Dio Patria e Famiglia hanno avuto straordinaria fortuna: straordinaria poiché sono tre entità terribilmente gerarchiche, ciascuna delle quali esercita il suo dominio sui suoi sottoposti e lo esercita in modo così totale da trascendere ogni forma di diritto, intendendosi per diritto il punto di riferimento normativo e ideale al quale il soggetto si richiama quando viene messa in pericolo la sua esistenza fisica o morale, e dal quale il soggetto può trarre la legittimazione per invocare la propria difesa.
Che Dio non ammetta né vincoli né censure né giudizi sul suo potere, talché non è concepibile alcuna forma di limitazione all’esercizio del suo dominio, è concetto pacifico e del tutto condiviso da ogni credente: solo Giobbe osa ribellarsi e solo una parte della riflessione ebraica contesta dal basso l’operato di Dio, ma verso il quale è solo possibile la supplica, non esistendo diritto alcuno al quale appellarsi, salvo ricordare, nella Genesi, Giacobbe che lotta con l’Onnipotente, sconfiggendolo (Gen, 32,23: 32. Cfr H. Bloom, Posseduto dalla memoria, Rizzoli, Milano 2020).
D’altronde il principio di insindacabilità della condotta divina è strettamente funzionale al principio di potere autoreferenziale di ogni forma di dominio, a cui non è estranea la dottrina cattolica, inossidabile struttura ideologica che, pur richiamandosi alle radici vetero testamentarie, ha sempre abilmente glissato sul libro di Giobbe. E vedremo più avanti come il primo soggetto della trinità saldi il suo perno valoriale con quello degli altri due soggetti, evidenziando soprattutto il fattore debolezza/salvezza, cioè il binomio intorno al quale il pensiero gira su sé stesso quando nelle traversie drammatiche o tragiche dell’avventura umana non riesce a intravvedere altra luce in cui credere o a cui aggrapparsi.
La Patria è molto simile a Dio come figura ideale e astratta, essendo la raffigurazione concettuale di un’entità mitica gravante non su un territorio, mero strumento identitario e variabile materialmente nel tempo. Si pensi a quanto accade nell’attuale guerra europea: un Paese ne invade un altro, deporta la popolazione avversaria che non è fuggita (ad oggi si parla di 11 milioni di profughi), si inventa un referendum sulla popolazione rimasta in un territorio attraversato dai combattimenti, e decide così di celebrare l’annessione di quegli spazi al proprio territorio statuale e, proclamando quel nuovo territorio parte del suo, afferma che va difeso a ogni costo, guerra nucleare compresa, trattandosi della sacra difesa della Patria.
La Patria dunque, nella sua accezione mitica, grava sul corpo e sul pensiero degli esseri viventi che le appartengono in base alla sua pretesa di legittimità originaria. Infatti la Patria non riceve dai suoi appartenenti alcuna ragion d’essere, ma sono i suoi sudditi a ricevere da lei la ragion d’essere della loro esistenza.
L’aspetto mitico della Patria, cioè la sua radice mitica, affonda in tempi e luoghi non soggetti a dimostrazione o prova, ma trova in essi la sua ragione aprioristica. E parlando di radici, assimilando la Patria a un corpus vivente, deve chiarirsi come sia menzognero l’assunto secondo il quale la Patria è composta da esseri viventi, i cittadini, e da materia inerte, il territorio che le forniscono il flatus vivificante, proprio perché – come un soggetto vegetale ricava attraverso la radice le sostanze necessarie al suo nutrimento, quindi da altro da sé, cioè le componenti chimiche presenti nell’humus senza le quali l’albero morirebbe, e le foglie incamerano negli stomi le molecole gassose che con la luce solare trasformano in zuccheri – quell’altro da sé è, per il concetto di Patria, una figura mitica via via elaborata da chi trae dall’idea di Patria la propria legittimità esistenziale. Si pensi al leggendario fratricidio di Romolo su Remo, dal quale venne eretto il principio dell’inviolabilità del solco che delimitò la prima Patria dei Romani; si pensi alla volontà di Dio che impose al popolo ebraico la conquista della terra di Canaan con lo sterminio di tutti i suoi abitanti; si pensi infine alla divinizzazione dell’imperatore da cui discese la divinizzazione della patria giapponese e del suo popolo, o alle leggi naturali della storia che legittimarono il potere assoluto del partito comunista sovietico, e al significato istituzionale di ogni forma di damnatio memoriae dei predecessori spodestati o degli avversari annientati, dall’antica Roma al Rinascimento italiano, all’URSS, che significa alterare un dato di fatto concreto, di cui è strutturalmente composto il presunto tessuto patriottico.
