È noto che nelle pagine e in diversi numeri di questa rivista si è articolato un vivace dibattito sulla crisi contemporanea della antropologia, sulla sua ridefinizione epistemologica nel più generale contesto delle scienze umane e nel concreto ordinamento dei ruoli professionali. L’afonia e l’invisibilità della disciplina, la sua minorità e debolezza statutaria, la scarsa rappresentatività nella sfera pubblica, l’assenza sistematica nei gangli della politica e nelle strategie della comunicazione mediatica sono dati fattuali e culturali ampiamente denunciati e cronicizzati. L’antropologia in Italia soffre da tempo di queste criticità probabilmente riconducibili a questioni irrisolte fin dalla sua fondazione, «una demartiniana “crisi della presenza”» come acutamente Dario Inglese (2022) ha coniato la paradossale condizione di una disciplina che nelle sue molteplici e contraddittorie declinazioni studia in definitiva un sapere consustanziale alla crisi, restando in qualche modo avviluppata nella proposizione tautologica di un inquieto sapere della crisi ovvero di un sapere perennemente in crisi.
Nelle ambiguità sottese alla formazione della sigla dei Beni DEA – esito forse di una fusione a freddo – possono essere attribuite le difficoltà a tenere insieme le spinte centripete ovvero le illustri e ingombranti eredità della tradizione di studi e le tendenze centrifughe cioè le nuove prospettive scientifiche in ordine alla mutazione dei soggetti e alla conseguente revisione critica delle culture popolari. La rovinosa segmentazione prodotta negli ultimi anni dagli specialismi di settore ha accompagnato il processo di sfilacciamento di quella trama genealogica che rendeva in qualche modo riconoscibile l’antropologia italiana, una deriva accentuata dalla scomparsa di quegli stessi maestri protagonisti della stagione del secondo dopoguerra. In questa tumultuosa transizione si sono aperte profonde fratture interne, legittime divaricazioni e nocive contrapposizioni, fino a registrarsi una progressiva marginalizzazione della demologia, una lenta dispersione e dissipazione del patrimonio di studi folklorici troppo spesso liquidati in modo sommario da istituzioni e comunità intellettuali come espressione di attardamenti e anacronismi su una materia inattuale e residuale.
Dichiarato il folklore – parola e concetto – definitivamente desueto e l’interesse scientifico del tutto obsoleto, si rischia di tagliare maldestramente i fili che riconducono alle ascendenze storiche della disciplina, di cancellare la memoria dei debiti e con essa l’unità e la specificità, quei tratti che identificano stile e profilo dell’antropologia italiana a partire da Pitrè fino ad arrivare per vie molteplici e diverse e tuttavia convergenti alla generazione di studiosi degli anni ‘80 e ‘90 del Novecento. Eppure, anche accogliendo le critiche rispetto a teorie e metodologie che privilegiavano la dimensione arcaica della cultura tradizionale, non si può non riconoscere che la ricerca demologica ha dato un contributo fondamentale alla formazione della “scuola italiana” che nel contesto europeo può vantare di aver recato la esemplare lezione gramsciana sulla dialettica egemonia/subalternità applicata ai dislivelli interni di cultura. Da qui la necessità di ripensare il destino della lettera D nell’ambito dei beni DEA, di ricomporre la frattura, di «riportare gli antropologi dentro l’antropologia italiana», come auspica Francesco Faeta (2014: 119), non certo per folklorizzare l’antropologia ma se mai per antropologizzare il folklore.
