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E vennero a prenderci

Martin Niemöller

Martin Niemöller

di Sergio Ciappina 

Forse è grazie alle contraddizioni che cogliamo negli eventi umani che, a volte, riusciamo a stabilire una corrispondenza tra la nostra sofferenza e quella altrui.  Empaticamente. Come nel caso di uno sconosciuto comandante di U-Boot, i sottomarini tedeschi in navigazione durante la Grande Guerra, uno dei tanti Junker discendenti dall’antica aristocrazia terriera germanica. Fedelissimo al Kaiser Guglielmo II, fu dapprima, come quest’ultimo, fatalmente affascinato dai proclami di un altrettanto sconosciuto caporale austriaco, ma subito dopo tanto apertamente critico da manifestare pubblicamente la propria opposizione. Fatto per il quale ottenne, suo malgrado, di poter fare esperienza diretta della stessa barbarie contro la quale aveva preso a lottare, finendo per passare un consistente periodo della propria vita tra campi di concentramento e campi di sterminio, deportato in questi luoghi ameni ad opera della famigerata Gestapo.

Si chiamava Martin Niemöller; nacque a Lippstadt il 14 gennaio 1892 e, dopo una vita oltremodo piena, morì a Wiesbaden il 6 marzo 1984. Dopo gli orrori della Prima Guerra Mondiale, dopo aver visto morire uno dopo l’altro la maggior parte dei suoi compagni di vascello, a causa di quella perversione tutta al maschile che è la guerra, ritornato in una patria provata e privata di ben due generazioni, decise di diventare pastore protestante: fu ordinato ministro nel 1924 e fu il pastore che guidò la Chiesa Confessante antinazista per tutto il periodo del regime stesso.

Mancavano due anni al giorno in cui il presidente del Reich tedesco, Paul von Hindenburg, avrebbe consegnato il destino del Paese ai nazisti, quando gli venne affidata un’importante parrocchia a Berlino, dove la sua fama di eroe navale e la sua predicazione attirarono grandi folle. Nel 1931 Niemöller non era un sostenitore del governo di Weimar e, in effetti, accolse favorevolmente i proclami di rinascita & riscatto dello Stato tedesco, tanto sbandierati dalla guida spirituale del «Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei» [1].

Tuttavia, ben presto comprese quanto fossero pericolosi questi sedicenti salvatori del popolo germanico. E fu per questa considerazione che nel 1934 Niemöller fondò la Lega di emergenza dei pastori e, in un primo periodo, grazie alle amicizie e ai rapporti con uomini d’affari ricchi e influenti, riuscì a restare indenne dalle conseguenze di questo suo nuovo atteggiamento. Fino al 1937, quando divenne la guida etico-religiosa della Chiesa confessante: fu allora che fu arrestato dalla Gestapo su ordine diretto di Adolf Hitler, perché infuriato, pare che fosse facile all’ira, per un suo sermone. L’accusa: attacchi malevoli allo Stato. Gli fu comminata una condanna simbolica, corredata di una piccola sanzione pecuniaria.

Tuttavia, fu nuovamente arrestato, sempre per ordine diretto dell’autoproclamatosi führer. Talvolta capita che i ripensamenti non siano proprio benefici. La sua pacifica, ma non per questo innocua, voce dissenziente fu evidentemente considerata un pericolo per le «categoriche certezze» [2] date quotidianamente in pasto ai suoi concittadini. D’altronde bisogna tenere conto del fatto che le persone tendono a essere disturbate dall’incertezza. Le affermazioni categoriche fanno da ansiolitico, anche se producono pessime previsioni e non consentono, in sostanza, di decifrare la complessità della realtà. Metti un’etichetta, fai un’affermazione categorica e calmi l’inquietudine che la complessità genera negli altri individui. Ci preme però ricordare come queste affermazioni vengano rapidamente dimenticate quando la realtà degli eventi le smentisce, a volte in modo clamoroso. Pensiamo a quei famigerati bucanieri abbandonati, se non addirittura uccisi, dalla loro stessa ciurma che da mesi non godeva neanche del più misero dei bottini.

il-piu-grande-uomo-scimmia-del-pleistoceneIn altre parole, per dirla con Roy Lewis [3], «quello appena descritto è il più antico circolo vizioso dell’economia: per fare un carniere purchessia ti serve una squadra di cacciatori, che puoi nutrire solo se sei sicuro di fare un carniere. Altrimenti l’ora dei pasti diventa così irregolare da consentirti di mantenere un gruppetto di tre o quattro al massimo».