Premesso quindi che la causa ontologica della Patria sta al di fuori di essa, ne consegue che le narrazioni sulla sua nascita affondano in epoche e luoghi mitici, cioè inattuali, sostanzialmente magici, attraenti come ogni credenza rassicurante: un’età dell’oro a cui i fautori della Patria si richiamano per saldare i legami degli individui ad essa soggetti. E questa operazione trasforma l’astrazione in concretezza, edificando la struttura giuridica della Patria destinata a imporsi sui corpi dei sudditi all’interno di uno spazio materiale.
Ma poiché questa prima operazione, per quanto cogente e finalizzata a trasformare l’adesione dei sudditi da una mitica manifestazione di volontà (Hobbes docet) a un’adesione coatta, rischia di non sopravvivere alla sua brutalità, indispensabile quando i sudditi ne percepiscono su di sé la gratuità e l’infondatezza, i fruitori della Patria ricorrono a un secondo strumento, un grimaldello cognitivo capace di penetrare nel profondo della psiche, tale da trasformare i sudditi in fedeli esecutori della volontà patriottica.
Allora una forza politica capace di saldare l’idea di Dio con l’idea di Patria diventa inattaccabile da analisi alternative, purché sappia attivare emozioni fisico-psicologiche tali da edificare nella mente dei sudditi un legame identitario idoneo a rassicurarli e difenderli dalle paure esterne.
Il concetto di “terra e sangue” posto a fondamento dell’ideologia nazionalsocialista, capace di scardinare e demolire ogni argomentazione morale, si salda con il legame ideologico con Dio, di cui si vede l’aspetto propagandistico vincolante nel “Gott mit uns” scolpito nella fibbia dei cinturoni dei soldati del terzo Reich. Tutto ciò costituì un formidabile cemento intellettivo, e analogamente lo è tutt’ora, sol che si ponga attenzione alla resistenza contro l’introduzione dello ius soli in sostituzione dello ius sanguinis, e a come questo discrimine agisca potentemente per alimentare la paura e il disprezzo verso i migranti che fuggono da terre spaventosamente inospitali per ragioni climatiche, ambientali, economiche o politiche.
Tuttavia Dio e Patria non sono abbastanza forti per costituire un baluardo inespugnabile all’assalto dell’etica razionale. Il terzo soggetto della trinità in esame è la Famiglia, poiché la Famiglia trae la sua forza attrattiva dalle emozioni primarie mosse dagli istinti sessuali e da quelli genitoriali. Tuttavia, di per sé, il terzo polo della trinità, lasciato a sé stesso, mostra la propria fragilità quando subisce gli attacchi di altri istinti profondi, come quello di piacere, quello della libertà, quello di conservazione. Così giungono in soccorso gli altri due soggetti: Dio e Patria, trasformando un ente concreto, la Famiglia, intesa come nucleo di persone cementate dagli istinti primari della sessualità e della genitorialità, in un’entità astratta, che affonda le sue radici nel mito della legittimazione religiosa e istituzionale, così svilendo e snaturando il valore etico di ogni altra tipologia di famiglia di cui viene affermata l’indegnità naturale, etica e giuridica.
