di Salvatore Cusumano
Progetto e consapevolezza
Al quel tempo io ero un ragazzo, con sogni e visioni proiettati verso la realizzazione professionale, avevo scelto di iscrivermi alla facoltà di architettura di Palermo, in via Maqueda. Credevo nelle mie potenzialità “creative” ed ero fortemente attratto da alcune architetture e da alcuni architetti, speravo di poter un giorno imitarli e, comunque, essere parte del processo dell’architettura che «…è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce» secondo la definizione di Le Corbusier.
Nel 1987, quando studente iniziai a frequentare i corsi del prof. Michele Argentino, l’insegnamento del Disegno industriale era ancora carico di sfumature e innovazioni apportate dagli inizi dei primi anni ‘70 nella Facoltà di Architettura di Palermo dalla giovanissima Anna Maria Fundarò, prima docente di Progettazione artistica dell’industria nel 1971, la quale aveva avviato un articolato processo di riflessione storico-critica sulla cultura del progetto in Sicilia, accanto ad un originale percorso di costruzione teorica e di sperimentazione progettuale intorno al design.
Scrive Viviana Trapani nell’articolo L’eredità di Anna Maria Fundarò nella scuola di design di Palermo (Trapani V., 2018 di QuAD, 1, 2018: 335-349)
« …Ma l’impegno di Fundarò si spinge oltre, proponendo un confronto a tutto campo con le tematiche della complessità ambientale; quindi con l’implicazione nel processo progettuale degli aspetti economico-produttivi e tecnici, dell’impegno etico e sociale, delle componenti antropologiche, culturali e comportamentali che fondano la consapevolezza e la partecipazione delle persone ai processi di trasformazione della realtà. [...] Anna Maria Fundarò, venuta a mancare prematuramente nel 1999, lascia una consolidata e apprezzata esperienza accademica, che porterà nel 2002 all’istituzione di un Corso di laurea in Disegno Industriale su iniziativa di Michele Argentino, suo più diretto allievo e collaboratore, succedutogli anche nella direzione dell’Istituto, diventato nel frattempo Dipartimento di Design»
Io mi colloco tra gli allievi che hanno avuto la fortuna di frequentare il corso di Progettazione Ambientale tenuto dal prof. M. Argentino, per me un corso fondamentale per superare la mia visione estetica dell’architettura e iniziare a costruire la dimensione etica del fare progettazione. Nel seguire le lezioni del corso si era condotti a rileggere il mondo della produzione, sotto altre lenti, un disegno industriale sostenibile, necessario, capace di rispondere al cuore prima che al mercato.
Questi valori culturali hanno strutturato cognitivamente un’etica professionale incarnata dentro assi ben precisi, una visione olistica del mondo paritetica e senza supremazie fra gli esseri senzienti tutti, un design misurato e rispettoso del proprio ciclo di vita, partendo dall’uso sapiente dei materiali, dallo studio attento delle geometrie delle forme al fine di minimizzare gli scarti, finalizzare i cicli di vita, dare valore alle “cose”.
Mi ricordo la piccola aula 4 in Via Maqueda, lui, il nostro prof., con il suo fare dolce e umile, con i suoi quaderni degli appunti, le sigarette, alcuni libri, il suo atto di sedersi ed iniziare le sue lezioni. Ricordo che alla fine di ogni lezione ci suggeriva una serie di letture, libri che non mi hanno mai abbandonato e che ancora risuonano nella mia anima (La speranza progettuale di Tomás Maldonado, Einaudi 1970)
«… Per noi esiste una sola possibilità: respingere sempre e di nuovo tutto quanto può minacciare la sopravvivenza umana; contribuire a disinnescare le ‘bombe ad orologeria’, cioè replicare all’incremento irresponsabile con il controllo responsabile, alla congestione con la gestione. In breve: la nostra scelta è la progettazione. […] Noi possiamo (e dobbiamo) denunciare l’irrazionalità del nostro ambiente, ma nessun discorso sulla sua natura alienante può farci dimenticare, come abbiamo già visto, che esso è il risultato della nostra volontà fattuale e che siamo noi tutti, direttamente o indirettamente, a realizzare gli oggetti del nostro intorno, i quali, a loro volta, sono parte determinante della nostra condizione umana. I nostri rapporti, quindi, con l’ambiente in cui viviamo non sono paragonabili a quelli che si verificano ad esempio tra un contenuto ed un contenitore che si siano venuti sviluppando indipendentemente l’uno dall’altro (rapporti, questi, che a rigore possono implicare corrispondenza reciproca o meno). I nostri, invece, sono sempre rapporti di corrispondenza, il che non esclude che essi, come spesso accade, si possano rivelare sostanzialmente negativi per noi e per il nostro ambiente. Eppure non c’è dubbio che qui il contenuto ed il contenitore – la condizione umana e l’in-torno umano –- sono il risultato di uno stesso processo dialettico, di uno stesso processo di mutuo condizionamento e formazione (…). È una realtà dove i rapporti degli uomini con gli oggetti hanno raggiunto un grado di irrazionalità esasperante. Gli americani – scrive il designer americano R. S. Latham – apparentemente ignorano un rapporto semplice e squilibrato come il seguente: una donna del peso di 120 libbre si mette in macchina, parte e conduce la sua vettura, del peso di 3000 libbre, per cinque isolati della città, perde il tempo per trovare un posteggio, gira per il supermercato, torna alla macchina, fa la strada di ritorno e rientra a casa – allo scopo di trasportare un piccolo sacchetto di arance, lungo un percorso per il quale, a piedi, avrebbe impiegato metà tempo» (The Artifact as a Cultural Cipher, in Who designs America?, a cura di L. B. Holland, Doubleday, Garden City [N.Y.] 1966: 259).
