Il seguente articolo è il risultato di una ricerca quanti-qualitativa di due anni (2010-2012) condotta su tutto il territorio regionale e finanziata dalla Regione Autonoma della Sardegna, nel contesto della L.R. 7/ 2007 sulla Ricerca Scientifica. Senza il suddetto importante supporto non sarebbe stato possibile mettere in evidenza processi sociali, criticità e possibili soluzioni, tali come l’insediamento e la potenziale inclusione delle comunità migranti, nel caso specifico: le donne immigrate marocchine.
Come è solito procedere nella maggior parte dei lavori di ricerca, si è voluto creare una equipe di lavoro che ha coinvolto mediatori culturali, la rilevante collaborazione di Enti Locali e, sotto il profilo dell’analisi più propriamente qualitativa dei dati ottenuti, il Dipartimento di Psicologia dell’Università del Salento. Non è mia intenzione informare e descrivere in modo dettagliato tutti gli step, metodologia e aspetti propriamente accademici della ricerca, ma concentrarmi su alcuni elementi cruciali che mettano in evidenza le peculiarità, le caratteristiche, i profili emergenti di un flusso migratorio in costante aumento e che riveste estremo interesse, sia per i policy makers che per l’opinione pubblica in generale: la femminizzazione dei flussi migratori.
La tempistica a disposizione si è resa necessaria proprio per creare una struttura interpretativa di una storia silente di migrazione femminile che andava analizzata, in un esercizio continuo di graduale scoperta di situazioni socio-familiari contestuali, che potessero essere in ultima analisi generalizzate in un modello comune. Si è cercato in primo luogo di trovare un meccanismo che fosse in grado di contestualizzare i movimenti migratori femminili marocchini in Sardegna, in un quadro già da tempo disegnato, e che si rispecchiasse in quello che la dottrina ha definito come Modello Migratorio Mediterraneo: caratterizzato principalmente da tipologie di insediamento legate a particolari permessi di soggiorno, tra i quali quello per ricongiungimento familiare. Inoltre, la prospettiva di genere nello studio della femminizzazione dei flussi migratori ha finito per chiudere con una razionale cornice il quadro che ci eravamo preposti di elaborare.
La nostra identità di genere, come pure gli atteggiamenti e le inclinazioni sessuali ad essa collegati, si forma così precocemente nella vita che da adulti la consideriamo perlopiù scontata. Ma il genere non è soltanto qualcosa che esiste; tutti noi, secondo alcuni sociologi, costruiamo il genere nelle interazioni sociali con gli altri, tutti gli aspetti della nostra esistenza sono condizionati dal genere. C’è da aggiungere che, poiché le differenze di genere sono strettamente legate a questioni di disuguaglianza e di potere, esse sono di grande interesse per i sociologi. Vi sono varie teorie ed interpretazioni sociologiche delle differenze e disuguaglianze di genere. Qui di seguito elenchiamo la più consona alla nostra ricerca che non dimentichiamo si sviluppa in un universo come quello arabo-musulmano dove le influenze sociali, le etichettature dettate da secoli di storia mal interpretata ed in ultima analisi la costruzione sociale del genere è una diretta conseguenza di convinzioni religiose e culturali.
Una via che si può percorrere per comprendere le origini delle differenze di genere è quella che pone l’accento sulla socializzazione di genere, ovvero sull’apprendimento dei ruoli di genere attraverso agenti sociali come la famiglia, la scuola e i media. Questo tipo di approccio distingue tra sesso biologico e genere sociale: un bambino nasce col primo e sviluppa il secondo. Attraverso il contatto con diversi agenti della socializzazione, primari e secondari, i bambini interiorizzano gradualmente le norme e le aspettative sociali corrispondenti al proprio sesso. Da queste prime battute si comprende che un agente sociale come la famiglia arabo-musulmana di tipologia fondamentalmente patriarcale abbia nel corso dei secoli assegnato dei ruoli ben precisi ai propri figli ed alle proprie figlie, influenzando così anche le aspettative che su di essi ripongono le società di riferimento.
