La recente vittoria di Trump ci invita a riflettere sul rapporto apparenza/realtà, verità/post-verità; una relazione che ci sembra più che mai attuale, persino maniacale, se si considera che la vittoria del presidente degli Stati Uniti d’America è legata al modo in cui quest’ultimo appare in televisione, in un discorso politico, in un romanzo, nei giornali e come tutto ciò si relaziona a ciò che si presuppone come realtà. Coscienti del fatto che la sua vittoria è strettamente connessa anche al rapporto tra informazione e percezione della realtà offerta dai mezzi di comunicazione di massa e, oggi, ancor di più dai nuovi media che, in questi ultimi anni, hanno preso piede in modo considerevole, riducendo il mondo in un borgo [1].
Nel 1962 Umberto Eco esamina il problema del rapporto tra informazione e percezione, mostrando come le “persuasioni occulte”, di barthesiana memoria, dalla politica alla pubblicità commerciale, fanno leva sull’acquisizione pacifica e passiva di “buone forme” nella cui ridondanza l’uomo medio si riposa senza sforzo (Eco 1962: 151); intendendo per “buona forma” un modello che «richiede una informazione minima e comporta una ridondanza massima», come messo in risalto dagli studiosi della psicologia della Gestalt. Ora, chiediamoci come ha fatto Donald Trump a vincere le elezioni?
Oggi, al di là della provocazione echiana, sembra che l’interrogativo che ci siamo posti, sulla vittoria di Donald Trump, debba porsi in relazione al medium televisione e, in generale, debba porsi a partire dalla relazione fra essere e apparire, un’opposizione che è alla base dei nostri discorsi; un “apparire” semioticamente inteso come il “manifestarsi del senso”: «il senso deve circolare e per questo uscire dalle menti delle persone: assumere un’apparenza, manifestarsi» (Lorusso 2018: 105).
Non dimentichiamo che la tv americana, a tal proposito, ha sfornato un reality come The Apprentice, prodotto e condotto da Donald Trump e che la first lady Melania Trump ha pubblicato un libro a poche settimane dalle elezioni Usa, dal titolo Melania Trump. La biografia (2024). Un reality come The Apprentice, così come la biografia di Melania, intrecciano inevitabilmente le loro storie private, in questo caso del presidente Usa e della sua first lady, con la verità della televisione e quella di un libro. The Apprentice è un programma tra il reality show e l’emotainment, che ci porta dentro le vite delle persone, rompendo la “quarta parete”, quella fra gli attori e il pubblico, fra lo spazio del palco o di uno spazio televisivo con lo spazio del pubblico, lo spazio di casa. Allo stesso modo il romanzo di Melania Trump, trattandosi di un’autobiografia. Si tratta di un espediente narrativo molto forte, dove a parlare è un “io”, ossia, il soggetto dell’enunciazione. Questo tipo di espediente è definito da Greimas “débrayage enunciazionale”.
Oltre ai casi di débrayage, si possono dare anche casi di embrayage. Nell’embrayage c’è una “chiamata in causa” dell’enunciatario, così da produrre un testo in cui non solo i soggetti costruiscono la loro identità, proiettando un simulacro, un’illusione potremmo dire, un’immagine di sé stessi, ma costruiscono anche l’identità dei propri interlocutori, del pubblico e del mondo che li circonda. Ed è questa la grande idea di Greimas alla base della teoria dell’enunciazione. In questo senso non si parla di realtà, ma di effetti di realtà, effetti di verità, effetti di menzogna, effetti di senso. E ciò risale con chiarezza e coscienza teorica al 1970, con il libro Del Senso di Algirdas Greimas e ancora prima risale a Wladimir Propp.