Non serve un geloso e sterile ripiegamento entro gli angusti e protetti confini disciplinari quanto piuttosto «una laboriosa e paziente opera di ricucitura» come sostiene Fabio Dei (2012: 113), senza rinnegare il rapporto con gli antenati mitici della folkloristica italiana nel rigoroso rispetto dei valori e dei significati attribuiti alla traditio, di cui ci si vanta di studiare e conoscere le dinamiche culturali. «Costruire una genealogia, cercare di configurare un lignaggio negli studi è cercare di sottrarre alla dimenticanza delle connessioni, delle intuizioni, degli stili di analisi o di riflessione». Così Pietro Clemente (1999: 9) da tempo attento ad un’antropologia delle generazioni «che, rovesciata, diventa riconoscimento di generazioni nell’antropologia» (ivi: 11). Sotto questo segno un po’ autobiografico e un po’ autocritico, si può forse ricollocare la demologia nel quadro unitario delle scienze umane, si può restituire dignità e autorevolezza alla immagine pubblica di quella Storia delle tradizioni popolari oggi appannata e ghettizzata da certo mainstream accademico più sensibile e prono alle più aberranti vocazioni modaiole d’oltreoceano.
Che il folklore esiste e vive nelle pratiche e nelle forme della modernità e che lo studioso che se ne occupa non è un raccoglitore di anticaglie o un nostalgico collezionista di reliquie del passato è documentato dagli esiti etnografici delle numerose e brillanti ricerche sui temi dell’heritage, sui fenomeni della patrimonializzazione dei beni immateriali, sulle comunità di eredità e sulle performance di rifunzionalizzazione di tecniche, usi, riti, linguaggi formali e artistici. Il paradigma demologico continua infatti a dialogare con la società locale e globale contemporanea, restando se stesso pur aprendosi a nuovi approcci, adottando nuovi sguardi, assumendo nuovi orientamenti. Una vitalità ampiamente e ostinatamente attestata, nonostante tutto, forse perché alla fine, oltre gli esasperati specialismi, i tecnicismi e le speculazioni ideologiche più astratte, l’esercizio critico della disciplina si misura e si interroga sulle questioni esistenziali, sul vissuto, sul rappresentato e sull’immaginato dall’uomo in carne e ossa che nella diversità delle risposte ci aiuta a ritrovare il carattere universale delle domande.
Su questo fronte, a volte perfino dilaniato da conflittualità interne alle tribù accademiche, è da tempo impegnato Ignazio E. Buttitta, un antropologo che della fedeltà ai principi costitutivi della tradizione italiana della disciplina ha fatto il carattere distintivo del suo profilo di studioso, la mozione intellettuale e sentimentale che ne anima l’assiduo e proficuo lavoro di ricerca. L’oggetto della sua antropologia resta pienamente riconoscibile dentro le pagine della letteratura folklorica e meridionalistica della “scuola italiana”, segnatamente e prevalentemente dedicato alla riflessione sui sistemi cerimoniali e simbolici del mondo popolare tradizionale.
«Non mi sfugge – ha scritto in una sua monografia (2013: 14-15) – di vivere nel tempo della “liquefazione” delle certezze e della “decostruzione” dei paradigmi, della “falsificazione” e della “meta-interpretazione” dei fatti; un’epoca di “abiure” e di “riscritture” che vede numerosi e autorevoli intellettuali impegnati a demolire, talvolta con autentico spirito scientifico, tal’altra con una certa acrimonia e con qualche furbizia, alcuni secoli di studi e ricerche rivolti alla costruzione di modelli interpretativi in grado di fornire spiegazioni utili al comportamento umano nel suo insieme. (…) Resto comunque convinto che le ragioni dell’oggi non possano prescindere dallo studio del passato e da una visione d’insieme, e continuo a credere che certi strumenti e certe idee, sia pure logorati dal tempo e da un uso spesso improprio, possiedano ancora una loro efficacia euristica e interpretativa».