Le differenze di genere non sono biologicamente determinate, ma sono un prodotto culturale. In questa prospettiva, le disuguaglianze di genere derivano dal fatto che uomini e donne vengono socializzati a ruoli differenti. È importante ricordare che gli esseri umani non sono oggetti passivi che subiscono senza discussioni la programmazione di genere, come ritengono alcuni sociologi. Essi sono soggetti attivi che creano e modificano i propri ruoli. Le identità di genere sono effettivamente, come è già stato detto sopra, il risultato di influenze sociali e sono anche molti i canali attraverso cui la società influisce sull’identità di genere. I personaggi maschili tendono a impersonare ruoli più attivi e avventurosi, mentre quelli femminili sono più frequentemente passivi, attendisti, collocati in ambiti domestici. Una volta assegnato un genere, la società si attende che gli individui agiscano da maschi o da femmine. È nelle pratiche quotidiane che tali aspettative vengono soddisfatte o riprodotte. Le differenze di genere sono raramente neutrali e in quasi tutte le società comportano significative disuguaglianze sociali.
Il genere è un fattore cruciale nel determinare le chance di vita che si offrono ad individui e gruppi, e influenza in maniera sostanziale i ruoli che essi svolgono all’interno delle istituzioni sociali, dalla famiglia allo Stato. I ruoli maschili sono, in generale, più reputati e premiati di quelli femminili: in quasi tutte le culture alle donne sono tradizionalmente affidati i lavori domestici e la cura dei figli, mentre gli uomini hanno la responsabilità di provvedere al mantenimento della famiglia. Questa divisione sessuale del lavoro ha fatto sì che uomini e donne raggiungessero posizioni ineguali in termini di potere, prestigio e ricchezza e, di conseguenza, evidenti disuguaglianze di genere.
Senza dubbio esistono esperienze di migrazioni al femminile, soprattutto tra donne provenienti da Paesi musulmani, in cui risultano dominanti motivazioni di carattere familiare. Tuttavia, emigrare per ricongiungersi alla propria famiglia non esclude di aver preso parte attiva all’elaborazione del progetto o di aver sviluppato aspirazioni personali. In altri casi la scelta di lasciare il proprio paese rappresenta l’avvio di un’esperienza strettamente personale, fatta a prescindere dalla famiglia, se non contro di essa. Alle motivazioni economiche si coniuga una strategia di emancipazione da un ambiente che non offre sufficienti margini di libertà e di autodeterminazione.
La migrazione influisce nelle relazioni di genere da un lato rafforzando le disuguaglianze ed i ruoli tradizionali, ovvero indebolendoli e trasformandoli. Il genere influisce in quegli individui che migrano nelle motivazioni che hanno portato alla decisione di farlo, nelle forme in cui la migrazione ha degli impatti positivi o negativi nelle stesse persone che migrano, nelle aree di origine e di accoglienza. Nella maggior parte dei casi, le decisioni relative alla migrazione si prendono in risposta ad una combinazione di pressioni ed incentivi di carattere economico e sociale. Le disuguaglianze di genere all’interno degli stessi Paesi e tra gli stessi creano negli individui delle forti pressioni ed incentivi verso la migrazione. La ricerca di un lavoro è un rilevante fattore stimolante per cambiare vita e quindi intraprendere la strada della migrazione sia per le donne che per gli uomini. Nonostante tutto, le cause economiche sono soltanto uno dei numerosi fattori che determinano una decisione così importante. Ricordiamo che principalmente una donna può imboccare la strada dell’abbandono del suo Paese di origine per: riunificazione familiare o per allontanarsi da una realtà sociale che evidentemente discrimina per ragioni di genere o per disposizioni normative di genere restrittive. Seguendo le conclusioni di alcuni studi (Ambrosini, Cioni, 2008): «gli studi più interessanti che attualmente vengono effettuati su genere e migrazioni hanno un impianto contemporaneamente qualitativo e quantitativo, tengono conto delle esperienze dei migranti sia nel paese di origine che di destinazione, e indagano le esperienze di uomini e donne tenendo conto sia del livello micro che di quello macro, con lo studio delle conseguenze su uomini e donne nelle politiche pubbliche sia dei paesi di accoglienza che di destinazione».
