di Luigi Tumbarello
Dopo le carneficine di Parigi del 13 novembre è stato detto tutto sullo jihadismo, sul califfato, sull’Isis, sulla guerra di religione e sullo scontro di civiltà. Mai come in questo momento si vuole dare l’impressione che non solo la Francia, ma l’intero Occidente sia sotto attacco del radicalismo islamico, con la conseguenza che le azioni diplomatiche dei Paesi occidentali tendono apparentemente a convergere su un solo obiettivo comune: distruggere lo stato islamico di Iraq e Levante prima che questo destabilizzi l’intera regione e quelle confinanti, moltiplicando, nella Umma sunnita, adesioni e simpatie all’utopia del Califfato.
Le debolezze delle diplomazie occidentali e quelle europee, in particolare, stanno nelle contraddizioni e nella incapacità di progettare un percorso e una prospettiva politica nelle aree interessate al di là di schizofrenici interventi armati. Con la stessa frenesìa e fissazione, si dà vita a coalizioni internazionali, senza un mandato delle Nazioni Unite, in una strana alleanza l’un contro l’altra armata sul piano diplomatico e con prospettive strategiche differenti, se non divergenti.
In queste condizioni, non sembra che le precedenti fallimentari esperienze in Libia, il cui unico risultato è stato quello di destabilizzare il Paese, abbiano sortito effetti ragionevoli né insegnamenti, in considerazione, anche, del fatto che la situazione in quell’intersezione territoriale tra Iraq e Siria è notevolmente più complicata sia per l’intreccio etnico-politico che la caratterizza sia per i diversi interessi che i Paesi arabi circostanti hanno in quell’area diventata terra di nessuno e di scontro totale. Non sembra che vi sia da parte dei Paesi europei e degli USA, al di là della solidarietà dovuta alla Francia e alla debole comprensione per la Russia, anch’essa vittima del terrorismo jihadista, una voglia di impantanarsi in un nuovo Afganistan o in una nuova avventura irachena, almeno sul piano militare, ad eccezione della solita Francia, vittima della sua Grandeur, e del Regno Unito, pronti a ripetere il gran pasticcio di Tripoli.
Nessuna nazione vuol mettere gli anfibi dei propri soldati sul quel territorio contro un esercito irregolare, imprevedibile e non individuabile e soprattutto indifferente alla morte. Nessun soldato occidentale è preparato ad affrontare un avversario che fa della disintegrazione fisica del proprio corpo il mezzo eccelso per conquistare la felicità nel giardino di Allah. Nessuna forza speciale occidentale, per quanto bene addestrata, è disponibile al martirio. Qui sta la differenza e la forza dei martiri di Allah. Peraltro ancora non sono chiari, se si osserva quel che accade in quella che fu la Mesopotamia, gli assetti politici e gli schieramenti in campo. Si assiste a doppiezza di comportamenti di Paesi musulmani sunniti quali l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, che per ragioni di egemonia politica e religiosa, da una parte finanziano, armano e tollerano lo jihadismo nero nella sua lotta a Bashar al Assad, alleato a sua volta e sostenuto militarmente dall’Iran sciita considerato il vero nemico dei Paesi arabi; dall’altra partecipano logisticamente e militarmente alla coalizione internazionale contro al-Baghdadi e i suoi tagliatori di teste, consapevoli che l’obiettivo politico del Califfo sono le città sante di La Mecca e Medina, che sul piano religioso significa essere a capo del mondo musulmano.
Un groviglio di scontri etnici, politici e religiosi caratterizza un caos indecifrabile in un territorio dove tutti sono contro tutti, turcomanni sunniti contro jihadisti del califfato e contro sciiti, alawiti contro sunniti, curdi sunniti contro l’Isis sunnita e contro gli sciiti dell’esercito regolare. Il risultato è una decimazione etnica, mascherata da forme di radicalismo islamico coperto dalla secolare frattura religiosa tra il sunnismo e lo sciismo. È, per dirla in modo chiaro, una guerra politica e religiosa nello stesso tempo, che a volte si sopisce, ma che va avanti da secoli, senza che si intraveda una soluzione futura. In più, il Califfato estremizza la lotta attraverso una propaganda di connotazione religiosa, anticristiana e contraria ad ogni forma di civiltà precoranica. Film già visto in Afganistan con i Talebani.
La partita a scacchi che si sta giocando in malo modo sembra assumere una posizione di stallo, con le diplomazie arroccate, incapaci di individuare una strategia politica che non sia solo la sconfitta della follia del Califfato. I timori sono quelli di fare di quell’area geografica interessata terreno e focolaio di scontro infinito, sempre più radicale ed esasperato dalle conseguenze non controllabili. Il distacco di Obama e degli USA da quelle zone, in cui gli americani hanno provato a loro spese il costo di una guerra in termini economici e di uomini, dopo la sciagurata avventura in Iraq e dopo il fallimento della loro strategia di intervento indiretto attraverso aiuti e rifornimento di armi agli avversari del Califfato, non è altro che la conferma di quanto sia facile restare invischiati in una palude dalla quale sarebbe problematico e assai costoso uscirne.
Non si può non considerare, inoltre, che a fronte di azioni limitate e “chirurgiche” da parte delle ultratecnologiche forze armate della Coalizione anti Daesh si assiste, per ritorsione, ad una espansione del Franchising terroristico jihadista libero di agire con piena autonomia di tempi e di scelta degli obiettivi in regioni lontane dall’area governata da al Bagdadi.