Con questo convincimento teorico e metodologico lo studioso ha indagato sulle correlazioni tra il lavoro contadino e il calendario festivo, sugli usi rituali del fuoco, sulle forme e funzioni delle danze armate, sui cibi sacri, sui culti dei santi e sui pellegrinaggi e più in generale sulle varie testimonianze materiali e immateriali della religiosità popolare. Le permanenze e le invarianze restano al centro del suo fare antropologia, non le sopravvivenze ma le persistenze, i segni e i disegni della “memoria lunga”, ovvero «la lunga durata delle espressioni rituali e delle dinamiche della loro ricomposizione, risemantizzazione, rifunzionalizzazione» (ibidem). Non la ricerca spasmodica delle origini dei fenomeni, il mito fondante dell’evoluzionismo, la minuta e univoca ricognizione filogenetica che dal presente risale meccanicamente e direttamente al passato remoto, ad una indefinita preistoria delle idee e dei comportamenti, a un tempo senza tempo, a qualche primordiale archetipo dell’immaginario.
Evan-Pritchard (1971: 185) ammoniva che «la scienza ha a che fare con le relazioni, non con origini ed essenze». Ne è pienamente consapevole Buttitta che nel ricorso al metodo comparativo pur interrogandosi sui suoi limiti ne riconosce tuttavia la legittimità e le virtualità euristiche in una prospettiva rigorosamente storicista. Da qui l’utilità delle fonti archeologiche, materiali e documentali nel tentativo di ricostruire le connessioni cronologiche e di comprendere le complesse articolazioni delle tradizioni popolari contemporanee, le corrispondenze logiche e fenomenologiche, le cosiddette “somiglianze di famiglia”, il senso delle strutture morfologiche e dei codici simbolici nel quadro diacronico e sistemico dei fatti culturali. I singoli istituti festivi che identificano e rinnovano il calendario di città e paesi vanno pertanto letti e studiati nel loro rapporto con gli altri e nella loro dimensione ciclica. La ricorrenza transculturale in contesti diversi di certe sequenze rituali e relativi apparati simbolici, la stabilità e la continuità nel tempo delle forme pur nella variabilità dei significati e delle funzioni, possono spiegarsi come risposte culturali al permanere di determinati regimi esistenziali, di condivise visioni del mondo, di comuni e primarie istanze della produzione e della riproduzione, in ultima analisi della persistenza storica delle «ragioni dell’essere nel divenire» (Buttitta 2013:35).
Nel suo ultimo libro, Una è la forma, molti sono i nomi. Scenari del sacro femminile tra la Sicilia e Creta (Museo Pasqualino edizioni 2022), l’autore continua a scandagliare nel groviglio di quei nodi tra allegorie e analogie che connettono l’Antico e il Popolare, le pratiche arcaiche del sacro e le forme devozionali folkloriche, i sistemi mitico-rituali del mondo precristiano e le diverse declinazioni della religiosità contadina tradizionale. In questo palinsesto di segni tracciati, sovrapposti, cancellati e riscritti nella stratificazione di una storia plurisecolare e, nella accezione braudeliana, strutturale, l’attenzione dello studioso si concentra sulla centralità del femminile nel complesso dei culti, nella incorporazione dei simboli, nella gestione e nel paesaggio dei riti. Lontano dallo scivolare nelle sabbie mobili del comparativismo, lo studio non aderisce certo ad un acritico modello temporale evolutivo, tra l’altro largamente archiviato nel dibattito scientifico dell’antropologia, ma assume piuttosto la pratica del comparare quale interrogativo metodologico, risorsa critica e riflessiva, con un approccio interdisciplinare e una postura transculturale.
Nell’isolare alcuni nuclei simbolici cardini della sintassi del sacro – la pietra, le grotte, i boschi, le acque, gli alberi, il fuoco – Buttitta descrive l’ampio scenario dei culti, delle credenze e delle esperienze religiose che nell’orizzonte euromediterraneo vedono protagoniste figure di donne, siano esse dee, sacerdotesse, ninfe, sante, madonne. Dai fondali di questo pantheon riemerge l’antico e annoso tema della Dea Madre, incarnazione della procreazione, archetipo dell’eterno femminino, modello mitico della Terra che sembra attraversare tutte le civiltà. L’antropologo, che su queste suggestioni culturali procede per ipotesi, interrogazioni, supposizioni, provocazioni, fonda i suoi ragionamenti sulla scorta di reiterate e sistematiche ricerche etnografiche sul campo, un rigoroso percorso scientifico associato alle campagne di documentazione degli scavi archeologici, a fonti dunque ed evidenze diacroniche e sincroniche rilevate in parallelo su due contesti insulari, la Sicilia e Creta.