Non essendo questo il luogo per indagarne la storia, ampiamente analizzata e dibattuta in ben altri contesti, ci limitiamo a rilevare come l’ideale astratto della Famiglia sia il terreno mentale perfetto per farvi crescere il potere degli altri due soggetti trinitari, in una relazione di mutuo scambio vantaggioso per ognuno dei tre. Il che ha consentito, a chi li abbia impugnati, di agire sulla psiche, sui corpi, sui luoghi dove i sudditi svolgono la propria vita, monitorandone ogni aspetto e ogni momento, financo quelli vissuti sotto le lenzuola, e donando ai sudditi l’idea che tutto ciò costituisca un immane privilegio esistenziale, tale da giustificare, rendendoli impuniti, anche i più orrendi delitti (si pensi all’ideologia belluina dei suprematisti bianchi americani non alieni dal praticare il linciaggio), come quello di assistere compiaciuti alla morte per annegamento di decine di migliaia di esseri umani, bambini compresi, ai quali viene inibito il salvataggio, sanzionando anche col carcere i malcapitati soccorritori, in spregio alle leggi internazionali del mare. Ma soprattutto si evidenzi come questo imbarbarimento etico agisca così nel profondo della psiche, da ottenebrare la percezione di qualsiasi scala valoriale: la morte violenta viene vista come un mero accidente causato dalla progettualità improvvida delle vittime, e il soccorso viene svuotato del suo senso, per venire giudicato sulla base o della lesione dei confini della Patria, o come callido espediente per perseguire scopi personalistici di varia natura. La vita degli esseri umani cessa di costituire un valore assoluto posto alla radice delle leggi e delle convenzioni internazionali sul soccorso in mare, subordinata al presunto interesse nazionale attraverso false narrazioni, sostenute dai veicoli della disinformazione.
Non solo: l’inattaccabilità dei tre soggetti divini attiene anche al loro legame giuridico, dove la prima divinità, Dio, la più astratta e quindi la più agevole da difendere contro ogni ingerenza etico razionale, prevale sulla seconda, la Patria, quando alcuni eventi ad essa riconducibili possano mettere a rischio, col dubbio, l’insindacabilità della prima; e come la seconda prevalga sulla terza, la Famiglia, cioè l’entità più fragile perché meno astratta delle prime due.
E si noti come questo rapporto gerarchico fra i tre soggetti della trinità in esame, impedisca qualsiasi confronto in termini di rispetto delle esigenze di ogni subordinato al potere del subordinante: non esiste, cioè, per chi gestisce questa relazione trinaria il principio del rispetto, cioè della distanza razionale indispensabile all’esercizio del bilanciamento dei valori. Dio prevale sempre sulla Patria. E se questa prevalenza incontra delle stonature, si può sempre addomesticare la volontà di Dio con opportune modifiche teologiche. La Patria, poi, prevale sempre sulla Famiglia, e la Famiglia trae la propria legittimazione da Dio e dalla Patria.
Tutto ciò ha fatto la fortuna di questa Trinità valoriale, la cui natura ne esclude la sottoposizione ai criteri logico razionali che presiedono all’azione del giudice delle leggi, viceversa incardinata sul principio del bilanciamento dei valori in gioco, così come accade per l’altra Trinità che si oppone a quella su esposta: ci riferiamo alla Libertà, alla Fraternità e all’Uguaglianza.
La Trinità sconfitta è la sconfitta dell’etica illuministica basata sul binomio morale/razionalità. Come chiunque sa e come facilmente si desume già dalla lettura di un autore settecentesco come Voltaire, nel Candide, la scalata delle menti usando i chiodi dell’intelligenza fu un grande insuccesso, e chi trionfò, al momento, lo fece contrabbandando la sua vittoria coi panni della razionalità, ma seducendo le masse con l’odore del sangue sgorgato sulle ghigliottine.
Il fine ultimo della felicità terrena, raggiungibile attraverso l’ideale della giustizia, venne perseguito trasformandola in ideologia, talché la trinità illuministica perse la sua ragion d’essere diventando un traguardo terreno fondato su premesse analoghe a quelle della trinità vincente: anche la Libertà, la Fraternità e l’Uguaglianza misero radici nel mito, con l’unica differenza che questa mitologia non stava nel passato ma nel futuro. L’esito fu una vittoria effimera, ma nel suo periodo di supremazia non meno feroce di quella avversa, con un elemento distintivo essenziale, tuttavia, che il suo dato identificativo, la sua cifra per intenderci, era di tipo razionale, dandosi questa razionalità come lo strumento di indagine della realtà, a cui non veniva riconosciuta né immanenza né eternità.
