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Don Grazio Gianfreda e il “mosaico universale” di Otranto

Cattedrale di Otranto, pavimento musivo, l'Arca

Cattedrale di Otranto, pavimento musivo, l’Arca

di Massimo Jevolella 

L’ultimo incontro: parole di luce 

Don Grazio, don Grazio… ho il forte rimpianto di non averlo potuto salutare prima del suo ritorno alla casa del Padre, che così serenamente sognava. Ha lasciato questo mondo il 4 gennaio del 2007, all’età di 94 anni. Io lo avevo incontrato l’ultima volta il 7 maggio del 2004, ed era energico, appassionato, tanto da farmi pensare che si fosse già confuso tra le figure eternamente vive del meraviglioso mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, che per decenni aveva studiato e a cui aveva dedicato una quindicina di libri.

Dal 1956 don Grazio era stato il parroco di quella chiesa gloriosa, e il custode dei suoi segreti. Tutto sapeva, tutto aveva investigato e decifrato, in ogni minimo particolare, di quell’immensa opera musiva che un artista chiamato Prete Pantaleone compose tra il 1163 e il 1166. Narrati in quelle immagini, don Grazio vi aveva letto la storia, la letteratura, la scienza, il mondo intero. La cultura biblica, classica, medievale, in un intreccio sorprendente di tempi e di temi. La Torre di Babele e il volo di Alessandro Magno sostenuto dai grifoni, l’unicorno e la regina di Saba, Giona scaraventato in mare dalla tolda di una nave vichinga, l’asino di Apuleio e re Artù sul suo cavallo, l’Arca di Noè e i mostri dell’Apocalisse, Satana e le Erinni, la “scacchiera dell’essere”, il cui vasto simbolismo di origine orientale non era ignoto al re castigliano Alfonso X il Savio, che vi dedicò un libro nel 1283 1.

Don Grazio Giufreda nel suo studio in sacrestia

Don Grazio Gianfreda nel suo studio in sacrestia

Le ansie e le speranze dell’umanità in ogni tempo e luogo. I miti dell’Oriente e dell’Occidente, intrecciati come i rami e le fronde d’un albero possente che affonda le radici in un unico punto comune.

Da circa vent’anni non sapevo più nulla di don Grazio. E quel giorno temevo, lo confesso, che lui non fosse più lì nella sua chiesa, ad attendere i visitatori e a istruirli pazientemente sui misteri del mosaico di Pantaleone. Perciò, appena arrivato a Otranto, avevo chiesto di lui con ansia, al primo passante incontrato per strada. «L’arciprete è vivo e vegeto, grazie al cielo!», era stata la risposta. Con gioia avevo allungato il passo, avevo varcato la soglia della Cattedrale, e in fondo in fondo, nell’ampia sacrestia che si apre nel transetto di destra, eccolo, lui era lì, seduto tra i suoi libri, con un rosario in mano, come il saggio Lao-Tse assiso tra le nuvole negli antichi dipinti cinesi. E gli avevo chiesto ancora di parlarmi del mosaico, di quello che ancora ci può insegnare.

«C’insegna» mi aveva detto «che i popoli possono affratellarsi solo nella cultura, nell’amore per la conoscenza. Perché in realtà non esistono barriere, e le fratture sono soltanto immaginarie. Non c’è separazione tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente. Tutto è in comune e tutto ha una radice comune. Oggi si parla tanto di globalizzazione, ma il mosaico concentra già qui da più di otto secoli i miti dell’India e della Bretagna, dell’Ellade e della Mesopotamia, dell’Europa e dell’Arabia Felix. Guarda: l’immenso albero della vita poggia sulle groppe di due elefanti indiani. È un’immagine delle potenze cosmiche, come Adamo ed Eva, le due fonti della vita scaturite da un’unica fonte suprema. Il Cristianesimo di Pantaleone ingloba in sé la cultura universale, salda tra loro non solo le due sponde del Mediterraneo, ma quelle di tutti i Continenti allora conosciuti. Pensa a come allora comunicavano tra loro le civiltà mondiali… altro che il buio del Medioevo! Mille correnti di sottili influenze si infiltrano nel mosaico. L’apertura mentale è totale. Fa pensare a Dante, che nel De vulgari eloquentia si proclamava cittadino del mondo».