Le migrazioni internazionali femminili
La focalizzazione sulle donne, oltre che permettere di comprendere le dimensioni delle esperienze femminili, può svelare anche molti aspetti della vita e della cultura delle comunità immigrate, di cui le donne custodiscono i valori e le consuetudini più intime, radicate e meno visibili. È a partire dalla conoscenza delle situazioni femminili che si possono affrontare più adeguatamente molti conflitti della convivenza multiculturale. Per le donne immigrate le due dimensioni di differenza e discriminazione, donna e straniera, si sommano, ma non sempre ciò si traduce in un sommarsi di diritti e tutele, anzi in alcuni casi origina situazioni conflittuali che richiedono scelte e aumentano notevolmente le difficoltà e il disagio.
Dal punto di vista quantitativo c’è da precisare che il 25% di tutte le persone migranti internazionali si trova in Asia, il 23,3% in Nord America, il 18,7 % in Europa, il 16,8% nell’antica URSS, il 9,3 % in Africa, il 3,3% in America Latina ed il 3,4% in Oceania. La percezione comune continua ad essere che sono soprattutto gli uomini a intraprendere l’esperienza migratoria. In realtà, le stime globali analizzate per sesso confermano che dal 1960 la quantità di donne che migravano attraversando le frontiere era quasi uguale a quella degli uomini. In quell’anno la percentuale di donne migranti che vivevano fuori dal loro Paese era del 47%. Da quel momento la componente femminile delle migrazioni internazionali è aumentata lievemente fino ad arrivare al 48% negli anni 90’ e quasi il 49% negli anni 2000.
Apriamo una piccola parentesi per comprendere meglio quelli che sono stati i motivi ed i contenuti delle politiche migratorie successivamente alla crisi petrolifera del 1973. Ne discende un evidente e grave rallentamento dell’economia mondiale e di conseguenza viene imposto un deciso arresto ai flussi migratori che il mercato del lavoro non pare più in grado di assorbire. Da qui la chiusura delle frontiere, la costruzione della Fortezza Europa, gli incentivi al rimpatrio, come anche, però, il riconoscimento di un nuovo canale di accesso, che si supponeva sarebbe stato utilizzato in maniera minore, cioè l’ammissione tramite ricongiungimento familiare. Ma proprio attraverso questo canale, restii alla prospettiva di un rientro nei luoghi di origine definitivo e incontrovertibile, molti e più immigrati richiamano in Europa i loro familiari lontani. Così, attraverso reti personali, in maniera imprevedibilmente flessibile e in senso contrario alle suddette politiche di controllo, i flussi diretti in Europa si accrescono, anziché contrarsi; piuttosto che un flusso uniforme di lavoratori ospiti, si delinea in Europa e quindi anche in realtà sociali a piccola scala come la Sardegna, una popolazione straniera sempre più differenziata al suo interno, composta da donne, bambini e anziani; e, soprattutto, quelli che erano progetti migratori individuali e temporanei, si convertono in strategie di stabilizzazione familiare, rendendo permanente la presenza di minoranze straniere. Attraverso la mobilità sociale delle donne il sistema migratorio si evolve e progredisce: con loro si afferma il diritto all’unità familiare.
Relativamente all’emigrazione femminile marocchina in Italia si osserva che, dagli inizi del XXI° secolo ai nostri giorni, si è più che duplicata (Demo Istat, 2012), anche se in ogni caso non arriva a rappresentare la metà della popolazione marocchina residente (comprensiva quindi anche di quella maschile). Ci riferiamo al tasso di femminilità che si assesta su quote decisamente inferiori a quelle di altri gruppi di immigrate (43.2 %), mentre il tasso di presenze maschili continua ad essere in percentuale superiore. Le ragioni sono diverse, una delle quali risiede sicuramente nel fatto che gli immigrati di origine arabo-musulmana preferiscono accingersi ad intraprendere l’avventura migratoria al maschile, convinti da motivazioni culturali e religiose che sia l’uomo colui il quale debba mantenere economicamente la famiglia e alla donna sia riservato l’ambito privato della cura della casa e dell’educazione dei figli. Ne discende, come più volte ribadito in questo contesto, che l’unica via di entrata in Italia e quindi in Sardegna per queste donne è lo strumento del ricongiungimento familiare che assume valenze culturali importanti, in primo luogo quello di continuare ad impostare nella società di accoglienza un modello familiare molto simile a quello perpetuato in patria.