Il paradosso, e la ragione della sua sconfitta, fu che per vincere la sua battaglia creò le condizioni per cui perse la guerra: tanto quanto Dio, Patria e Famiglia erano e sono in grado di attrarre gli istinti primari asservendo a chi li usa come armi di seduzione di massa e di dominio i destinatari di un messaggio salvifico, così la Libertà, la Fraternità e l’Uguaglianza, creando un varco nel cuore dei loro adepti, e così trasformandoli in fedeli servitori dell’ideologia, e soprattutto in fanatici scherani, non ne attivarono la parte razionale necessaria a saper distinguere tra etica della coscienza e morale, per usare la distinzione arendtiana (cfr. Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi 2006 ).
L’esito della battaglia vinta fu la guerra perduta, tanto che anche l’ideale di un capitalismo riformato, per tacere del comunismo dal volto umano, cedettero il campo al dilagare dello strapotere sovietico o delle forze irrazionali del neoliberismo, anch’esso piegato dalla credenza in una nuova divinità: il sacro mercato.
Detto questo, ed esaminando con più attenzione ciascun soggetto che compone la seconda trinità, si può notare come gli alfieri di questa divinità trina non abbiano affatto costruito una relazione in scala gerarchica fra le tre entità, ma, a seconda del progetto, invece di privilegiarne una subordinandovi le altre, scelta una abbiano semplicemente trascurato la valenza delle altre o sminuita fin quasi a zero la portata.
In verità, a un’analisi più attenta, si nota come la trinità illuministica si sia presto ridotta al binomio inconciliabile: o l’Uguaglianza cancellava la Libertà, o la Libertà cancellava l’Uguaglianza (Capitalismo vs. Socialismo). Ora, non essendo questo il luogo per una tale disamina, ben più esaustiva altrove, riteniamo utile evidenziare, viceversa, come ciascun mito sia stato in grado di colonizzare lo spazio della mente attraverso l’emozione irrazionale dei sentimenti.
Della Fraternità poi, già a partire da Napoleone che la sostituì con la Proprietà, sembra non importare a nessuno. D’altronde l’esternalizzazione delle frontiere UE lo dimostra, e lo dimostra ancor più l’indifferenza con cui le nostre popolazioni assistono alla strage dei migranti che affogano nel Mediterraneo, o il compiacimento per i baluardi loro opposti, o le complicità coi regimi assassini a cui ci legano i patti siglati dall’Italia come all’epoca del Ministro Minniti con la Libia. E ribadiamo ancora questo esempio poiché, a una nazione cui da almeno tre generazioni è stata risparmiata l’esperienza diretta della carneficina collettiva, questo evento costituisce l’unico contatto quasi fisico con la sofferenza e la morte sul mare che bagna le sue spiagge e nel quale questa nazione adora immergersi con gioia vacanziera. Se inoltre compariamo il concetto di Fraternità con l’uso che ne viene fatto, allora lo sconcerto è totale, quando si evidenzi come i popoli fratelli esistano solo per giustificare lotte fratricide come quella odierna dei Russi contro gli Ucraini, o per contrabbandare assimilazioni di tipo imperialistico.
Altresì, mentre la Libertà e l’Uguaglianza, pur esaminate singolarmente, nulla hanno a che vedere coi soggetti che compongono la Trinità avversa, la Fraternità sembra trarre dal passato mitico una sua giustificazione assoluta, analoga alle pretese della triade vincente. Si tratta del riferimento morale imprescindibile della dottrina del Cristo prepaolino e quindi universalistico che discende dalle parole di Gesù in difesa dell’adultera condannata a morte per lapidazione, dalle quali emerge un principio di fratellanza universale, indifferente alle distinzioni di genere, prevalente sul diritto e la tradizione nazionale, in difesa del supremo valore della vita. E si pensi, come vedremo tra poco, alla parabola del Buon Samaritano.
