di Laura Faranda [*]
Nelle sezioni dei manuali di storia dell’antropologia dedicate all’etnografia e all’etno-sociologia francese, dopo aver ricondotto l’avvio di questa corrente di studi alla scuola di ispirazione durkheimiana si è soliti omettere ogni accenno all’innesto “orientalistico” nord-africano, che darà vita implicitamente alla “sociologia maghrebina”. Come unico rappresentante di questa corrente ricorre la figura di Robert Montagne (1893-1954), che raggiunge il Marocco nel 1918 e la cui formazione eclettica lo induce a studiare l’arabo e il berbero. Con I berberi e il Makhzen, nel 1930 Montagne dà alle stampe una delle più rappresentative monografie etnografiche del Novecento, che farà di lui uno dei maggiori conoscitori della cultura tradizionale marocchina.
Per necessità di sintesi, ma anche in ragione dell’eco di uno scarso interesse riservato dalla convenzione manualistica ai pionieri di un’etnografia maghrebina, cadono nel silenzio altre voci, altri profili, altre opere spesso stigmatizzate come gli esiti approssimativi e inaffidabili dei pregiudizi ideologici di un’islamofobia funzionale alle strategie coloniali.
Credo tuttavia che non sarebbe inutile rigenerare alcune voci portanti di quella stagione. E in questa sede proverò solo a evocare due figure a mio avviso non secondarie: quella di un “orientalista” come Edmond Doutté (1867-1926) e quella di un arabista ed etnografo ante-litteram come Joseph Desparmet (1863-1942).
Senza alcuna pretesa esaustiva, mi limiterò a ripercorrere le due opere più rappresentative della loro produzione, tentando di segnalarne alcuni caratteri innovativi e astenendomi da ogni considerazione sulle implicazioni ideologiche che hanno autorizzato la loro delegittimazione, la loro inclusione tra i complici di un’etnografia a servizio del potere coloniale (Rachik 2005).
Inizio da Edmond Doutté e da Magie & Religion dans L’Afrique du Nord (1909), un’opera corposa edita ad Algeri nel 1909. Secondo quanto sottolinea lo stesso Doutté nelle pagine introduttive, il volume matura anzitutto come strumento di servizio della sua attività didattica all’École Supérieure des Lettres di Algeri; e se il quadro teorico di riferimento ci consente di recuperarne la vicinanza alle piste intuitive della scuola sociologica francese di Durkheim e Mauss, la mole di materiale etnografico raccolto, documentato e sottoposto al vaglio comparativo non è facile da sintetizzare.
Dopo l’esordio con un primo libro edito nel 1900, Les Marabouts, dedicato al maestro Auguste Moulieras (maestro a sua volta anche di Mauss), nel 1905 Doutté dà alle stampe Merrâkech, uno studio sulla società rurale marocchina affidato alla pratica di terreno nel sud del Marocco, nel quale il motivo religioso affiora già, sia pure tangenzialmente, nella sua evidente valenza sociale. A distanza di quattro anni, l’impianto teorico durkheimiano in Magie & Religion è esplicitato da Doutté fin dalle pagine introduttive, quando sottolinea in che misura l’elemento religioso pervada tutte le manifestazioni della vita sociale. Analogamente, l’approccio all’Islam maghrebino viene proposto da Doutté come l’esito di incessanti contaminazioni storiche, di scambi, di sincretismi e adattamenti che impongono una revisione radicale del binomio razza-cultura (Doutté 1909: 18-19).
Quanto al rapporto tra magia e religione, Doutté si mostra recettivo rispetto alle prospettive sociologiche del primo Durkheim; la magia va riconosciuta come esito di una coscienza collettiva che risponde a necessità di natura sociale, cosicché credenze e idee magiche possono assolvere a una funzione socialmente normativa, secondo quel meccanismo di “solidarietà meccanica” che vincola tra loro i singoli individui. L’elemento innovativo della sua proposta sembra risiedere soprattutto nel tentativo di individuare empiricamente le varianti islamiche del rapporto magia-religione, nonché nella vigilanza anche diacronica di pratiche e sistemi magico-terapeutici in uso nel Nord-Africa, nei quali Doutté riconosce sia la comune origine di potere magico e dispositivo terapeutico, sia le ampie confluenze di saperi mediterranei che rinviano alla tradizione misterica del Vicino Oriente o della Grecia classica.