Non è assolutamente marginale che in questo discorso alcuni paradigmi stiano cambiando e che quindi anche la donna araba (in questo caso marocchina) stia incominciando a voler essere arbitro della propria vita indipendentemente dalle decisioni del padre famiglia, fratello o cugino, con degli obiettivi molto affini a quelli che spinsero i primi immigrati marocchini di sesso maschile. Se dovessimo fare una comparazione tra il gruppo di immigrate marocchine ed ucraine in Sardegna questa situazione apparirebbe subito chiara agli occhi del lettore. Da una parte, un flusso di migranti donne con l’obiettivo principale di seguire il proprio marito, parente o amico di famiglia con una esponenziale richiesta di visti per ricongiungimento familiare, con un tasso di femminilità che in Sardegna raggiunge appena il 40%, ed una percentuale maschile del 60 % (ricordiamo al lettore per dovere di cronaca che attualmente il tasso di femminilità nel mondo delle migrazioni internazionali ha superato ormai la metà in relazione a quello maschile), dedicandosi in maggior misura all’ambito privato della sua casa ed accettando nella maggior parte dei casi l’offerta di lavoro di collaboratrice domestica ad ore, facilmente compatibile con il ruolo a loro ascritto dalle tradizioni e dalla cultura di mogli e di madri, dall’altra donne completamente sole (si pensi che il tasso di mascolinità supera di poco il 12 %) emancipate ed abituate culturalmente a gestire problematiche di marginalità familiare, con figli a carico nel paese di origine e, che inseguono nella nuova società il sogno di tutta una vita: accumulare risorse sufficienti svolgendo le mansioni di colf o di badante con l’obiettivo di avviare un’attività imprenditoriale nel proprio paese.
Vista la giovane età media della popolazione straniera sembra emergere maggiormente nel dibattito sull’andamento demografico il contributo delle donne immigrate marocchine per il recupero della natalità in Italia. La pianificazione familiare che queste donne elaborano insieme ai loro uomini è destinata ad incidere in maniera rilevante sui nostri tassi di natalità. Dalle loro scelte di insediamento o di rientro in patria dipende la composizione sociale della nostra popolazione; dall’organizzazione dei ruoli familiari, l’educazione e la formazione delle prossime coorti di giovani. Resta da vedere, tuttavia, se questa azione di freno al calo demografico possa considerarsi duratura. Il crescente inserimento lavorativo, l’inevitabile allineamento alle abitudini e gli stili di vita del Paese di accoglienza, l’emancipazione dall’esclusivo ruolo di moglie/madre che alcune tradizioni culturali riservano loro sembrano attenuare l’ottimismo sul contributo demografico delle donne straniere nel futuro, anche sulla scorta di quanto è possibile osservare in Paesi europei con una più lunga tradizione migratoria, come la Francia, la Svezia o l’Inghilterra, Paesi in cui il tasso di fecondità tra autoctone e straniere si è livellato fino ad uniformarsi..