Michele strutturava le sue lezioni caricandole di pathos e con il suo modo di fare infondeva sicurezza e ci stimolava ad essere curiosi e attenti,
«Fra tutte le professioni, una delle più dannose è il design industriale. Forse, nessuna professione è più falsa. Il disegno pubblicitario, che tende a persuadere la gente ad acquistare cose di cui non ha bisogno, con denaro che non ha, allo scopo di impressionare altre persone che non ci pensano per niente, è forse quanto di più falso oggi possa esistere. Subito dopo arriva il design industriale, che appronta le sgargianti idiozie propagandate dagli esperti pubblicitari. Non era mai accaduto prima d’oggi che individui adulti si mettessero seriamente al lavoro per progettare spazzole elettriche per capelli, schedari per ufficio foderati di cristallo di rocca e tappetini da bagno in visone, e preparassero poi programmi per produrre e vendere a milioni di persone aggeggi di tal fatta. Nel bel tempo perduto, se a una persona piaceva uccidere doveva fare il generale, o acquistare una miniera di carbone, o studiare la fisica nucleare; oggi invece la progettazione industriale ha portato il delitto al livello della produzione in serie. Con la progettazione di automobili criminalmente infide, che uccidono o storpiano quasi un milione di persone l’anno in tutto il mondo, con la creazione di intere categorie di indistruttibili rifiuti che deturpano il paesaggio e con la scelta di materiali e processi di lavorazione che inquinano l’aria che respiriamo, i designer sono diventati una razza pericolosa. E naturalmente con grande cura ‘insegnano ai giovani le tecniche richieste per le diverse attività. In un’epoca di produzione in serie, in cui ogni cosa deve essere programmata e pianificata, il design è divenuto il più potente mezzo attraverso il quale l’uomo modella i suoi strumenti e il suo ambiente naturale (e, per estensione, la società e sé stesso). Questo fatto implica una grande responsabilità sociale e morale da parte del designer. Richiede anche una maggiore comprensione degli altri da parte di coloro che praticano la progettazione, e più capacità conoscitiva di fronte al processo progettuale da parte dell’opinione pubblica. […] Il design dovrebbe avere una funzione sociale e politica, non solo estetica o commerciale. Il design può contribuire a risolvere problemi sociali, migliorare la qualità della vita delle persone e creare un futuro più sostenibile e giusto. Il designer deve essere in grado di prevedere come l’oggetto progettato sarà utilizzato e come avrà un impatto sulla vita delle persone. In questo modo, il design può diventare uno strumento per la creazione di un futuro migliore». Design per il mondo reale di Victor Papanek (Academy Chicago Publishers, Chicago, 1984)
La luce rada entrava trasversale in aula 4, modificando lo spazio verso atmosfere dell’altrove dove tutto era da scoprire, noi puntuali ed attenti ascoltavamo la sua voce tenue. a tratti ruvida, leggere le riflessioni o citazioni, che servivano poi al dibattito esplorativo per le consegne e i lavori che di volta in volta ci assegnava; ricordo erano tutti progetti basati sul trovare soluzioni a problemi quali: gli incendi boschivi, le risorse idriche, dall’usa e getta all’obsolescenza programmata, l’aumento spropositato dei rifiuti, l’inquinamento dei suoli e dei mari, un altro aspetto degli studi mirava al ripensare i tantissimi oggetti progettati, attraverso la rilettura e la conoscenza dell’oggi, e ancora l’attenzione alle risorse e al benessere completo del nostro pianeta.