La mole di materiale raccolto nel volume non è sintetizzabile: solo un rapido richiamo alle intitolazioni dei dodici capitoli ci darà la misura dell’ampiezza di dati e della lucidità organizzativa che sostiene la raccolta. Dopo un primo capitolo di carattere introduttivo su Maghi e indovini, che passa in rassegna le figure ufficiali deputate al controllo dei saperi magici (dal divinatore dell’Arabia antica al barbiere, al fabbro, allo straniero, fino ai gruppi sociali “aberranti” del Maghreb), il II capitolo, dedicato a Riti magici, esplicita la funzione di piante, aromi, sangue, nodi magici, introducendo l’elemento ascetico e il carattere di continuità della simbologia magica rispetto a quella religiosa. Nel III capitolo ci si sofferma sulle formule di incantesimo e sulla funzione magica dei nomi, della poesia orale, dell’iscrizione sacra, che nel IV capitolo prende le forme figurate dei talismani, dei tatuaggi, dei numeri, per confluire nelle varianti di magia simpatica connesse con i nomi di Dio e con i versetti coranici. Il V capitolo, dedicato all’impiego pratico dei saperi magici, alterna informazioni su pratiche terapeutiche ordinarie a procedure alchemiche, riti di magia lunare, formule di magia nera, tecniche connesse alla stregoneria. Nel VI capitolo, Magia, scienza e religione, le questioni teoriche annunciate nell’introduzione si riconnettono con il teismo islamico, il rapporto tra scienza e teismo, la genesi del monoteismo, l’islamizzazione dei saperi magici e il rapporto tra ortodossia e folklore.
Il VII e l’VIII capitolo si consacrano invece alle pratiche di divinazione induttiva e intuitiva, ovvero al rapporto tra magia e mantica, tra presente e passato. Si evidenziano le connessioni tra fisiognomica e chiromanzia, tra geomanzia e aritmomanzia; si tratta ampiamente la pratica dell’oneiromanzia, accentuando gli aspetti rituali di evocazione e interpretazione dei sogni, compresa l’incubatio nella divinazione profetica. Il IX capitolo tratta della trasmissione di saperi e oggetti sacri, dai culti di reliquie agli ex-voto, ai riti sacrificali. Al sacrificio viene dedicato l’intero cap. X, che prende in esame le forme di affratellamento per mezzo di patti di sangue, i sacrifici edilizi, le scarificazioni rituali, il capro espiatorio, le offerte animali e vegetali, le libagioni, il rapporto tra sacrificio e vittima, la funzione religiosa del sacrificio, la specificità del tributo musulmano nel rapporto tra sacrificio e redenzione. Gli ultimi due capitoli, l’XI e il XII, testimoniano infine lo sforzo interpretativo di Doutté in una direzione comparativa e in una prospettiva diacronica: le celebrazioni del carnevale maghrebino, nonché le feste e i riti stagionali, vengono ricondotti a una prospettiva storico-religiosa solo apparentemente piegata all’istanza evoluzionista frazeriana.
Pur riconoscendosi debitore dell’opera monumentale di Frazer Il ramo d’oro, che richiama a più riprese e di cui suggerisce una lettura integrale, l’attitudine riflessiva di Doutté sembrerebbe più orientata verso le zone di “confine” di Robertson Smith, ampiamente citato nel suo lavoro, con un’analoga attenzione alla dimensione sociale e collettiva dell’attività religiosa e rituale, un’analoga indifferenza alla ricerca di un “primum” dal quale scaturiscono le forme secondarie del pensiero religioso, un’analoga cautela comparativa rispetto alla letteratura etnografica e di viaggio e infine una sostenuta vocazione all’inveramento etnografico diretto. La bibliografia di riferimento è ricca e non europeocentrica.
In sintesi, una lettura integrale dell’opera non fa che confermarne a tutt’oggi la ricchezza documentaria e alcuni spunti teorici di indubbio valore innovativo. E tuttavia il disconoscimento di un impegno che meriterebbe di essere storicizzato e l’inclusione ideologica di Doutté nel novero di un’etnologia coloniale dominata dallo stereotipo concettuale di una generica cultura maghrebina percepita come relitto folklorico di “società arcaiche” hanno finito per inficiarne ogni sua utile rivisitazione e per legittimare una radicale destituzione del suo lavoro.
