forse non meno scabrose di quanto rivendicano per sé questi altri universalismi ora emergenti). Perciò Sharia, matrimoni combinati e delitti d’onore, quali manifestazioni intersecate di alterità incompatibile con la concezione occidentale dei diritti umani, è tanto inopportuno confonderle come assolutamente coincidenti, attribuendogli relazioni di unione, che fraintenderle, rappresentandole come totalmente separate. Torna la questione posta nel titolo di questo scritto, il dilemma insito nella diversità che non arricchisce, ovvero l’emergere osceno – nel senso lacaniano del termine in quanto etimologicamente “fuori scena” – dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante; e quindi lo scandalo della non rappresentabilità di quest’evenienza nell’orizzonte culturale progressista contro la necessità di farsi carico di ciò.
Il problema è che la faglia antropologica di cui parlavo all’inizio, quella rivolta all’alterità politica interna che spacca in due il senso comune occidentale in una cultura dell’accoglienza versus una cultura della sicurezza, porta al prevalere del posizionamento politico di antagonismo verso la meta-tribù nemica su tutte le altre ragioni; e se a destra ci sono inaccettabili esasperazioni sovraniste che tendono a dipingere l’alterità sempre in negativo, a sinistra si risponde con un riflesso condizionato oppositivo che l’altro è sempre positivo. Questo impantanamento schismogenetico in un «dislivello interno» di tipo prevalentemente politico-ideologico impedisce di affrontare il «dislivello esterno» di tipo prevalentemente economico e culturale (Cirese 1997) con cui si manifesta la complessità del presente nella forma dell’opposizione tra Nord e Sud del mondo; una complessità dove la diversità può manifestarsi anche in negativo, può tradursi in fascismi altrui.
In merito, per riprendere la nota iniziale di Dialoghi mediterranei sulla mancanza di attenzione da parte dell’antropologia nei confronti di episodi come la tragica vicenda di Saman, penso che sia soprattutto una tanto informale quanto consolidata specializzazione di ruolo – che da diversi anni chiama solo a un engagement paladino in difesa dei migranti – a imporre una certa variamente inconsapevole miopia ideologica. Voglio dire che il dominio accademico del galateo postcoloniale – che prescrive un posizionamento disciplinare che non prevede altro compito al di fuori di quello della difesa e dell’empowerment dei migranti contro la xenofobia e il razzismo – è ciò che invita all’autocensura; e lo fa anche in nome del diktat di “non prestare il fianco alle destre”. Questo avviene quando l’alterità si manifesta non come arricchimento da celebrare o di fragilità da difendere, ma emerge in termini di rischio, come estraneità ostile che sarebbe il caso di contrastare. E penso che il silenzio su casi come quello di Saman sia solo la punta dell’iceberg: certe ufficiose prescrizioni di indifferenza accademica mi paiono gravi dal momento in cui inducono gran parte degli studiosi universitari mondiali a sottostimare il problema che sta a monte di questi singoli episodi, quello della crescita del radicalismo islamista, e quindi della volontà di imporre la Sharia, sia nel mondo arabo (AaVv 2015) che a livello globale (Wiktorowicz 2005); crescita favorita peraltro anche da questa disattenzione politicamente orientata (Mohammed 2019).
E se è eccessivo e controproducente assimilare tutto l’Islam al fascismo, è ingenuo e miope non comprendere che il radicalismo islamista rappresenta una minaccia essenzialmente fascista. Mi rendo conto che si tratta di una distinzione problematica, dove Hamed Abdel-Samad per aver postulato che l’Islam potrà distinguersi dall’islamismo solo se supererà dei «difetti di nascita» (Abdel-Samad 2017) si è procurato una fatwa. Non so se possa bastare, ma penso che certe differenziazioni per quanto in apparenza minime siano fondamentali, che invece di “fascismo islamico” bisognerebbe parlare di “fascismo islamista”; e distinguere il corpo dottrinario di una religione (che è inutile prima che pericoloso criticare) dai suoi usi sociali (per capire che è lì che va individuata la degenerazione fascista). Forse non basta, ma l’alternativa è un precauzionale silenzio fatto di rimozioni e tanto consolatorie quanto prudenti proiezioni sui mali dell’Occidente (questi sì che possono essere evidenziati senza rischio alcuno, di tipo religioso o accademico, ma anzi con sicuro vantaggio personale). Di certo si tratta di evitare certe generalizzazioni basate su un immaginario geopolitico eccessivamente euclideo, anche per non correre il rischio di finire impantanati nella retorica campale dello «scontro delle civiltà» (Huntington 1997).