È bene prendere in considerazione la possibilità che il ruolo della donna marocchina in emigrazione possa cambiare, nella direzione di una progressiva emancipazione e partecipazione attiva nel mercato del lavoro considerato di media-bassa qualificazione e non solamente in quelle nicchie lavorative considerate marginali e segreganti. È innegabile che la migrazione diviene spesso un punto di non ritorno che costringe a rimodellare il proprio ruolo, soprattutto individuale, visto che ci si trova privi del sostegno delle reti sociali e familiari a cui si era abituati in patria. E allora la donna migrante vive una singolare scissione: è spesso il soggetto più debole della famiglia, ma anche il motore della mediazione e, quindi dell’integrazione. Le donne possono dividersi tra lavoro e famiglia, attivare loro stesse i ricongiungimenti familiari (di per sé un fenomeno abbastanza embrionale in Sardegna) e, se non lavorano – come accade più spesso per quelle di origine arabe – si dedicano ai figli e sono un punto di riferimento imprescindibile per l’educazione e la crescita, un ruolo che le porta a entrare in contatto con le diverse istituzioni di riferimento (scolastiche, socio-sanitarie…etc) e a mediare con queste (Decimo, 2005).
Ci siamo anche noi: profili principali delle donne marocchine in Sardegna
La Sardegna con una popolazione che di poco supera un milione e mezzo di abitanti ed una estensione seconda solamente alla Sicilia, è diventata terra di emigrazione dagli inizi degli anni ’80, proprio con i primi arrivi di uomini marocchini soli in cerca di una occupazione migliore e con il classico sogno del ritorno in patria. Nel corso dei decenni la diversificazione dei flussi migratori verso la Sardegna ha fatto in modo che attualmente gli immigrati residenti provengano da più di 90 nazionalità, anche se si possono evidenziare quattro grandi comunità: marocchina, senegalese, cinese e rumena (quest’ultima non considerata extra-comunitaria dal momento dell’ingresso della Romania nell’Unione Europea), tutte con le loro specificità di insediamento, inserimento socio-occupazionale, di genere e distribuzione geografica. Non cadremo assolutamente in nessun errore di valutazione, affermando che la comunità marocchina sia da considerare quella che cronologicamente sia stata l’antesignana dei flussi migratori in Sardegna, andando crescendo nel tempo e consolidandosi come la più numerosa.
Prima di entrare nei particolari che ci permetteranno di apprendere appieno l’immigrazione femminile marocchina, è utile ricordare che la Sardegna è la regione italiana con il tasso percentuale più basso di immigrazione in Italia: 2.5% e 45.000 unità (Dossier Statistico, 2015). Non si tratta di una considerazione trascurabile, soprattutto se si tiene conto quale sia il vero impatto sul tessuto socio-economico e culturale della realtà sarda. Un’Isola che stenta ad essere uno spazio geopolitico di intensa attrazione dei flussi migratori euro-mediterranei e più in generale internazionali, ma che rappresenta per alcune comunità e, nello specifico quella marocchina, l’anello di congiunzione di quelle che definiamo catene migratorie transnazionali. La constatazione viene da un’attenta analisi sociodemografica sulla origine e destinazione che evidenzia la provenienza degli immigrati marocchini: quasi esclusivamente da determinate zone, prevalentemente urbane del Marocco centrale (Chaouia, Settat, Beni-Mellal, Khourigba, Casablanca, Rabat). Non è un caso che in queste località non solo si parli italiano in maniera abbastanza diffusa, ma che la Sardegna sia conosciuta in dettaglio molto di più che negli stessi Paesi dell’Unione Europea della quale è parte integrante. L’informazione veicolata attraverso i moderni sistemi di comunicazione di massa fa in modo che il potenziale migrante in Marocco conosca perfettamente quali siano le caratteristiche delle zone nelle quali si sono insediati i propri familiari. Un effetto chiamata che si alimenta dei racconti sulle storie o meno di successo, in termini di capacità acquisitiva e di opportunità lavorative.