Dalle ambizioni teoriche di Edmond Doutté sembrerebbe distanziarsi il lavoro di Joseph Desparmet, infaticabile artigiano di una propensione che nasce dalla sua vocazione di arabista: più minuta, ma non per questo meno preziosa la fatica etnografica da cui si origina nel 1932 Le mal magique. Ethnographie traditionelle de la Mettidja, una sorta di pietra miliare del mondo magico nord-africano. Ed è significativo che il suo profilo scientifico e i suoi lavori, emancipati dall’ostracismo post-coloniale, siano stati riconosciuti in anni recenti tra i contributi più solidi di un modello etnografico nell’Algeria coloniale (Cfr. Lyons 2003; Colonna 2008).
Nato a Béguey nel 1863, laureatosi giovanissimo all’Università di Lyon, dopo sette anni di insegnamento al College di Cluny Desparmet approda in Algeria all’età di 28 anni, per ricoprire la cattedra di letteratura francese e di latino al Collége di Tlemcen. Si cimenterà da subito nello studio della lingua araba, diplomandosi ad Algeri nel giugno del 1900. Dopo un soggiorno triennale tanto intenso quanto fruttuoso a Blida, nel 1905 ottiene un incarico di insegnamento di lingua araba, al Grand Lycée di Algeri fino al 1921, quindi al Lycée di Mustapha fino al 1928. Negli stessi anni ricoprirà per supplenza l’insegnamento di lingua araba presso l’Università di Algeri.
L’interesse costante per la dialettologia e per la pedagogia della lingua araba lo avvicinano inevitabilmente alla poesia popolare, ai repertori narrativi, al folklore. Come è stato sottolineato (Peres 1943), gli anni di Blida saranno fondamentali ai fini della sua formazione etnografica: le raccolte prodotte tra il 1902 e il 1905 nel corso del suo soggiorno a Blida e poi in anni successivi, nei ripetuti sopralluoghi sia nella città che nelle zone rurali, daranno luogo a diverse pubblicazioni scientifiche e ad alcune monografie significative: i Contes populaires sur les Ogres, pubblicati in due volumi tra il 1909 e il 1910; Coutumes, insitutions et croyances des indigènes de l’Algerie, edito in due volumi nel 1913 in edizione araba e tradotto in francese nel 1939; e infine Le mal magique. Ethnographie traditionnelle de la Mettidja.
Dell’approccio di Desparmet alla materia etnografica si è detto che fu sostenuto dall’impulso antiquario del dialettologo, più che da una visione antropologica aggiornata; e che benché egli abbia esplicitato il proprio debito teorico verso la nozione di rappresentazione collettiva inaugurata da Durkheim, in realtà non fu mai svincolato dalla tendenza di matrice evoluzionista a disporre le società indigene lungo la linea temporale che va dal primitivo al civilizzato attraverso il barbarico (Cfr. Lyons 2003: 582). Senza addentrarci in una revisione analitica dei suoi debiti teorici che ci porterebbe lontano, certo è che la teoria frazeriana della magia, nonché la tripartizione dell’azione magica (imitativa, omeopatica e contagiosa) non convince per nulla Desparmet, che in una pagina tanto lucida quanto efficace ne inficia l’attendibilità nel contesto indigeno maghrebino (Desparmet 1932: 160).
Preoccupato di descrivere e preservare i costumi nativi prima che vadano perduti, enfatizzando l’elemento passato del folklore locale, anche Desparmet finisce spesso per alternare la tensione particolarista con la tendenza a delineare una tipologia generale dell’Algeria, se non dell’intero Nord-Africa come terreno rappresentativo di una cultura unitaria, insistendo sull’ipotesi che i fenomeni folklorici, per ciò che concerne eventi come nascite, matrimoni e morte possano essere ricondotti a medesime forme e contenuti, da un confine all’altro del territorio maghrebino. Ciò non toglie che l’enfasi etnografica di questa sua stagione, combinata con la sua vocazione pedagogica, abbiano rappresentato un ineludibile contributo innovativo, concorrendo alla nascita di una scuola di etnologia propriamente algerina, prevalentemente kabila, rappresentata da algerini “naturalizzati” in un contesto formativo francese, incoraggiati a concentrarsi sulle valenze didattiche della divulgazione etnografica; una sorta di palestra formativa che consentirà in epoca post-coloniale la rigenerazione critica e autoctona di una società alienata dalle proprie radici. Con un minimo di temerarietà, si potrebbe immaginare che è stato anche in virtù di pionieri dell’etnografia come Desparmet – anche grazie alla sua passione documentaria e alle sue intuizioni sugli esiti dirompenti di un nuovo approccio con l’universo narrabile, con i repertori narrativi e con i loro narratori – che l’Algeria kabila ha potuto rappresentare il modello etnografico ideale per le prime riflessioni sociologiche di Pierre Bourdieu o di Abdelmalek Sayad. Si pensi soprattutto alle intuizioni del primo Bourdieu sulla relazione tra informatore e ricercatore in contesti etnografici algerini e all’importanza attribuita alla letteratura di tradizione orale, ad aneddoti, proverbi, sistemi narrativi, che risulterà determinante nella configurazione concettuale della sua nozione di habitus (Bourdieu 1956; Bourdieu, Sayad 1964).