Il dialogo tra antropologia e archeologia rende più attendibili e intelligibili i significati da attribuire alle testimonianze della cultura materiale e di quella immateriale, contribuisce a chiarire connessioni e profondità storiche, corrobora le tesi e ne sostanzia le identità di luoghi e tempi. Buttitta ne ha sperimentato e valorizzato le effettive potenzialità nella concreta ricognizione dei territori e nella individuazione nelle due isole di elementi e aspetti di quella koinè culturale e cultuale riconoscibile nell’ambito mediterraneo. Eguale è il denso sostrato agrario dell’economia cerealicola, comune per molti tratti la fase protostorica degli insediamenti, affini pur con le ovvie peculiarità le manifestazioni cerimoniali e le espressioni magico-religiose. Ad un analogo calendario cerimoniale scandito secondo le principali fasi dei cicli produttivi e ad un arcaico orizzonte di riferimenti mitico-rituali sono infatti riconducibili i culti per le divinità agrario-telluriche, interpreti della fecondità umana e vegetale, in intima relazione con i culti per i morti, allegorie dei semi riproduttivi. Una continuità invisibile e sotterranea che sembra legare le Madonne e le sante del mondo cristiano alle moltitudini di donne dell’antichità, dee dell’amore e della vita, protettrici dei parti e degli infanti, signore delle acque e dei boschi, potenze ctonie custodi delle grotte e patrone materne e taumaturgiche, figure multiformi e polisemiche che hanno ispirato e abitato l’immaginario popolare per millenni.
«Che si voglia ammettere – scrive Buttitta – ovvero respingere come fallace e foriera di fraintendimenti l’ipotesi di una relazione storica delle espressioni del sacro femminile e delle relative forme cultuali antiche con quelle popolari contemporanee (di dee e ninfe con sante e Madonne), che si voglia accogliere o meno l’idea stessa di una preminenza delle divinità femminili nell’universo magico-religioso preistorico e protostorico delle culture mediterranee, resta il fatto, incontestabile, che una molteplicità di riti, di credenze, di culti documentati nel folklore euro-mediterraneo non sono in alcun modo riconducibili a orizzonti ebreo-cristiani antichi e medioevali né possono essere considerati, se non altro in ragione della loro diffusione, neo-formazioni popolari o invenzioni moderne e contemporanee».
Il titolo del libro Una è la forma, molti sono i nomi, che richiama un’espressione usata da Prometeo incatenato riferita alla madre Tetide, evoca la suggestione di un primato ovvero l’assoluta rilevanza della figura femminile nella varietà degli appellativi, nel pluralismo delle religioni e nel mutevole divenire delle esperienze storiche. Da Demetra a Maria è la traversata che l’autore ci invita a compiere per tessere i fili sottili di questa grande tela di relazioni, di permanenze e di occorrenze, ordita di rituali lustrali e di offerte sacrificali, di cortei processionali e di ostensione di simulacri, di pellegrinaggi a santuari e di epifanie divinatorie. Prassi e credenze che attraversano tempi remoti e mondi diversi fino a giungere a noi non per diretta filiazione né in forma di disorganici rottami e di “frammenti indigesti” di una arcaica cosmogonia magico-religiosa, ma piuttosto attraverso traduzioni, riplasmazioni e declinazioni dell’umana e perenne istanza del sacro, del diffuso e presente bisogno di protezione, di condivisione e di risoluzione delle ansie e dei drammi del quotidiano.