La cattedrale di Otranto

La cattedrale di Otranto

Avevo osservato: «È un bel sogno, don Grazio, ma oggi che cosa possiamo farne di una meraviglia così? Oggi che si decantano i conflitti di civiltà? E poi, scusa, abbiamo qui accanto l’impressionante Ossario dei Martiri di Otranto: ottocento cristiani impalati dai turchi di Maometto II il 14 agosto del 1480. Come la mettiamo con queste eredità feroci, con questo Islàm di cui molti cristiani, oggi, hanno ancora paura?».

Mi aveva risposto: «Dobbiamo solo considerare che esistono soltanto l’Uomo e Dio. Dio che è Padre, e l’Uomo che è Figlio. A Dio non interessano le nostre divisioni, le nostre ideologie e le nostre varie opinioni. A Dio non interessano l’economia, la politica, la filosofia, la nazionalità, il colore della pelle. A Dio, in verità, non interessa nemmeno la religione. Nihil praeter individuum: a Dio interessa solo l’Uomo, perché in ogni singolo essere umano vive il principio divino».

A quel punto, senza più osare altre domande, avevo salutato don Grazio. Ero uscito dalla Cattedrale di Otranto con l’animo in subbuglio. Un sacerdote mi aveva appena detto che a Dio non interessa nemmeno la religione! Che cosa intendeva dire esattamente? Meditai a lungo sulla sapienza di quelle parole. E mi convinsi che soltanto una mente ottusa vi avrebbe potuto sospettare l’ombra di un’eresia. Capii che quelle, in bocca a don Grazio, erano parole profondamente e totalmente cristiane, parole di Cristo stesso intendo dire. E mi sembrò di udirvi pure un’eco delle odi mistiche di Gialàl ad- Dìn Rumi, il fondatore della confraternita sufi dei dervisci ruotanti: 

Che far dunque o musulmani, ch’io me stesso non conosco?
Non giudeo sono, né cristiano, né son ghebro o musulmano.
Il mio luogo è l’Oltrespazio, il mio segno è il Senza Segno,
non è anima, non corpo: solo sono dell’Amato 2

Poi mi incamminai sui bastioni della cittadella antica di Otranto, affacciati sul mare, e nel cielo incredibilmente azzurro e terso mi sembrò di poter spaziare con lo sguardo fino all’altra sponda adriatica, che lì è vicinissima. Sì, era proprio vero: i due mondi si toccavano, erano un mondo solo. Quel braccio di mare era solo un’illusione, un confine inesistente. E don Grazio lo aveva sempre saputo. Le sue parole luminose mi avevano fatto vedere con chiarezza quella realtà. 

Otranto, il pavimento musivo, la base dell'Albero della vita con gli elefanti

Otranto, il pavimento musivo, la base dell’Albero della vita con gli elefanti

Un itinerario iniziatico 

Entriamo allora per un po’ in quel meraviglioso mosaico, lasciandoci guidare proprio dalle parole di don Grazio. Al centro di tutto, dicevamo, è l’immenso albero che innalza il suo tronco lungo tutta la navata centrale della chiesa, e racchiude tra le sue fronde la realtà in ogni suo aspetto: «L’albero, attraversato dal soffio sussurrante delle passioni umane e scosso dal turbine urlante tra le fronde come voce di tutti gli Dei, esprime il passato, il presente, il futuro. È la nuova civiltà uscita dalla Comunità dei popoli cristiani, che sostituisce il Sacro Romano Impero d’Occidente e l’Impero d’Oriente, e che Pantaleone esprime in un vortice apparentemente confuso di immagini e di colori […] Il mosaico, nato in una città di mare, posta al confine tra Oriente e Occidente, crocevia tra mondo latino e mondo greco, tra Europa e area mediterraneo-islamica, racchiude il mondo di allora, dal Baltico alle sponde mediterranee africane e asiatiche, dagli Urali all’Atlantico» 3.

Ecco perché la visita al mosaico di Otranto non si dovrebbe concepire come passeggiata profana, ma come viaggio dal basso verso l’alto, lungo un cammino orizzontale che in ogni suo aspetto rimanda a un itinerario iniziatico ascensionale. L’asse maggiore della cattedrale è rivolto a Oriente, come nelle basiliche più antiche. Il viandante-pellegrino parte dunque da Occidente, dalla terra, dalla storia, per raggiungere il regno celeste dove i flutti della storia si dissolvono.