Infatti, per quanto neppure una parola scritta contenente alcuna traccia ermeneutica del suo pensiero sia transitata attraverso i secoli dalla mano del Gesù dei Vangeli (ed è arduo pensare che quell’uomo divinizzato fosse analfabeta in un mondo che faceva del Libro il suo canone esistenziale), da questa parabola può ricavarsi il principio teologico della Fratellanza, sebbene poi orrendamente travisato al punto tale da giustificare le più orrende nefandezze del cristianesimo paolino. In essa si mostra una relazione fraterna non solo tra due sconosciuti, uno vincente e l’altro sconfitto dalla Fortuna, ma addirittura fra appartenenti a due tribù diverse e ostili. Ebbene, questa parabola consente di collegare il suo messaggio al più importante principio del Cristo evangelico: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, compresi i tuoi nemici, così imbarazzante da aver costretto l’intellighenzia teologica a ridurne la portata in modo tale da renderlo inoffensivo. Prossimo diventa il parente, il vicino tribale, il membro del clan, il socio del branco, su un piano di uguaglianza tra pari, relegando gli altri nell’abisso della diseguaglianza. Ma non solo, la teologia ha ridotto così tanto la portata del messaggio protocristiano, del tutto anti gerarchico, da aver inserito la preminenza della gerarchia nel rito quotidiano della messa, dove, in ordine d’importanza, viene invocata la benedizione divina sui membri dell’apparato, dal Papa ai Vescovi in giù, fino al popolino che compone la cosiddetta Chiesa universale: dai più prossimi ai meno prossimi. Non così universalistica, dunque.
Ma è tuttavia importante sottolineare come il lemma “Fraternità”, contenendo un portato quasi religioso che induce a includerla nel terzo soggetto della Trinità vincente, la Famiglia, nell’elaborazione costituzionale si sia trasformata nella parola “Solidarietà”, molto più difficile da comprendere, poiché, come valore assoluto, ha un significato ambivalente: quello relativo al sentimento che unisce i membri di una società o di una collettività legati da comuni interessi, facendola così rientrare nella triade vincente, e quello relativo al sentimento che lega gli esseri umani in quanto tali. Allora, per essere plausibile, deve vivere nella relazione con gli altri due. Il che traspare in quasi ogni articolo della prima parte della nostra Costituzione, che purtroppo, come abbiamo visto, ha finora avuto poca fortuna (cfr. S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014).
Infine, forse delle tre dee che compongono la seconda trinità, l’Uguaglianza è la meno reale ed è, al contempo, la più istintiva dopo la Libertà, con una differenza capitale, tuttavia: che pur rispondendo a un moto dell’animo presente in tutti gli esseri umani, se ne discosta non appena si manifesta, entra in crisi d’identità sollecitando il suo contrario.
Anche tra gli aborigeni australiani antecedenti la colonizzazione occidentale, nelle tribù di raccoglitori e cacciatori, le decisioni più importanti e che maggiormente incidono sul funzionamento e sul consenso all’interno del gruppo, vengono prese a maggioranza in un consesso di uguali, come gli anziani o i saggi o i guerrieri o i cacciatori, poiché ognuno si sente portatore di un uguale diritto di appartenenza o di pensiero. Alla fin fine, si pensi all’assemblea dei diecimila opliti narrata da Senofonte nell’Anabasi, quando ad essa viene rimessa dal comandante la decisione su quale alleanza convogliare la spedizione fra i due contendenti al trono persiano. Eppure, presa la decisione, la differenza di valore tra la maggioranza e la minoranza soccombente rende l’uguaglianza del pensiero di ciascuno degli sconfitti ininfluente e irrilevante rispetto a quello dei vincenti: quindi è molto meno uguale di quella di chi ha vinto. Ne consegue che la libertà di agire degli sconfitti seguendo la propria opinione, cede il campo a quella della maggioranza di imporsi su di loro.
Questo divario valoriale, del tutto pacifico all’interno della trinità vincente dominata dalla gerarchia, contraddice viceversa l’equivalenza dei tre soggetti che compongono la trinità di cui ci stiamo occupando e trova due diverse composizioni.