In questa prospettiva non va sottovalutata la grande attenzione di Desparmet per la qualità della relazione con gli informatori, l’intuito e la vigilanza sulla funzione determinante dell’interprete nel lavoro di trascrizione e la consolidata predilezione per le narratrici donne, che ritiene depositarie privilegiate di saperi gelosamente custoditi. Così, nell’introduzione ai Contes populaires sur les Ogres, dopo aver chiarito che, data la ritrosia delle anziane narratrici, per procedere alla raccolta dei racconti ha dovuto avvalersi prima della complicità di un’anziana israelita e poi della mediazione di un Taleb (interprete ufficiale della cifra magica del Corano), Desparmet si attarda sull’eleganza espositiva e la ricchezza mnemonica delle informatrici musulmane, quasi tutte di Blida; e precisa di aver dovuto faticare non poco con il “dotto Taleb” per ottenere in arabo una trascrizione letterale dei racconti raccolti, di cui egli stesso avrebbe poi curato la traduzione. È una pagina che richiamiamo, perché dà la misura della determinazione metodologica del suo autore, del suo sguardo ravvicinato a un contesto etnografico e al respiro culturale che lo permeava.
«Un caso fortunato mi ha permesso infine di aggirare le difficoltà. […] Riuscii così a trovare una donna ebrea che fin dall’infanzia aveva udito raccontare i racconti che cercavo: senza difficoltà essa richiamò per me i suoi ricordi e mi fornì un’ampia messe di notizie. In un primo momento pensai di pubblicare queste notizie così come le avevo avute, ma presto mi resi conto che esse avrebbero perso gran parte della loro autenticità, e quindi del loro interesse, se fossero state presentate in quella forma abbreviata e per così dire indiretta.
In realtà il pieno valore di queste tradizioni poteva essere dato solo dalla trascrizione di quei racconti dalle labbra di narratrici musulmane.
Nel 1907 ebbi la buona sorte di conoscere un taleb, un dotto musulmano, […] che si lasciò convincere a chiedere alle sue parenti e alle loro amiche le favole che gli indicavo e altre ancora. In un primo tempo si sentì in dovere di trascriverle in bello stile, cioè in arabo classico [...]. Riuscii presto a distoglierlo dalla abitudine di questi esercizi faticosi e impacciati. E quindi a poco a poco abbandonò le sue pretese letterarie, che nel caso specifico erano così fuori luogo. Alla fine, salvo qualche insignificante frase fatta di cui non volle in alcun modo liberarsi, egli finì per fornirmi dei testi che per la forma così come per il contenuto coincidono con la trascrizione letterale dei racconti resi oralmente dai narratori e dalle narratrici, di cui il lettore vedrà citati i nomi alla fine di ogni favola» (Desparmet, 1909: III).
L’attenzione di Desparmet al contesto femminile diventa imprescindibile per la raccolta dei dati etnografici presenti ne Le mal magique. Anche in questo caso, nell’introdurre il lavoro egli non manca di rimarcare l’attendibilità di un sapere trasmesso in linea femminile. Nel suo intento di recuperare all’attualità di un empirismo popolare i saperi della medicina islamica, precisa che tali saperi – sopravvivenze di una medicina rurale che resiste alla decadenza della medicina islamica di ispirazione galenica e si affida alla trasmissione orale dei maestri di scuola coranica e delle donne anziane – sono ancora ai suoi tempi appannaggio preminente, se non esclusivo delle donne. È per questo che la sua attenzione etnografica sarà rivolta prevalentemente alle donne, il cui regime di clausura sociale e culturale, proprio della vita nell’harem, avrebbe favorito a suo dire la versatilità ai “misteri della vita psichica” e la qualità di una memoria allenata.