Come sappiamo, per l’elaborazione del livello delle strutture semio-narrative di superficie, Greimas è fortemente debitore rispetto al lavoro di uno studioso ben noto nell’ambito degli studi sul folklore che è Wladimir Propp, il quale, nel 1928, scrive un libro di analisi di fiabe, intitolato Morfologia della fiaba. Greimas parte da questo testo per sviluppare una sua teoria della narratività; ed è per questo che può essere considerato il “padre dello strutturalismo narrativo”. Secondo Greimas, infatti, se è vero che ci sono delle funzioni che caratterizzano le fiabe, allora ci sono delle funzioni che possono caratterizzare tutti i tipi di testi, siano essi un quadro, un oggetto, un romanzo, uno spot, un film, e via dicendo; e ci saranno delle strutture narrative che caratterizzeranno il principio del funzionamento di questi testi e che lo porteranno ad elaborare lo schema narrativo canonico; uno schema in cui la narrazione è pensata in quattro fasi ben precise: manipolazione, competenza, performanza e sanzione, che rappresentano delle fasi logiche in cui il senso si dispiega, si dà. Tutti i testi, tutti i discorsi, tutto ciò che produce senso, sono impregnati da una logica narrativa.
L’espediente narrativo, di cui sopra, lo ritroviamo non solo nei reality show ma anche in serie tv e cinema e perfino in un quadro come la Gioconda, nota anche come Monna Lisa, con il suo tipico sguardo enigmatico verso l’enunciatario. Volendo fare un esempio, un paragone letterario, questo effetto di uscita dal testo, di embrayage, si ha quando Alessandro Manzoni comunica che scrive I promessi sposi per i suoi “venticinque lettori”, offrendo un esempio di rottura della quarta parete, di débrayage enunciazionale ed embrayage in termini semiotici. Si tratta di meccanismi in cui viene proposta la narrazione. Numerosi gli esempi anche cinematografici. Uno dei casi più celebri è rappresentato dal film del 1977, prodotto e diretto da Woody Allen: Io e Annie. Una situazione che ci riporta immediatamente al mondo del teatro e a quella degli attori che si rivolgono direttamente al loro pubblico.
La carta vincente di Trump è stata proprio questa: saper coinvolgere gli interlocutori, suscitare curiosità, empatia, saper emozionare, rivolgendosi direttamente al pubblico, entrando dentro le vite delle persone, creando identificazione, suscitando passioni, ossia, basandosi sull’effetto del discorso più che sul suo contenuto, come ci insegna anche la retorica antica di Aristotele. Esemplificativo è, a tal riguardo, un passo del Libro secondo della Retorica, dedicato all’influenza sugli ascoltatori. In questo passo, il filosofo stagirita afferma: «In effetti, ai fini della persuasione ha molta importanza il far apparire chi parla di una certa qualità e il far comprendere che egli è disposto in un certo modo nei riguardi degli ascoltatori» (Rh., 1377b 25). O ancora: «Le passioni sono tutte quelle a causa delle quali (gli uomini) mutando, differiscono in rapporti ai giudizi, e a esse seguono dolore e piacere, come l’ira, la pietà, la paura e quante altre sono di questo genere» (Rh., 1378 a 20). Semplificando molto, possiamo dire che nel testo aristotelico si trovano contemplati almeno due tipi di azioni: quella logica che parla all’intelletto dell’ascoltatore e quella che emoziona, che fa riferimento ai sentimenti e alla volontà degli interlocutori.
La televisione e, in particolare, i reality ai quali Trump deve la sua notorietà, non ci fa vedere la realtà ma la deforma, producendo una sorta di iper-realtà, in cui la vera realtà ci “guizza via” [2], esattamente come, per Benjamin, guizzava via la “vera immagine del passato”. La contemporaneità come epoca in cui è diventato molto difficile distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è umano da ciò che non è umano, a causa della pervasività dell’IA nella nostra quotidianità, fa sua l’idea di post-verità, così come di post-umano, in cui non sarà più possibile quella opposizione di base, quella che distingue essere e apparire, verità e menzogna; opposizioni che sono alla base dei nostri discorsi, così come ci ricorda la semiotica testuale di tradizione strutturalista. Per questo più che di realtà, di verità, sarebbe meglio parlare di effetto di verità, effetto di menzogna. Sempre parafrasando Benjamin, si potrebbe dire che la realtà come referente è gradualmente messa tra parentesi, e quindi completamente cancellata; a noi non restano altro che “effetti di senso” che «non hanno a che fare col confronto col reale, ma con l’idea di verità che abbiamo e con il modo in cui il discorso ce la restituisce» (Lorusso 2018: 106).