La prima sta nell’idea del rispetto fra i tre soggetti, poiché solo facendo entrare nella dinamica dell’Uguaglianza la Libertà e la Fraternità, è possibile conciliare l’apparente paradosso di un’Uguaglianza che contraddice sé stessa. E questo vale per un Conclave, un’elezione politica, un gruppo di amici che mette ai voti dove o come trascorrere la domenica, poiché il rispetto dell’uguaglianza in nome della libertà a ogni costo comporterebbe la dissoluzione del consesso. Ne consegue che solo attraverso una relazione equilibrata e non gerarchica fra i soggetti è possibile non solo mantenere in vita l’insieme, ma garantire la prosecuzione del suo operato all’interno del sistema trinario sotto esame.
La seconda è più strettamente risolta sul piano costituzionale, poiché solo attraverso una normativa suprema possono essere impedite le derive che discendono dalla semplificazione autoritaria e assolutistica della dittatura maggioritaria. Deve cioè rifiutarsi l’assunto di Rousseau secondo il quale, raggiunta la decisione a maggioranza, la minoranza ha l’onere di cambiare bandiera se non vuole macchiarsi della colpa del tradimento verso la democrazia. Si tratta cioè di porre rimedio all’idea superficiale e ottusa che il dominio della maggioranza sia sufficiente per garantire il funzionamento della democrazia, e la soluzione sta nel garantire un ruolo non solo di controllo sull’operato della maggioranza, attraverso la creazione di istituzioni ad hoc, ma anche attivo, cioè attribuendo alla minoranza funzioni concrete all’interno delle istituzioni repubblicane.
Detto questo, tuttavia, il discorso si fa molto più complesso allorché si esamini il portato sociale di questo principio, che non intendiamo certo affrontare in questa sede, ben più ampiamente, acutamente e autorevolmente discusso dai filosofi politici degli ultimi due secoli, se non per evidenziarne il portato profondamente emotivo che attiene alla contaminazione dell’astratto con il concreto, connesso questo con il dolore causato dal suo opposto, l’ineguaglianza.
Si tratta cioè di un dolore sofferto o percepito attraverso il processo empatico. E proprio qui si gioca la differenza tra i sentimenti suscitati dalla trinità sconfitta e da quella vincente che attiva l’orgoglio dell’appartenenza o alla comunità dei credenti, o a quella nazionale o a quella famigliare, per nessuno dei quali il dolore subìto o percepito attraverso l’empatia è veicolo di emozione, se non inteso come lesione dell’interesse della comunità a far valere le sue prerogative identitarie, all’interno della quale possono valere sentimenti di affezione, pietà, solidarietà, ma saldamente circoscritti nei suoi confini.
Non solo: se la Libertà, come sentimento suscitato dall’istinto primario di sopravvivenza o di predazione, attiva dinamiche mentali comuni a tutti gli esseri umani, e quindi perfettamente compatibili con l’ideologia della trinità vincente nella cui relazione gerarchica dispiega il suo potere tenendo così a bada le derive, e trovando il suo limite all’interno di detta scala, del tutto diversa è l’azione della Libertà nel suo confronto con la Fraternità e l’Uguaglianza. Infatti questo confronto non può prescindere dalla necessità di individuare dei confini operativi salvo vanificare l’importanza valoriale di ciascuno di essi.
Tanto premesso, e richiamate le dottissime argomentazioni di John Rawls in Una teoria della giustizia (Feltrinelli, Milano 2017) a cui ci accostiamo riconoscenti, devono chiarirsi due aspetti indispensabili per comprendere la sconfitta della trinità illuministica.
Il primo attiene all’estrema difficoltà concettuale di far rientrare questi tre soggetti nella percezione valoriale dell’essere umano, animale sociale, mosso dagli istinti di sopravvivenza, di gregarismo e di predazione, essendo questi i motori cognitivi agiti dalla trinità vincente.
Il secondo riconducibile alla quasi impossibilità di far comprendere come l’operazione di salvaguardia reciproca di ciascuno dei tre principi sia controfattuale in termini di lesione degli interessi che vivificano ciascuno di essi. D’altro canto appare di comune buon senso che la lotta per l’Uguaglianza, agita impugnando la Libertà, incida sulla Fraternità verso gli avversari, così come la difesa a oltranza della libertà, sia negativa sia positiva, aggredisca sia l’Uguaglianza sia la Fraternità.