In fondo è quello che abbiamo visto e speriamo di veder succedere a tutti i totalitarismi quando questi si approssimano alla fine: i topi che abbandonano la nave. Il riferimento a questi simpatici quanto incolpevoli roditori nel caso di Niemöller e dei suoi aguzzini calza a pennello: si parla appunto di ratline, letteralmente pista per topi, cioè di un sistema di vie di fuga con cui, alla fine della Seconda guerra mondiale tra gli anni 1946-1951, i criminali di guerra e collaborazionisti nazisti fuggirono, in prevalenza verso l’America Latina, per evitare i processi a loro carico in Europa,  contando tra l’altro sull’aiuto di alcuni religiosi come il vescovo Alois Hudal, rettore del Collegio di S. Maria dell’Anima a Roma, che procurarono loro documenti falsi e biglietti di viaggio [4].

Purtroppo, prima di quel fatidico momento all’umanità non furono risparmiate  tremende catastrofi. Anche per Niemöller: durante i successivi sette anni dal suo arresto, fu detenuto nei campi di concentramento di Sachenhausen e Dachau, dove fu spesso posto in un brutale isolamento. Fino al 1945 quando il suo campo di prigionia fu liberato dagli Alleati [5]. Niemöller da allora proseguì la sua vita di pacifista dichiarato sostenendo una Germania neutrale, disarmata e unita.

Normalmente quasi nessuno conosce la parabola di Niemöller; qui è utile ricordarla per permetterci di articolare quella che rischia costantemente di rappresentare una sterile citazione con una, seppur succinta, biografia che evidenzia gli snodi principali del cammino di quest’uomo verso l’incontro e la comprensione dell’altro.

Durante uno dei suoi accesi sermoni pronunciati a Berlino nel 1937 egli richiamava, o cercava di richiamare, dall’apatia, che, allora come oggi, parassitava l’esistenza dei suoi concittadini di fronte alla spirale di barbarie sulla quale quotidianamente avrebbero potuto riflettere così come ha fatto lui.

Questo il passaggio incriminato che gli valse anni di peregrinazioni all’interno dell’universo concentrazionario:

«Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa»

Alois Hudal

Alois Hudal

Sorvolando sulle successive rielaborazioni, del sermone di Niemöller, ad opera di vari movimenti per i Diritti Umani citate nei più diversi contesti, vogliamo soffermarci un attimo sull’errata attribuzione di questo richiamo pastorale al drammaturgo, poeta, regista teatrale, scrittore e saggista tedesco Bertolt Brecht; errata attribuzione che di solito spicca durante i momenti di riflessione sull’odio di alcuni esseri umani nei confronti dei propri simili, esseri diversi ma pur sempre simili.

L’abitudine dei più di attribuire profondi quanto illuminanti pensieri e idee a grandi e famosi personaggi della scena scientifico-culturale, diventata incredibilmente dilagante nell’epoca dei social media, pare nascondere l’assoluta incapacità di assorbirli meditandoli e magari accennando a farne uno stile di vita, lasciandoli al contempo penzolare dalla penna di uomini (raramente donne) universalmente riconosciuti per la propria profondità di pensiero [6]. Peraltro, che Brecht abbia ascoltato direttamente il sermone dal pastore stesso a Berlino nel 1937, appena un anno prima della Kristallnacht, per poi riproporlo a sua volta facendolo suo, è fuori discussione avendo egli precipitosamente abbandonato la capitale tedesca il giorno successivo l’incendio del Reichstag, il 27 febbraio 1933, con moglie, figlio e alcuni amici intellettuali.