La visibilità dei gruppi di immigrati residenti in Sardegna è direttamente proporzionale alle forme di insediamento urbano-rurale ed alle modalità di inserimento lavorativo, oltre che dalla più o meno forte tendenza all’inclusione sociale e alla partecipazione attiva nella società civile. Quest’ultimo aspetto non vuole e non deve in modo assoluto costituire una critica verso la comunità maghrebina, che – come vedremo – ha scelto una tipologia di insediamento realmente originale e duttile nelle sue manifestazioni, ma una diretta conseguenza della reale impossibilità alla mobilità ed aggregazione sociale. Certamente la cultura arabo-musulmana si fonda su una concezione della famiglia estremamente patriarcale, con una propensione alla definizione di ruoli ben definiti che vanno dalla conservazione della tradizione e dello spazio privato, ascritta in modo prevalente alla donna, alla gestione ed azione nello spazio pubblico, prerogativa dell’uomo capofamiglia. Ma come in tutti i processi sociali, anche nel mondo delle migrazioni la trasformazione e l’adattamento comportano anche una riconfigurazione dei suddetti ruoli. A questo proposito risulta adeguato considerare ed apportare alcuni chiarimenti riguardo alla concezione della famiglia nel mondo arabo-musulmano e quindi delle comunità marocchine, premettendo che ogni realtà e società cambia fisionomia a seconda di variabili più o meno influenti. Nell’incontro con le altre culture e concezioni di cui è portatrice la famiglia immigrata marocchina, di conseguenza «nelle società ad elevata modernizzazione», il confronto non è più fra modelli tradizionali e moderni di famiglia, ma tra famiglie che funzionano e famiglie che non funzionano, in generale, e particolarmente per quanto concerne il legame tra i sessi e tra le generazioni e la possibilità che tale legame sia o meno conduttore di identità personali e di funzioni sociali.
Arrivati a questo punto della nostra esposizione è doveroso prendere in considerazione cosa significhi per lo storico immigrato maschio marocchino mutare il proprio progetto migratorio nella direzione di una necessità e desiderio di richiamare in Sardegna la propria donna, che fino a quel momento aveva dovuto ridefinire i propri ruoli all’interno della famiglia in origine, rendendosi responsabile sia della gestione dello spazio privato (educazione dei figli e faccende di casa) che di quello pubblico (amministrazione delle rimesse). Intorno agli anni ’90 del secolo scorso incomincia un progressivo aumento dei permessi per ricongiungimento familiare (donne e figli al seguito del marito) della comunità marocchina residente in Sardegna, non nella prospettiva dell’unica possibilità di entrata nel territorio comunitario per via di una contrazione delle politiche di apertura all’immigrazione economica dei Paesi Europei della sponda Sud del Mediterraneo, ma decisamente una scelta dettata dalla sorprendente aspirazione alla nuclearizzazione e stabilità familiare, fenomeno che non può che essere interpretato come una ponderata valutazione di insediamento stabile in Sardegna dell’intera famiglia.
Ma oltre al supporto materiale, la componente femminile introduce elementi inerenti la stabilità e la cura della persona che, in una prospettiva migratoria fondata sulla precarietà e la mobilità, assumono un significato fortemente innovativo. Per molti uomini marocchini immigrati in Sardegna la vicenda migratoria si è lungamente svolta all’insegna della precarietà: spesso senza casa o alloggiati in abitazioni di emergenza, frequentemente impiegati in lavori temporanei, se non irregolari, questi hanno dato vita a forme di insediamento che si fondano sulla limitazione, ai limiti dell’annullamento, dei bisogni di cura e di riproduzione sociale, risolti, in caso di bisogno, facendo riferimento a quelle relazioni di compagnia e solidarietà maschile che hanno modo di instaurarsi in una immigrazione composta prevalentemente da uomini. Dunque, il bisogno di ricostruire una trama di relazioni forti, che costituisca un pieno supporto emotivo alla persona, rappresenta l’elemento di svolta che spinge gli immigrati marocchini a ricreare una vita familiare come necessaria condizione individuale. Donne nella fascia di età che va dai 25 ai 39 anni progressivamente si ricongiungono al capofamiglia, rinstaurando e consolidando nel Paese di destinazione quella famiglia che per lunghi anni pensavano si potesse riunire solo ed esclusivamente con il classico mito del ritorno in patria del capofamiglia.