Il califfato usato come un brand in Franchising è la strategia ideata con lucidità da Raqqa, che si avvale, peraltro, con notevole perizia, degli stessi strumenti di propaganda propri dell’Occidente, rivelatisi efficienti, per meglio penetrare nelle comunità musulmane delle grandi metropoli. È internet e le varie opportunità di cui essa dispone a sostituire o a integrare la moschea nel proselitismo e nelle cooptazioni. Basta una telecamera con la quale riprendere un giuramento di affiliazione, Bay’a [1], dichiarare la propria fedeltà al Califfo, immettere il filmato nella rete e attendere istruzioni o contatti.
La strage di San Bernardino di questi giorni conferma di come l’uso della rete sia potente e difficilmente contenibile. Basta poco per far sorgere in ogni regione, in qualsiasi latitudine, una provincia autonoma dello Stato islamico, ma affiliata e in contatto con Raqqa. In Nigeria, nello Yemen, in Egitto, in Libia, in Algeria, nel Bangladesh, nel Mali; dall’oceano Indiano al Sahel, dalla Mesopotamia al mondo intero. Altro che migranti! Il messaggio del Califfato, soprattutto sul piano dell’impatto mediatico, con i suoi video e le sue promesse in prospettiva di una utopia infarcita di messaggi coranici, si presenta assai efficace per le menti confuse e perturbate e per chi non riesce ad adattarsi ai valori occidentali o per chi è ammaliato dalle sirene della propaganda jihadista.
Le banlieues e le periferie delle grandi città europee sono quelle che maggior- mente recepiscono le sue lusinghe. Il suo brand attira e affascina, viene ritenuto l’antidoto alle loro frustrazioni, alla loro ghettizzazione, il richiamo al ritorno all’Islam delle origini e alla Sharì’a è l’unica speranza di un futuro che è negato dalla loro condizione di sentirsi emarginati, anche quando non lo sono. Non per niente gli assassini del Charlie Hebdo, gli attentatori della metropolitana di Londra, i carnefici del 13 novembre a Parigi erano cittadini europei e tutti provenienti dalle periferie.
Di fronte a questa realtà, in presenza di attacchi non convenzionali ai quali l’Occidente si trova inerme e impreparato, dinanzi alla strategia del terrore che ne devasta il modo di vivere, i Paesi occidentali continuano ancora una volta a reagire di pancia, mettendo in mostra le loro paure. Basta una mail per chiudere centinaia di scuole e mettere in ansia decine di migliaia di studenti come accaduto a Los Angeles. È quello che vuole l’Isis. Spesso divergenti o sfocate appaiono le soluzioni, ammesso che ve ne siano, per arginare il proselitismo di al Bagdadi e dei suoi seguaci, da parte dell’Occidente e degli stessi Paesi musulmani.
C’è chi propone una nuova strategia che riveda lo stato sociale delle periferie e una soluzione politica che impegni tutte le parti responsabili della regione mesopotamica ad accettare forme di democrazia attraverso cui ricostruire un nuovo tessuto sociale fondato sul rispetto dell’appartenenza etnica e religiosa, nonostante il radicalismo islamico e non solo esso definisca la democrazia “Una forma deviata dell’Islam”. C’è chi considera indispensabile chiudere i flussi finanziari senza i quali il califfato si indebolirebbe enormemente anche sul piano della propaganda. C’è chi ritiene fondamentale che sia soprattutto una coalizione militare di tutti i Paesi arabi minacciati dalla propaganda del Califfato ad intervenire militarmente nella regione, con la copertura logistica e politica che legittimi l’intervento delle Nazioni Unite.
Una soluzione problematica ma necessaria, quest’ultima, secondo autorevoli analisti. E sembra che finalmente qualcosa si stia muovendo da parte dei Paesi sunniti con alla testa la petromonarchia Saudita, pur con tutte le ambiguità che caratterizzano i Governi del Golfo. Scelte unilaterali di interventi militari, sebbene comprensibili, non risolverebbero il problema, e dinanzi al ripetersi di tragedie sanguinose come quelle del Bataclan sarebbe inevitabile la frantumazione dell’Occidente, dello stesso mondo islamico e ancor più della instabile coesione di una Europa che appare molto debole sul piano politico e ancor più vulnerabile su quello della sicurezza sociale.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Note
[1] Giuramento di affiliazione al califfato «Nel nome di Dio, clemente e misericordioso, giuriamo la nostra fedeltà all’Emiro dei Credenti e Califfo dei Musulmani, Ibrahim Ibn’Awad Ibn’ Ibrahim al Badri al-Quraishy al-Bagdati! A lui vanno il nostro ascolto e la nostra obbedienza, nella fortuna e nelle avversità, nei momenti di avversità e di difficoltà, e il rispetto verso i suoi ordini sull’imposizione della religione di Dio e della jihad contro i nemici di Dio. Non contestiamo i comandi della sua gente se non vediamo che sono chiaramente contro la fede e se non è Dio a darcene la prova. Dio è testimone di quanto dichiarato! Allah Akbar!» [Francesco Battistini, Il Terrore in Franchising. Che cos’è l’Isis. L’ascesa del Califfato e le strategie per combatterlo, Nuova edizione aggiornata, Corriere della Sera, Milano, 2015.]
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Luigi Tumbarello, laureato in Scienze biologiche, già docente presso istituti scolastici di secondo grado, è autore di diversi articoli su questioni di costume e di attualità sociopolitica, comparsi su quotidiani on line e periodici del territorio. Dirige e cura il blog “L’Arconormanno”, che ha fondato nel 2008.
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