Così la Mater dolorosa, icona della sofferenza e del riscatto, ancora oggi oggetto di diffuso culto nella religiosità popolare non è immagine epigona di Demetra o di Cerere ma di queste antiche divinità delle messi è in qualche modo irriflessa memoria, rappresentazione simbolica di un eguale patronato. Buttitta passa in rassegna e incrocia la letteratura scientifica, le attestazioni archeologiche e soprattutto le evidenze etnografiche rilevate in numerosi e diversi luoghi ove la soggettività femminile è preponderante e totalizzante e le Madonne sono associate a cavità naturali e colonne di pietra, a elementi arborei e vegetali, a sorgenti di acque. Così a Creta presso il santuario di Santa Maria Panagia si celebra la festa della Madonna Myrtidiotissa, con un pellegrinaggio, la processione dell’icona della Vergine del mirto intorno alla chiesa e la sospensione ai rami di un secolare albero degli ex voto per grazie ricevute. Non diversamente in Italia e in particolare in Sicilia sono ancora vivi i culti “arborei” o “silvicoli” dedicati a Maria, come a Salaparuta, comune del Belice che ha per patrona la Madonna del Piraino, la cui leggenda di fondazione narra del rinvenimento in prossimità di un torrente di una pietra dipinta con la Vergine assisa su un pero selvatico. Il simulacro venerato riproduce postura e struttura dell’effigie lapidea. Altrove i cortei processionali della Madonna sono quasi sempre accompagnati dall’esposizione di fiori e fronde, e in territorio nebroideo e nell’agrigentino dal trasporto di vistosi rami di alloro.
Un capitolo a parte l’autore riserva alle Madonne e alle Sante di Palermo che nella molteplicità delle denominazioni incarnano il processo collettivo di appropriazione e di personalizzazione individuale, confermando i caratteri di contrattualità e di territorialità che connotano il culto mariano. Si chiami Rosalia o Rita, delle Grazie o del Paradiso, del Carmelo o del Lume, della Mercede o dei Naufraghi, della Cintura o del Rosario, in tutte si esprime al massimo grado quella tendenza alla identificazione tra sacro e santo, suffragando quanto ebbe a scrivere molti anni fa lo storico Giuseppe Galasso (1982: 68): «Nel Mezzogiorno il sacro non vive che come santità. La sacralità assume perciò una fisionomia totalmente personalizzata. Il culto del sacro è culto della personalità di un santo (…). Anche la Madonna è un santo». E tra tutte l’Addolorata è senz’altro la Madonna più amata e venerata, perché – come ha osservato Gesualdo Bufalino (1988: 34) – «agli occhi del siciliano su ogni implicazione mitico-magica fa premio lo strazio della madre offesa, il suo pianto carnale, mentre nasconde sotto lo scialle la faccia e si sente penetrare sette volte la spada nel cuore».
La straordinaria vitalità delle feste celebrate nel cuore del centro storico di Palermo, partecipate e attentamente studiate dall’antropologo, rivela il particolare dinamismo di questo istituto culturale che nel conservare l’impianto cerimoniale tradizionale ne rinnova e ne attualizza forma e funzioni. Nei quartieri popolari è occasione del ritorno dei vecchi abitanti non più residenti e del protagonismo di gruppi di immigrati stranieri che in quegli spazi lavorano o dimorano. Buttitta ragiona sui fenomeni di possibile sincretismo, sul ruolo ancora attivo delle confraternite, sui rapporti spesso ambigui e conflittuali e sempre rimarchevoli tra politica e religione, sui rischi di infiltrazioni di tipo mafioso, sui nuovi modelli performativi che sovrintendono all’organizzazione del Festino della patrona, santa Rosalia, una vera e propria “macchina mitologica”, «autocelebrazione di una città, palcoscenico di magnificenza e potere».