Nella descrizione che ne propone Desparmet, queste donne sono dotate di forme di conoscenza e di energie che non fanno parte della vita ordinaria, e al tempo stesso sottomettono l’intuizione alla guida della tradizione, a un sistema di superstizioni tanto irriso quanto temuto dagli uomini, entro il quale si colloca la magia terapeutica, che esse apprendono immagazzinando riti, leggende eziologiche, pratiche preventive o curative al cui confronto il bagaglio formativo dei medici occidentali appare leggero. Alla capacità di generalizzazione esse frappongono l’acutezza della percezione e la fedeltà alla memoria orale: a conferma delle loro ipotesi richiamano numerosi eventi, ma non formulano mai teorie astratte.
Accanto alle donne, i Taleb, che soprattutto nelle aree extraurbane rivestono al tempo stesso il ruolo di interpreti di saperi ermetici e mediatori di un sapere collettivo di cui controllano anche la trasmissione scritta e che ritengono di aver ereditato dalla medicina ortodossa del Maghreb nella quale coesistono verità iatrica e rivelazione sacra. L’approccio nosologico è imprescindibile dalla constatazione empirica di eventi che appartengono al mondo sensibile, immateriale, il mondo occulto degli spiriti (Ivi: 11-13).
È indicativo che il I capitolo de Le mal magique evochi una citazione memorabile del filosofo e teologo Abu Hamid al-Ghazali (1058-1111) :
«Da dove ci vengono la malattia e la guarigione?», chiese a Dio il Profeta Mosè.
«Da me», gli rispose Allâh .
«Cosa fanno dunque i medici?»
«Guadagnano il loro pane e alimentano la speranza nel cuore del malato, finché io non rapisco la sua vita o gli restituisco la salute».
Citazione che consente a sua volta a Desparmet l’avvio di un’articolata riflessione sul rapporto tra malattia e teologia musulmana. Ripercorrendo la lettera coranica e le notazioni dei suoi commentatori, la malattia si configura per il credente come un percorso salvifico che lo riscatta dal peccato. Dalla malattia si traggono vantaggi mistici inestimabili: i gemiti di un malato sono emessi a “Gloria di Dio”, le sue preghiere hanno lo stesso effetto che quelle degli angeli; quando Allāh ama un uomo lo affligge nel corpo; la malattia diventa quindi un segno di distinzione che testimonia la predilezione divina (Ivi: 26-29).
L’interesse documentario di Le mal magique appare evidente già scorrendone l’indice: la malattia in rapporto alla teologia musulmana; la malattia e il mondo fisico; il senso del male e la magia evocativa; la magia individuale (preghiere, auspici, maledizioni, presagi, gesti); i genȋ (djinn) portatori di malattie; le pratiche terapeutiche contro le malattie indotte dai djinn; la potenza destabilizzante degli “invisibili” (celui qui est sur l’épaule); i luoghi dedicati al culto delle acque e delle pietre; i luoghi di culto dedicati ai Marabout; il genio inseparabile (le qarine) e infine le mal de ses frères, ovvero quei disordini e quelle affezioni che vanno attribuite al “doppio” invisibile, una sorta di djinn gemellato, insediatosi nell’organismo di un uomo o di una donna, che va allontanato attraverso pratiche esorcistiche.
Il rapporto tra salute e malattia e la stretta connessione che Desparmet stabilisce tra mondo magico e disagio mentale appaiono a tutt’oggi attuali per una riflessione interdisciplinare tra antropologia ed etnopsichiatria: basti pensare a tutte le occorrenze etnografiche nelle quali, stando alle annotazioni di Le mal magique, il mondo degli “invisibili” interferisce ora con i turbamenti adolescenziali del gineceo, ora con le crisi epilettiche, ora con i richiami onirici di quelli che Desparmet, evocando Freud, non esita a definire “deliri libidinosi” di segno femminile (Ivi: 231-232). Tutt’altro che ovvia va considerata la sua familiarità con la letteratura freudiana, ancora disattesa in sede psichiatrica e pressocché ignorata dalla letteratura socio-antropologica dei suoi tempi.
Del mondo femminile Desparmet intuisce sia la potenza che la fragilità sociale e le donne sono infine le vere protagoniste della sua etnografia. Pellegrine sofferenti, guaritrici sapienti, promesse spose insidiate dai djinn, amanti riluttanti, giovani afflitte dalla sterilità, madri premurose, veggenti temute e ricercate; e ancora figure mitiche che vigilano sul gineceo, signore delle acque o delle pietre, sante e numi tutelari della fertilità le donne affollano e sostanziano il panorama etnografico da lui delineato.