Ecco perché, al di là della funzione regolatrice del Giudice delle Leggi sulla produzione legislativa, che ormai tutte le società democratiche hanno acquisito come indispensabile (nel Regno Unito si tratta di recentissima conquista legalitaria con l’introduzione della Corte Suprema il 1° ottobre 2009), che a prima vista sembra investito di un compito pseudo salomonico, sol che si pensi al criterio della “ragionevolezza”, l’estrema delicatezza della sua funzione ne esalta l’importanza ma ne amplifica, per converso, la quasi imperscrutabilità delle ragioni delle sue pronunce agli occhi della maggioranza facile preda della demagogia.
Che poi la demagogia usi il potere seduttivo dell’esaltazione dei sentimenti primari che nutrono la trinità vincente è una plausibile verità inutilmente sbandierata davanti agli occhi della massa ammaliata dal suono del piffero. Non è casuale che una marcia militare sia più seducente, all’orecchio ingenuo, di un lied schubertiano, e questo vale anche per la trasmissione del pensiero, quando l’organo ricettivo sia naturalmente disposto a percepire le frequenze più riconoscibili dal cervello senza la mediazione della ragione. Ciò a prescindere dal pifferaio e da chi ne vuol promuovere l’azione, le cui capacità cognitive sono intatte, e ben decise a calpestare la trinità illuministica.
Questa riflessione deve tuttavia indurre a prendere in considerazione non solo il fatto che la trinità vincente ha colonizzato la mente di milioni di persone, chiudendone e oscurandone gli spazi della razionalità morale, ma, soprattutto, deve persuadere che la strada da percorrersi per riscattare la preziosità valoriale della trinità sconfitta ha bisogno di attivare alcuni sentimenti primari non inferiori, per rilievo, a quelli usati dalla trinità vincente per garantirsi seguaci e guerrieri.
Noi crediamo che non si debba aver paura o vergogna di richiamare alcuni concetti astratti che attengono al mondo dei sentimenti umani più profondi e condivisibili solo perché ne sia stato fatto abuso nelle più banali delle vulgate culturali. Lo affermiamo poiché ogni particella del linguaggio umano è polisemica, e la sua molteplicità di significati dev’essere colta per raccogliere quelli necessari e importanti: necessari perché senza di essi perdureranno le condizioni della sconfitta. Importanti perché il loro peso valoriale dev’essere riportato sul piano della concretezza concettuale conferendogli l’assoluta dignità che merita.
Né la loro apparente astrazione deve trarre in inganno aprendo la strada a facili e sprezzanti commenti, come il sarcasmo e il disprezzo dei cinici e dei nichilisti. Anzi, noi riteniamo che solo per mezzo di questo recupero sia possibile attraversare il deserto nel quale i difensori e i fautori della triade sconfitta sono stati confinati dalla brutale prepotenza degli alfieri avversari. Vogliamo dire che parole come “Memoria”, “Amore”, “Gioia”, “Dolore” debbano essere messe in relazione reciproca per suscitare una forza propulsiva tale da contrastare e sbaragliare sul piano delle idee e delle emozioni l’inganno della memoria cancellata, della violenza egoistica di un consumo bulimico, della ferocia identitaria compiaciuta, della soddisfazione meschina nell’aggirare e violare le regole; così la gioia dell’incontro con il prossimo, avversa al piacere della segregazione inflitta, e il dolore vissuto come strumento cognitivo per riconoscere la sofferenza altrui.
Ma questo deve avvenire all’interno di un perimetro concettuale ben definito del pensiero, cioè all’interno della Costituzione attuale, inclusiva di ogni soggettività, senza cedere alle esclusioni e ai distinguo razziali, culturali, ideologici, linguistici, di genere o del binomio forza/fragilità.