I nuovi media e, soprattutto l’IA, producono questo strano occultamento della realtà, mostrando la gravità di una situazione in cui noi sembriamo essere sempre più incapaci di fornire rappresentazioni adeguate della nostra attuale esperienza. Tutta la comunicazione altro non è che una “creazione di illusioni”, come mostrato da Greimas attraverso il cosiddetto quadrato della veridizione. Quadrato che è stato ripreso da Mirzoeff e da Lorusso per mettere in evidenza la strategia comunicativa di Trump, stabilendo una relazione fra apparenza e realtà, ossia, stabilendo in che modo ciò che appare in un giornale, in televisione, in un discorso politico, si relaziona a ciò che si presuppone come realtà: «la notizia è sempre meno pensata come documento. A prevalere è un criterio non di attendibilità, ma di efficacia narrativa» (Lorusso 2018: 119). Solo così possiamo spiegare la vittoria di Trump. Bachelard direbbe: “i fatti sono fatti”. Dal nostro punto di vista, ogni volta che si registra un fatto, dovremmo ricordarci che abbiamo sempre a che fare con un fatto interpretato, con un fatto che si forma, che si costruisce, fino a diventare realtà. Ed è su questo che si basa la nostra società.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Marshall McLuhan nel 1968 coniò l’espressione villaggio globale, per indicare come l’avvento dei mass media avrebbe ridotto il mondo in un villaggio.
[2] Il riferimento a questa espressione è presente nella tesi quinta quando, tematizzando il concetto di passato per lo storicismo, Benjamin scrive: «E’ solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere. “La verità non ci scapperà”. Questa frase, che è di Gottfried Keller, segna, nell’immagine di storia dello storicismo, il punto esatto in cui essa è infranta dal materialismo storico. Infatti, è un’immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non sia riconosciuto inteso in essa» (Benjamin: 25, 27).
Riferimenti bibliografici
Aristotele (2004), Retorica e poetica (a cura di Marcello Zanatta), Utet, Torino.
Benjamin, Walter (1942), Tesi di filosofia della storia, (in Id., Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Ranchetti Michele), Einaudi, Torino 1997.
Eco, Umberto (1962), Opera aperta, Bompiani, Milano.
Greimas, Algirdas (1970), Du sens, Seuil, Paris; trad. it., Del senso, Bompiani, Milano 1996.
Greimas, Algirdas (1983), Du sens II, Seuil, Paris; trad. it. Del senso 2, Bompiani, Milano 1984.
Lorusso, Anna Maria (2018), Postverità. Fra reality tv, social media e storytelling, Editori Laterza, Bari-Roma.
McLuhan, Marshall (1964), Understanding media. The extension of man, New York: McGraw-Hill.
Mirzoeff, Nicholas (1999), An Introduction to Visual Culture, Routledge, London; trad. it. Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Roma 2002.
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Valeria Dattilo, Ph.D., è docente a contratto di Semiotica per il Design presso il Dipartimento di Architettura dell’Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara. Attualmente è anche borsista di ricerca all’Università di Teramo dove lavora su “Legal Semiotics”, sul rapporto tra semiotica e processi giuridici. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali. Nel 2022 ha curato un numero sulla rivista scientifica Filosofi(e)Semiotiche, di cui è editor-in-chief, dal titolo “Tra etica e semiotica. Segni e natura nell’era dell’Antropocene”.
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