A titolo di esempio, riportiamo un breve richiamo di Le mal magique alla condizione di soggezione erotica nella quale si autoconfina una donna posseduta:
«Una volta allontanato l’uomo, la donna posseduta da “colui” che è sulla sua spalla si abbandona ai djinn. Con la complicità di qualche confidente, ella ridipinge la sua stanza più bella, vi crea una fresca penombra e satura l’aria di profumi o l’oscurità di fumi e aromi: i buoni odori richiamano gli Spiriti. Ella compie esattamente tutti i riti del matrimonio, a partire dalle cure intime che le dispensa la massaggiatrice nella saletta dell’hammam riservata ai fidanzati, fino alla posa di stelle d’oro sulle guance truccate e al languore dei suoi occhi amorosi per effetto della sfumatura del trucco, che ne esalta la morbidezza. Indossa l’abito nuziale, che non è necessariamente all’ultima moda, ma la cui stoffa, la forma, il colore le sono stati rivelati in sogno o da una iscrizione o da una ispirazione […]. Una volta indossato il suo abito d’amore, la donna si sente obbligata a cambiare linguaggio, al punto da contraffare il tono della voce, […] applicandosi a usare solo questo gergo dei djinn […] tutto intriso di onomatopee, di diminutivi, di deformazioni puerili di cui le donne moresche si servono volentieri nell’intimità della loro vita di madri […]. Infine, ricoperta di tutti i suoi gioielli, ella si siede al posto d’onore, al centro della sala, pregando che si rispetti la sua solitudine. Si è visto che alcune di loro, che pure avevano l’abitudine fin dall’infanzia di accovacciarsi sulla stuoia, avevano comprato per la circostanza una poltrona europea in velluto, dello stesso colore dell’abito» (Ivi: 230-231).
Il passo di Desparmet si situa in un capitolo di grande interesse, dedicato a Celui qui est sur l’épaule, ovvero a quella potenza parassita che alberga nell’organismo umano come entità invisibile, e che affiora nell’adolescenza, per poi tiranneggiare soprattutto le donne nell’età adulta. E a proposito del corpo femminile, secondo quanto annota lo studioso, è l’utero a incarnare questa entità “mobile e vagante”, che percorre e domina la parte inferiore del corpo della donna, prefigurando quelle derive psichiche i cui sintomi vengono attribuiti ai capricci di celui che “ama solo le belle”. Un utero erratico e labirintico i cui paralleli etnologici sono stati ampiamente documentati in anni più recenti e altri contesti etnografici mediterranei, a cominciare dalla Sicilia (Guggino, 1986: 60-85).
Difficili da classificare, spesso mimetizzati in forme animali per punizione di Allāh, benefici o malefici i djinn pervadono la vita delle donne di Desparmet, che accordano loro un’influenza determinante in tutte le circostanze della vita, dalla nascita fino alla morte.
Ho avuto modo di inverare una simile persistenza in un sopralluogo di ricerca condotto nel settembre di quest’anno in Tunisia, finalizzato alla documentazione di alcune forme rituali del culto riservato a una santa islamica, Aïsha Al-Mannûbiyya. A lei si rivolgono soprattutto quelle donne appartenenti a fasce sociali deprivate che considerano i djinn come i principali, se non gli unici responsabili della sterilità femminile. Ho anche potuto constatare, nel corso dello stesso soggiorno, l’importanza rituale delle cure intime riservate nell’hammam alle future spose, la cura nei confronti di un corpo che si prepara all’incontro con lo sposo, la selezione mai casuale dei colori, lo sfarzo degli abiti, le consonanze cromatiche tra l’abito e la sedia di rappresentanza in cui le spose tunisine ancora oggi siedono solitarie, durante la cerimonia dell’outiya (la festa del “grande hennè”, il momento più significativo dei rituali di matrimonio), esibendo al tempo stesso la loro vulnerabilità e la loro visibilità sociale.
È anche in ragione di simili corrispondenze che mi sono sentita autorizzata, di ritorno dal mio viaggio, a tornare con umiltà ai repertori etnografici dei volumi di Doutté e di Desparmet; e a suggerirne anche in questa sede una rilettura depurata dai pregiudizi maturati nelle severe stanze di un’etnologia riformata o riverginata. Si tratta di due studiosi certamente radicati nello spirito del proprio tempo, ma anche sorprendentemente sensibili al registro plurale e alle stratigrafie simboliche di un sistema religioso fedele al dettato coranico e non di meno pervaso di sincretismi compositi, esiti storici di contatti con altre culture. Si tratta, in ultima istanza, di due interpreti infaticabili della portata etnografica di un sapere intriso e nutrito di “dialoghi mediterranei”.