Possiamo così confrontarci col significato della memoria storica, climatica, economica, sociale, vissuta però attraverso il potere mnemonico delle emozioni famigliari, amicali, di vicinanza, di trasmissione orale e scritta dei ricordi e delle esperienze. Se venisse coltivata con cautela e attenzione, aiutando i destinatari del messaggio a rivivificarla, la memoria di questo tipo, nell’ottica della triade in esame, ben possibilmente innescherebbe una potente energia psichica, necessaria a suscitare il desiderio dell’azione. Ma, sia chiaro, per azione intendiamo ogni attività umana, anche quella del pensiero, anche quella delle parole, anche quella che si limita alla comunicazione interpersonale delle idee e delle opinioni, ritenendosi per idee le rappresentazioni mentali di una realtà attuale o passata, e per opinioni il giudizio, morale e/o giuridico, o religioso o cronachistico, o politico o sociale sui fatti e sugli eventi rappresentati. Giudizio elaborato attraverso e per mezzo dei tre canoni valoriali in oggetto. E ancora, seguendo la distinzione tra fatto, cioè il risultato percepibile di un evento trascorso, ed evento, cioè il suo farsi e divenire nel tempo.
È questa memoria che dev’essere attivata, ben e al di là e prescindendo da ogni retorica rievocativa. Tuttavia l’innesco di questo meccanismo mentale – che siamo del tutto consapevoli quanto sia estraneo e impraticabile nella psiche degli ignavi e di tutti coloro che riducono l’esistenza al mero consumo edonistico del loro tempo e dei loro averi – deve nascere da un’intima insofferenza per lo status quo e attiene a un comune punto di partenza: l’affettività, sconosciuta a quelli.
Si tratta del legame profondo che unisce gli individui sensibili, nell’accezione lessicale della parola “Sensitive” della lingua inglese, cioè capaci di percezione affettiva. E questo dev’essere ben chiaro per evitare confusioni con la sensibilità ridotta alla gratificazione di un privatissimo ombelico cognitivo, contaminato da un immane egoismo solipsistico, o da un sogno illusorio, collettivo di potere, o perseguito individualmente, o soprattutto vissuto di riflesso da chi quel potere possiede ed esercita.
Questo perché quanto accaduto, col trionfo della trinità Dio Patria e Famiglia, travalica il portato delle coscienze sensibili. È come se una forza abrasiva avesse sradicato dalla mente di milioni di persone la capacità di godere della bellezza della verità, e della verità della bellezza, impedendo di cogliere la sostanza valoriale per cui vale la pena di vivere e di lottare.
Lo sguardo truce di chi, in nome della trinità vincente, reclama la memoria di fatti e persone artefici di immani tragedie o di progetti o ideali ad essi contigui, non deve ipnotizzare chi soffre, chi è costretto a vivere nelle tenebre inducendolo a credere che solo agendo nella domesticazione di un mondo illusorio dominato dalle fakes, dal cibo spazzatura per il corpo e la mente e dalla prevaricazione per chi è ancor meno fortunato, si aprano le porte di una felicità possibile.
La morte per annegamento, per fame, per desolazione ambientale, per stermini pianificati, per apartheid spietate, per impossibilità economica di accedere alla sanità di eccellenza, la costruzione di barriere invalicabili, la perdita dei diritti in conseguenza della perdita del lavoro, il dilagare di ideologie inegualitarie, il mito della virilità e della sessualità prevaricatrice, il disegno di una pianificazione sociale subordinata a miti identitari o di genere, il miraggio di una ricchezza nella realtà inarrivabile, ma a portata dei sogni indotti dall’ideologia, devono diventare gli obiettivi contro i quali l’affettività si trasformi in passione, e la passione in azione, senza cedere alle lusinghe dei miti securitari e protettivi del possesso, lasciati alla miseria morale di chi non vuole conoscere.
Queste premesse sono inscritte nella Costituzione repubblicana, il cui primo articolo enuncia il faro che illumina la via progressivamente e analiticamente prescritta in tutto il suo ineliminabile contesto. Chi nulla fa per difenderla, e ancor più chi l’aggredisce, respinge il principio che solo partendo dal diritto al lavoro dignitoso come cartina di tornasole di ogni democrazia compiuta, si consente alla trinità sconfitta di riscattare gli esseri umani dall’inganno.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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