Otranto, il pavimento musivo, L'albero della vita

Otranto, il pavimento musivo, L’albero della vita

L’albero non poggia sul vuoto, ma è sorretto da due elefanti che guardano in due direzioni opposte dello spazio, a nord e a sud. Don Grazio non ha dubbi: si tratta di una simbologia di origine indiana, legata al tema della radice duale dell’Essere manifestato, al ritmo dell’esistenza che procede per coppie di opposti. Anche se nel mito indiano è uno solo l’elefante che regge il peso del mondo: simbolo del Principio unico che precede la dualità. Radice di ogni radice nell’Uno, come anche Plotino  ̶  maestro “orientale” per eccellenza  ̶  insegnava.

Ed ecco il “turbine urlante”. Ecco apparire, dopo la coppia elefantesca, due roditori che, come dice don Grazio, sono immagini del giorno e della notte, e stanno recidendo il fusto alla base. Suggestivo, e sempre orientale, il rimando storico di questa simbologia, che la nostra guida racconta così: «Secondo la leggenda, un principe indiano, mentre correva andò a finire in un gran burrone. Nel precipitare, protese le mani e riuscì ad afferrarsi a un arbusto […] Ma quand’ebbe guardato bene, vide due sorci, uno bianco e uno nero, che senza posa rosicchiavano la radice dell’arbusto al quale era sospeso […] L’arbusto, cui l’uomo si aggrappava, incessantemente rosicchiato dai due sorci, simboleggia il corso alterno della vita, la quale si consuma e si perde ora per ora nell’avvicendarsi di notte e di giorno» 4.

Otranto, il pavimento musivo, Atlante regge il mondo

Otranto, il pavimento musivo, Atlante regge il mondo

Apriamo una breve parentesi, perché questo notevole squarcio di luce sull’origine indiana di temi iconografici e di tòpoi letterari non deve affatto sorprendere. Basti un solo esempio per comprendere l’assoluta pertinenza di una tale ipotesi. Il mosaico di Otranto risale al XII secolo, ed è proprio in quell’epoca, infatti, che in tutta l’area del Mediterraneo si diffonde il tesoro favolistico di un capolavoro dell’antica letteratura indiana: il Panchatantra (ovvero I cinque libri). E la storia della “trasmigrazione” mondiale di quest’opera ha qualcosa di stupefacente. Dopo il V secolo d.C. il testo sanscrito era stato tradotto in Persia in lingua pehlevica (idioma iranico medievale), e nella prima metà dell’VIII secolo, a Basra (Bàssora), un letterato di origine persiana, chiamato Ibn al-Muqaffac, aveva preso spunto dalla versione pehlevica per scrivere in arabo il Kitâb Kalîla wa Dimna, cioè Il libro di Kalila e Dimna, che figura tra i testi fondanti della lingua araba classica. Da questa versione irachena, che intorno all’anno Mille era molto famosa in Sicilia e in Andalusia, erano derivate nel XII secolo la versione ebraica di Rabbi Joel e nel XIII quella latina di Giovanni da Capua (Directorium vitae humanae alias parabolae antiquorum sapientium) che finalmente introdusse quelle favole in Europa, dove la loro diffusione fu vasta e il loro successo (analogo a  quello che avrebbe avuto alcuni secoli dopo il libro delle Mille e una notte) durò ininterrotto fino all’epoca di Jean de la Fontaine, che vi attinse a piene mani per il suo celebre libro di fiabe.

Otranto, il pavimento musivo, il volo di Alessandro Magno

Otranto, il pavimento musivo, il volo di Alessandro Magno

Chiusa la parentesi, torniamo al nostro mosaico idruntino. La comparsa dei due roditori fa intuire che l’albero della vita è minato al suo nascere dalla furia devastatrice della morte. Siamo nel regno del tempo, della caducità, della vanità e della corruzione. L’uomo ha iniziato il suo cammino di dolore, e nel pieno dell’aspra selva s’intaglia l’immagine policroma e formicolante della Torre di Babele, che don Grazio legge come allusione al mistico disincanto del poeta persiano Omar Khayyam: «Noi siamo burattini, e il cielo è il burattinaio, sulla scena dell’essere giochiamo un futile gioco». C’è l’Ecclesiaste: «Vanità delle vanità», e c’è il Corano: «Cos’è questa vita terrena se non scherzo e gioco». Su e giù per quella torre incerta s’affannano omini dagli occhi grandi, tondi, inebetiti. L’arte di Pantaleone ha qualcosa di infantile, e, al tempo stesso, di potentemente suggestivo. Anche di profilo, quei volti grotteschi ci fissano con gli occhi sbarrati, mentre i loro corpi, disarticolati proprio come quelli dei burattini, si agitano in una drammatica concitazione che ricorda gli esiti più inquietanti dell’arte moderna: Guernica di Picasso per esempio. 