«La crisi dell’industrialismo che possiamo individuare nel suo disprezzo originario per la natura, nella sua acritica fiducia verso la tecnologia, nella sua idea di sviluppo inarrestabile, nel suo spietato antropocentrismo ha comportato una cieca politica del fare progettuale conflittuale con l’ambiente, che è stato considerato soltanto come il teatro del dispiegamento delle energie produttive della macchina industriale. La crisi dell’architettura moderna deriva, in questo senso, dal suo non essere compatibile con una coscienza dell’ambiente che di recente si è fatta più attenta e risoluta verso tutte le azioni che operano in funzione del peggioramento del nostro rapporto con la biosfera. Il problema della crisi dell’architettura moderna è dunque legato più ad una generale crisi della modernità che alla forma dell’architettura moderna. […] L’azione progettuale frantumata, rivolta cioè a segmenti del sociale che mirano solo alla realizzazione di un progetto egoistico immiserisce se stessa e restringe la progettualità ad attività marginale, incontrollata e perniciosa per la società e per l’ambiente. […] la natura del progetto egoistico, rivolto solo alla immediata risoluzione di problemi in contrapposizione alla natura ostile, che viene vista come magazzino da saccheggiare. Emergono le due anime della società borghese, la riflessiva che guarda attraverso la ragione e che cerca di legittimare la propria azione, e quella enormemente più potente dell’avidità e della rapina che rischia di avere la meglio. Il caso delle città è emblematico sotto questo profilo, il piano inteso come ragione applicata è stato travolto dalle esigenze dell’industrialismo; lo sfruttamento della città, la complicazione produttiva, il bisogno di nuovi alloggi dell’urbanizzazione selvaggia hanno col tempo vanificato qualunque intelligenza pianificatrice, essendo la ragione impotente verso la regolazione di spinte volte a sfruttare al massimo tutte le possibilità offerte dalle trasformazioni. L’impossibilità del contenimento e del controllo dello sviluppo urbano ha reso le città il punto più debole della modernità…» (Argentino Michele, Bruno Leopardi Editore, 2001).
Lentamente la mia visione della professione dell’architetto cambiava, e guardandomi intorno comprendevo sempre più quanto bene e quanto male possiamo fare con le nostre idee che prendono forma nel cemento e nelle norme. Il mio progetto sì fermava al foglio A1 o al massimo al formato A0, le mie case si poggiavano sul suolo e si orientavano al sole e ai venti, poi stavano attenti allo spazio, alla luce e ai materiali, tutto questo ora non mi bastava, volevo capire di più sul suolo che cementificavo e impermeabilizzavo, volevo capire del ciclo dei materiali del prima e del dopo, delle condizioni di lavoro dei lavoratori, degli alberi spiantati e del consumo idrico, delle combinazioni dei vari materiali nelle stratigrafie del costruire. Insomma avevo compreso che il progetto usciva dai margini dei formati uni e si relazionava con ogni cosa, iniziavo a comprendere che tutto è molto complesso, e che bisognava affrontare questa complessità.
Il progetto per un mondo reale, presuppone la conoscenza della realtà che stiamo vivendo, una realtà alquanto complessa e di difficile interpretazione. Viviamo in un tempo di continui sconvolgimenti che toccano tutte le sfere della vita sociale, culturale, economica, produttiva, cognitiva, affettiva; il covid ci ha fatto capire come questi limiti sono stati fortemente superati. Viviamo in un’epoca, l’Antropocene, in cui gli impatti delle attività umane sul pianeta hanno raggiunto livelli senza precedenti. occorre fare chiarezza sulle questioni ambientali – l’inquinamento, i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani, i consumi di acqua e di risorse, le trasformazioni dei suoli e la distruzione della biodiversità – da una prospettiva che evidenzia le interconnessioni tra le parti di quel sistema meravigliosamente complesso che è il nostro pianeta. Bisogna comprendere come bruschi cambiamenti di stato nella biosfera possano destabilizzare rapidamente il funzionamento delle nostre fragili economie, mettendo in crisi il governo delle città.
Seguire la materia ci portò anche a selezionarla per la tesi di laurea.