Chiude il libro l’analisi delle notevoli tradizioni folkloriche legate alla figura di santa Lucia di Siracusa con un puntuale excursus filologico e letterario sulle origini e migrazioni dell’iconografia, sul motivo mitico-rituale degli occhi, sulla relazione attestata fin dall’antichità tra il nome della santa e la luce intesa come purezza nonché sul patronato sulla vista documentato sin dall’Alto Medioevo. La scadenza solstiziale e liminare della festa unitamente alla storia del suo martirio richiamano la centralità del fuoco che negli usi delle vampe accese quel giorno in moltissimi paesi sottolinea il rito di passaggio e presentifica l’originaria funzione di rifondare il cosmo naturale e sociale. Il consumo del grano bollito, della cosiddetta cuccia che costituisce costume rituale delle celebrazioni luciane, connette infine la leggenda di fondazione della devozione cattolica alla santa a «pratiche cultuali di assai più remota origine, con generale riferimento alla dea delle messi par exellence, Demetra/Cerere e segnatamente alla sua caratterizzazione ctonia».
Torna dunque Buttitta in conclusione a proporre una riflessione critica sulle relazioni tra le diverse figure femminili dell’universo mitico dell’antichità e le Madonne e le Sante dei contesti festivi contemporanei, tra le strutture simboliche delle religioni del lontano passato e le espressioni folkloriche del calendario cerimoniale del nostro presente. Torna su questioni che ha a lungo dibattuto con impegno, acume e passione, non avendo mai cessato di ricercare sul terreno e di documentare nel confronto con altre fonti la profondità e la densità semantica delle permanenze e delle invarianze di simboli e riti delle culture popolari. Il suo sguardo è in questo libro mirato agli scenari del sacro femminile, a quelle feste e a quelle forme cultuali che nel loro sistema segnico per quanto disarticolato e rimodulato rendono ancora oggi visibili arcaiche persistenze, testimonianze e memorie riconducibili al motivo mitico-rituale della Grande Madre e riferibili alla grande area euromediterranea.
Tra le molteplici sollecitazioni che le pagine di Buttitta suggeriscono c’è senza dubbio per implicita inferenza il recupero dell’immagine – non reificata né inventata – di quel Mediterraneo che Braudel definì «un insieme di insiemi», di questo continente liquido dove tutto sembra essere già accaduto per dirsi e definirsi esemplare, spazio elettivo di comparazione in quanto luogo storico dell’interscambio tra lingue e religioni, di quel gioco di specchi e di sguardi incrociati che sfumano le differenze nel segno non delle addizioni ma delle ibridazioni. Questo Mediterraneo può accogliere dunque l’ipotesi di una comune koinè culturale, di un sostrato profondo di simboli, un’identità riconoscibile in quella “aria di famiglia” che si percepisce nei porti delle città come nei riti, nei cibi, nei miti, nelle tradizioni orali e nelle loro migrazioni nel tempo e nello spazio. Ripensare una certa idea di mediterraneità a partire dalla circolazione dei linguaggi simbolici del sacro, senza ricadere nelle trappole delle vecchie e ingenue categorie interpretative essenzializzanti, può essere una feconda ipotesi di lavoro da sviluppare tra antropologia e archeologia anche attraverso un accorto e critico approccio comparativo. In questa prospettiva Buttitta – anche nel solco dell’opera lungimirante del compianto archeologo Sebastiano Tusa – è impegnato a dare legittimità euristica al concetto stesso di area mediterranea e ha scelto il campo del folklore religioso per studiare come in questo ampio orizzonte le culture si assomiglino e come si differenzino nella loro irriducibile peculiarità.