Otranto, il pavimento musivo, Caino e Abele

Otranto, il pavimento musivo, Caino e Abele

E la Bibbia si fonde con la sapienza pagana 

Sul lato destro dell’albero, quasi all’altezza della Torre di Babele,  campeggia un Alessandro Magno in ascesa, copia perfetta della scena narrata nel romanzo allegorico dello Pseudo-Callistene: Alessandro, giunto quasi al termine delle sue imprese, nell’India favolosa, desiderando salire al cielo, utilizza come sostegni e motori ascensionali due grifoni, e li piega al proprio volere senza difficoltà, utilizzando come esca due brandelli di carne infilzati sulle punte di due lance, preda irraggiungibile per gli animali affamati 5.

Ma lungo è il sentiero della purificazione spirituale. Separatosi dalla fonte della vita, l’uomo deve ritornarvi attraversando la valle tempestosa dell’esistenza. E a tratti l’alchimista che sogna la pietra filosofale vede se stesso mutato in spettatore. Sulla scena del mondo, della storia, egli vede danzare le figure del mito, le cosmogonie, le saghe universali che ogni popolo riveste dei suoi nomi e dei suoi colori. È così che il sumero Utnapishtim diventa il biblico Noè. Ed è così che nel mito ellenico Deucalione e Pirra scampano al diluvio e ricreano un’umanità rinnovata.

Otranto, il pavimento musivo, I segni zodiacali

Otranto, il pavimento musivo, I segni zodiacali

E il simbolo dei simboli dell’immenso vortice universale è il cielo della tradizione caldaico-ellenica. Il cielo con le sue Case zodiacali, che nel mosaico idruntino occupa un posto di centrale e rilevantissima entità, costituendo, io credo, il più grande e splendido zodiaco musivo d’Italia insieme a quello di San Zeno a Verona, e d’Europa insieme a quelli delle cattedrali di Reims, Amiens e Sens. E ancora, le grandi storie del Pentateuco, il ciclo del Graal, gli innumerevoli animali simbolici. Sull’albero c’è tutto: «Su di esso, come sulle braccia di una mamma, poggia la storia dell’umanità», osserva don Grazio con la sua impagabile levità.

Otranto, il pavimento musivo, Giona e la nave vichinga

Otranto, il pavimento musivo, Giona e la nave vichinga

E in alto, verso l’Oriente intendo, nell’emiciclo perfetto dell’abside, al culmine della via il pellegrino chi incontra? Strana mistione: la storia di Giona e quella dell’Asino d’oro, una favola biblica e una pagana. Lassù, sulla vetta dell’Albero-Cristo, l’iniziato ai misteri isiaci delle Metamorfosi di Apuleio si confonde con l’anima che grida il suo de profundis. Il senso della rinascita è tutto qui. Dall’asino esce l’uomo (come nella favola di Pinocchio, che ripete lo stesso schema di antica sapienza); dal ventre del pesce esce il santo che pianse per una pianta di ricino. Fu quel santo redentore a salvare la città di Ninive, «nella quale vi sono più di centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra» 6.. Persone che non sanno distinguere tra il bene e il male, perché non conoscono più la radice dell’albero nel quale sono impigliate. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note 
[1] Sui Libros de Acedrex di Alfonso il Savio ha scritto Titus Burckhardt in Le symbolisme du jeu des échecs, in Symboles, Milano 1980: 19-27; e in La civilización hispano-árabe, Madrid 1977: 131-158. Com’è ben noto, il gioco degli scacchi giunse in Europa dalla Persia attraverso l’Andalusia islamica; l’espressione “scacco matto” deriva da šah-māta, che significa “lo šah, cioè il re, è morto” (la parola šah è persiana, il verbo māta è arabo).
[2] Rumi, Poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Milano 1980: 63. I “ghebri” sono gli zoroastriani.
[3] Grazio Gianfreda, Il mosaico di Otranto. Biblioteca Medioevale in immagini, Lecce 2002: 221.
[4] Ivi: 172.
[5] Vita e gesta di Alessandro il Macedone, II, 41. In italiano, in: Il romanzo di Alessandro, a cura di Monica Centanni, Torino 1991: 157-161.
[6] Giona, 4, 9. 
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Massimo Jevolella. Si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).

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