In tal senso ritengo che sarebbe ora che ci attrezzassimo per combattere, oltre il fascismo fossile nostrano e i suoi rigurgiti, anche i fascismi esotici in varie forme attualmente emergenti; smettendola di rimuoverlo noumenicamente come atto di profilassi epistemologica ogni volta che si manifesta a livello fenomenico. Questo ovviamente senza confondere sovranisticamente tutto l’esotico col negativo, ma semplicemente riconoscendo la necessità di superare certi apriorismi esotisti e certe generalizzazioni xenofile che sostengono una serie di sacralizzazioni dogmatiche dell’alterità che, a ben vedere, sono più ideologiche che scientifiche.
Così, per quanto riguarda l’oggetto di queste pagine, penso che sarebbe il caso di iniziare a lottare culturalmente per difendere la laicità del diritto positivo dalla nebulosa di usi tribali e religiosi che lo minacciano; e in tal senso andrebbe inteso una volta per tutte che il problema non è l’Islam ma il suo uso politico dato dalla Sharia, dove una modalità radicale, tradizionalista e totalitaria d’intendere la religione spesso fa da habitat idoneo per il mantenimento e la riproduzione di usi tribali e arcaismi che sono agli antipodi degli ordinamenti giuridici occidentali. Quindi, nella consapevolezza che anche riconoscendo quest’orizzonte di rischio non si deve e non si può rinunciare all’accoglienza, mi pare che sarebbe il caso di intraprendere questa battaglia alleandoci con i musulmani che rifiutano una serie di usi tribali sincretizzati con la religione; con i musulmani che vogliono realmente che l’Islam non si trasformi in islamismo, senza giocare in dissimulazioni rituali attraverso la taqiyya, il precetto religioso che consente un mascheramento rispetto alla fede praticato a scopi politici (Lewis 1967).
Viceversa, possiamo seguitare a pensare che questo rischio non esiste? Non sarebbe questo un modo per favorire indirettamente chi vuole ingabbiare le costituzioni laiche nella religione? Perciò in conclusione direi che per difendere e promuovere in tutto il mondo la laicità del diritto – come battaglia culturale da combattere assolutamente senza armi e senza sprofondare in linee di trincea euclidee – per prima cosa dobbiamo riconoscere che in rischio c’è; e poi abbiamo bisogno di allearci con tutti i musulmani che vogliono realmente che la loro fede non si incarni nella legge totalitaria della Sharia.
Post scriptum
Nei giorni in cui questo testo è in uscita, il tribunale di Riesame di Bologna ha dichiarato che il corpo di Saman Abbas sarebbe stato smembrato in piccoli pezzi dallo zio per impedirne il ritrovamento, aggiungendo che questo crimine «affonda in una temibile sinergia tra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locali (che arrivano a vincolare i membri del clan ad una rozza, cieca e assolutamente acritica osservanza pure della direttiva del femminicidio)» (Ansa.it, 27 agosto 2021). Questo – oltre a lasciare sgomenti di fronte all’emergere di un ulteriore orrendo dettaglio esecutivo – ci informa che in ambito giuridico viene riconosciuta una agency ispirata a un sincretismo tra religione e usi tradizionali di matrice tribale; seppure il crimine venga proiettato nella categoria occidentale del “femminicidio”. Avendo più sopra argomentato che questi delitti d’onore rimandano a degli aspetti culturali non presenti nei femminicidi occidentali, non posso non sottolineare come un simile addomesticamento lessicale opacizzi le possibilità di comprensione profonda di certi eventi in termini di causalità culturale; in una relativizzazione che diluisce la specificità, maschera la perturbante alterità che – forse anche come reazione di difesa – ci ostiniamo a non voler cogliere nella sua pienezza, seguitiamo a rimuovere.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1]https://www.tpi.it/opinioni/delitti-donore-matrimoni-forzati-diversita-non-arricchiscono-20210623799449/
[2] Solo a titolo d’esempio si può vedere “Saman poteva essere salvata”, www.huffingtonpost.it, 8 giugno 2021.
[3] https://ucoii.org/wp-content/uploads/2021/06/Fatwa-sullilliceità-dei-matrimoni-forzati-nellIslam-IT-AR.pdf
[4] https://ucoii.org/2021/06/05/intervento-del-prof-consorti-su-fatwa-e-diritto-statale/
[5] Qui una sintesi dello studio: https://www.pewresearch.org/religion/2013/04/30/the-worlds-muslims-2013-2/#muslims-who-favor-making-sharia-official-law. Qui il report completo: https://www.pewresearch.org/religion/wp-content/uploads/sites/7/2013/04/worlds-muslims-religion-politics-society-full-report.pdf
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Antonello Ciccozzi è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.
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