« “Professore, avevamo pensato di fare la tesi con Lei”. Cercare un tema per la tesi non é stato facile, é stata una lotta continua, una ricerca interminabile di “se”, “come”, “perché”. Tutta questa serie di interrogativi nasceva da una attenta riflessione tecnica e spirituale sulla cultura che in questi anni l’Università ci aveva dato e sulla coscienza che in questi anni era nata dentro di noi. Sicuramente non é stata difficile la scelta della materia “Progettazione Ambientale”, e forse è in questa materia che risiede tutto il dilemma, e la stessa logica che ci ritroviamo dentro. “La colpa è tua, Michele”. Seguire i corsi del prof. Michele Argentino è stato conoscere un nuovo design, un nuovo modo di pensarsi Architetti; con i suoi corsi abbiamo conosciuto Victor Papaneck, Progettare per un mondo reale, Orwel, 1984, Gui Bonsiepe Teoria e pratica del disegno industriale, Douglas R. Hofstaedter Godel, Escher, Bach, Dario Paccino, L’Imbroglio Ecologico, e tanti altri libri che hanno inciso profondamente sul nostro impulso creativo, sulla nostra euforia del fare, portandoci dinanzi al mondo con l’umiltà di chi vuole prima capire, poi chiedersi, poi cercare la risposta, quindi creare» .
Queste parole sono l’introduzione alla mia tesi di laurea dal titolo “Tempi plastici” (anno accademico 1990-91): una tesi che esaminava il problema della plastica, di cosa riempie le discariche e del problema degli imballi, accompagnandoci alla progettazione di un imballo per frutta in plastica biodegradabile compostabile. Il progetto dell’imballo è nato dalla rilettura di un oggetto esistente: i contenitori per l’imballo della frutta e del fatto che la normativa prevede per questo tipo di imballo la possibilità di un solo utilizzo.
Sono passati 33 anni dalla tesi di laurea, la presenza delle conoscenze acquisite con il nostro Maestro Michele sono state per me determinanti per il disegno del mio percorso professionale e sociale, il legame culturale che mi tiene legato al Prof. ancora forte, tanto che mi ha visto promotore a far intitolare la biblioteca dell’Ordine degli architetti di Trapani, il 24 giugno 2023.
Oggi resta una grande consapevolezza della coscienza del limite, dell’era delle conseguenze, ma anche un forte rammarico nel vedere come poco sia cambiato, sulle tante criticità che affliggono il nostro pianeta. Eppure ci vuole veramente poco e molte soluzioni noi li avevamo messo per iscritto nella tesi del 1990. Il problema maggiore resta culturale, quello che Michele ha fatto con noi occorre farlo nelle scuole a partire dalle elementari. Il mondo lo salviamo con le piccole azioni di ogni giorno iniziando con la spesa al supermercato.
Il professore Michele Argentino nel portare avanti la sua disciplina stava in modo invisibile portando avanti una grande rivoluzione silenziosa, quella di risvegliare noi studenti dal torpore dentro cui questa società ci porta, rendendoci, per usare le parole del filosofo polacco Zygmunt Bauman, «Homo consumens», ma anche studente amputato, passivo e ancor più cieco e sordo, incapace di leggere e affrontare la complessità del sistema.
Da qui la opportunità di intitolare una Biblioteca al Nostro prof. perché in ogni libro lui ci dava nuove occasioni per decifrare il labirinto della vita, e forse è proprio in quel dubbio, in quelle aree sconosciute ci indicava la via di uscita.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, settembre 2023
_____________________________________________________________
Salvatore Cusumano, architetto specializzato in Bioarchitettura e studioso di Genius Loci. Si dedica alla promozione e alla diffusione delle pratiche di costruzione sostenibile e rispettosa dell’ambiente. È stato Vicesindaco della Città di Alcamo nel 2014 e Presidente della Sezione Provinciale di Trapani dell’Istituto Nazionale di BIOarchitettura (INBAR) dal 2012 al 2017. Nel 2019, ha fondato l’Istituto Nazionale Sostenibile Architettura (INSA) e attualmente ricopre la carica di Presidente. Scrive per la rivista BIOarchitettura®️, fondata nel 1992, ed è stato insignito del titolo di Accademico di Sicilia nel 2021. Tutti gli articoli pubblicati su Bioarchitettura®️ sono reperibili presso la Consulta nel catalogo del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna.
______________________________________________________________
Salvatore Cusumano