Sono donne mediamente istruite e pronte ad accompagnare il marito nella geografia spaziale di insediamento nel territorio sardo. Famiglie perlopiù residenti in piccoli centri urbani dell’Isola, paesini sparsi in tutte le provincie sarde, a macchia di leopardo, dove la famiglia può ritrovare un’abitazione accessibile e quindi meno dispendiosa (a parte alcune eccezioni come la provincia di Olbia-Tempio dove le famiglie marocchine si insediano in centri urbani medio-piccoli: Arzachena ed Olbia, dove hanno molte più opportunità di lavoro, grazie alla vocazione turistica della costa orientale sarda e di Sassari), che da un lato può essere interpretata come una scelta del capofamiglia di tenere il più lontano possibile i membri femminili dalla contaminazione agli stili di vita occidentali dei centri urbani medio-grandi (richiama l’attenzione che nonostante la provincia di Cagliari sia il territorio con la più alta percentuale di immigrazione marocchina, la città di Cagliari veda nei suoi registri anagrafici una decina di famiglie) o molto più semplicemente funzionale all’attività lavorativa principale del capofamiglia (ambulantato) che lo porta a viaggiare frequentemente nei vari mercati dell’Isola. Sono donne invisibili e relegate alla propria abitazione e che, nella maggior parte dei casi, hanno una funzione di conservazione e ritradizionalizzazione, ma che allo stesso tempo incominciano a ricevere, in maniera straordinaria, segnali di emancipazione dalle proprie figlie: la nuova generazione portatrice di quella ennesima ridefinizione dei ruoli e che pongono un serio interrogativo su quello che può e potrà essere l’evoluzione della famiglia marocchina insediata stabilmente nella nostra Isola.
Sono donne a prima vista chiuse nelle loro manifestazioni relazionali con la società esterna, ma che incominciano ad essere parte attiva anche degli introiti economici del nucleo familiare, grazie al frequente impiego come collaboratrice domestica. Donne molto attente alla conservazione della tradizione e parallelamente veicolo di cambiamenti radicali nei loro rapporti di genere, pronte ad inseguire il percorso di affrancamento già intrapreso dalla donna occidentale (interessante a questo proposito il livellamento del tasso di natalità).Tradizione e modernità, vecchie e nuove generazioni, progresso ed agenti di sviluppo sociale sia per il proprio Paese di origine che per la società di accoglienza, le donne marocchine in Sardegna sono invisibili alla società che la circonda, nonostante un embrionale movimento nella direzione di apertura all’interno dello stesso gruppo etnico di appartenenza (tanto da rilevare nel corso della ricerca; riunioni; somministrazione di questionari strutturati – la poca o nulla conoscenza della presenza di famiglie marocchine nel medesimo piccolo centro urbano). Donne che riconoscono quanto sia cruciale l’informazione, la formazione e l’alfabetizzazione linguistica per un piena collocazione nella scala, seppur ripida, dell’inserimento occupazionale. Anche se in Sardegna la donna marocchina non è ancora protagonista di un progetto migratorio autonomo ed indipendente (come si verifica in altre regioni d’Italia e Paesi dell’Unione Europea), il ruolo svolto dalle nuove generazioni di figlie, maestre di modernità, passo dopo passo mette in evidenza (sulla base dei risultati dell’analisi qualitativa dei profili emergenti: realistiche ed inserite) che dal seno della famiglia si solleva una voce che le istituzioni hanno il dovere di sentire: in Sardegna ci siamo anche noi !
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
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Pietro Soddu, laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Cagliari nell’indirizzo Storico-Politico Internazionale e con Diploma de Estudios Avanzados nel Programma di Dottorato: Globalizzazione, Multiculturalismo, Politiche Sociali e Migrazioni presso l’Università di Granada, fin dall’inizio della sua esperienza di ricerca si è interessato allo studio dei movimenti migratori internazionali. Ex- ricercatore della Lega Araba e del Ministero degli Affari Esteri spagnolo nella Fondazione Euro Araba di Alti Studi (Granada), attualmente è ricercatore dell’Instituto de Migraciones dell’Università di Granada. Ha partecipato come collaboratore scientifico in diversi progetti europei ed è autore di libri e contributi su riviste scientifiche specializzate sui temi delle Migrazioni e dei processi di inclusione sociale dei cittadini di confessione islamica nella società europea.
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