Un’altra riflessione infine si può trarre dalla lettura di questo libro, e ci riconduce alle considerazioni iniziali sulla crisi e il destino della demologia. In questa disciplina che può coniugare il vicino con il lontano, il canone domestico con un campo etnografico più largo, l’autore si è guadagnato un autorevole e originale ruolo di studioso delle feste popolari e delle pratiche devozionali, cogliendo unitamente ai tratti strutturali delle invarianze simboliche le evoluzioni e le trasformazioni, i processi di rifunzionalizzazione di forme e segni e i rischi di manipolazione in dipendenza di rivendicazioni identitarie, di competizioni patrimoniali e di esigenze turistiche. Dei fenomeni cerimoniali di carattere religioso Buttitta conosce le dialettiche di potere che vi sono implicate, le complesse strategie sociali e politiche che producono alleanze, esercitano controlli, gestiscono economie e risorse. Non c’è festa che non sia luogo non solo delle manifestazioni di culto ma anche di negoziazioni, di sfide e di rappresentazioni perché essa è prima di tutto un fatto di relazioni pubbliche, di partecipazione comunitaria, di socializzazione e di aggregazione territoriale. Va dunque letta nella sua architettura di simboli e di miti non meno che nella sintassi che ne organizza le presenze e le sequenze e ne ordina gli spazi e i tempi.
Nel suo incessante indagare sul terreno e nel territorio non solo siciliano Buttitta non si è mai sottratto alla puntuale denuncia delle torsioni di senso che la esasperata spettacolarizzazione mediatica e le crescenti spinte distorsive alla mercificazione del sacro hanno introdotto nelle attuali dinamiche di alcune feste popolari. Accade quando, in nome degli obiettivi di salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali immateriali, agenzie esterne alla comunità condizionano pesantemente le procedure e i programmi così da piegare i processi di patrimonializzazione in progetti valoriali meramente economici o strumentalmente politici, fino al punto di inventare e costruire immaginarie poetiche della memoria e dell’identità. Al di là delle vecchie categorie dell’autenticità di una tradizione o delle retoriche sulla purezza di una cerimonia rituale, l’antropologo sa che il discrimine sta dentro i rapporti di potere tra i soggetti che producono il patrimonio e quanti ne assicurano la conservazione e la continuità nell’inevitabile vicenda della metamorfosi e del rinnovamento.
Nel loro farsi e iterarsi le feste in quanto parafrasi dei bisogni e dei conflitti, delle istanze e delle contraddizioni sociali e culturali restano un osservatorio privilegiato delle articolazioni antropologiche della vita di una comunità, restano pertanto oggetto di studio necessario e utile alla comprensione a livello profondo delle attese e delle aspirazioni della collettività, delle ansie e delle interrogazioni degli uomini. Ecco perché la lunga e ininterrotta ricerca di Ignazio E. Buttitta intorno all’universo popolare dei riti e dei simboli del sacro vale non solo a ricollocare lo studio delle performance folkloriche nell’ampio contesto dell’antropologia, ma contribuisce anche a ripensare la cultura tradizionale nella contemporaneità, a ribadire la sua vitalità e il suo radicamento nonché le ragioni della coesistenza di più e diversi modi di vivere, di pensare, di immaginare e di stare nel mondo.
Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023
Riferimenti bibliografici
Bufalino G., 1988, La luce e il lutto, Sellerio Palermo.
Buttitta I. E., 2016, Continuità delle forme e mutamento dei sensi. Ricerche e analisi sul simbolismo festivo, Bonanno editore Acireale-Roma
Buttitta I. E., 2022, Una è la forma. Molti sono i nomi. Scenari del sacro femminile tra la Sicilia e Creta, edizioni Museo Pasqualino Palermo.
Clemente P., 1999, Gli antenati dentro la pagina, in “Archivio Antropologico Mediterranei”, anno II, n. 1-2: 7-15.
Dei F., 2012, L’antropologia italiana e il destino della lettera D, in “L’Uomo”, n. 1-2: 97-114.
Evans-Pritchard E. E., 1971, Teorie sulla religione primitiva, Sansoni, Firenze
Faeta F., 2014, Ancora sul destino della lettera D (… e della lettera A). Riflessioni a partire da uno scritto di Fabio Dei, in “L’Uomo”, n. 2: 107-122.
Galasso G., 1982, L’altra Europa, Mondadori Milano
Inglese D., 2022, La “crisi della presenza” dell’antropologia nello spazio pubblico, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 58, novembre: 57-63
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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