La distanza che reputiamo esserci tra noi stessi e le grandi personalità intellettuali ha tutta l’aria di fungere da alibi: certi esami di coscienza, sembriamo dire, sono fuori della nostra portata. Li riconosciamo profondi è vero, ma bisogna essere grandi per testimoniare con la propria vita tali, scomode, affermazioni. Attribuendole ai grandi le allontaniamo da noi, magari per confermarci novelli don Abbondio. O per confermarci nell’apatia, che è lo stesso. Deleghiamo mentalmente ad altri, eroi et similia, l’azione o finanche la pubblica presa di posizione.

vita-di-galileoAdesso sì che possiamo far scendere al nostro livello il grande drammaturgo tedesco che, tracciando una mirabile Vita di Galileo [7], ammoniva quei popoli che per perpetuare la propria pacifica esistenza hanno costantemente bisogno di eroi ovvero di santi, l’equivalente dell’eroe nel discorso religioso. In questo caso la citazione non vuole essere un modo di prendere accidiosamente distanza dalla riflessione: serve piuttosto come spunto utile per evidenziare il diabolico doppio legame tra deportazione e apatia.

Deportare: verbo latino [8], transitivo, composto di de e portare ossia portare via da un luogo.     

Vennero a prendere: un altro modo per allontanare il sospetto di connivenza che pende sulle nostre teste è quello di esecrare, a posteriori, il soggetto della proposizione appena riportata che, per ragioni grammaticalmente individuabili è sempre plurale. Si tratta di loro ossia di quegli altri, quelli con i quali io non avevo niente a che spartire, quelli che però, senz’ombra di dubbio poiché ne sto parlando, hanno comunque compiuto l’azione sotto i miei occhi. Però.

Però, sotto sotto mi confermano nei miei pregiudizi, nel fastidio indefinibile che provo verso alcuni miei simili che, grazie a un processo di categorizzazione binario, relego acriticamente tra i cattivi/nemici. Comunque sia, diversi da me.

Proviamo ad analizzare questa dinamica con la stessa lente con la quale si studia un fenomeno che la vox populi, raramente smentita dagli stessi studiosi del fenomeno, vuole confinata al mondo adolescenziale. Il bullismo.

Perché vogliamo correlare tale fenomeno ritenuto adolescenziale con un’attività squisitamente razzista come la deportazione che affligge le società adulte? Perché, come amava ripetere Matteo Maria Boiardo, principio sì giolivo ben conduce: non pare ci sia un’età magica nella quale come per incanto il bullismo scompare; in realtà si specializza. Affinché si possa parlare di bullismo secondo la definizione scientificamente accettata [9] è necessario che ci sia un’interazione dinamica tra attore e vittima e che questa si attui intenzionalmente, attraverso un abuso di potere in condizioni di reale ed effettivo squilibrio del potere stesso. Riepilogando: intenzionalità, abuso e squilibrio di potere.

Tra i vari tipi di bullismo, gli studiosi identificano quello fisico che comporta colpi, pugni, strattoni,  calci, furto, danneggiamento degli  oggetti personali della vittima; quello verbale che consta di offese, minacce,  soprannomi denigratori e prese in  giro; ed infine quello indiretto che si attua attraverso esclusione sociale,  pettegolezzi, diffusione di calunnie,  diffusione di false notizie negative a carico delle vittime, attraverso una particolare forma di bullismo: il cyberbullismo, vale a dire le azioni di calunnia appena elencate vengono anche agite attraverso l’uso sistematico dei social media.

L’uso del corsivo tipografico nell’elenco sopra riportato serve a identificare i tratti che, a nostro parere, risultano essere in comune tra il fenomeno del bullismo e tutte quelle attività proprie dei regimi totalitari [10] che hanno spesso come esito la pratica della deportazione.

Gli agenti il bullismo nella pubblicistica scientifica sul fenomeno sono: attore, gregari e sostenitori. Quindi, affinché il bullismo si manifesti come tale, è fondamentale che gli attori si configurino in guisa di: bullo leader, colui che è l’ideatore delle prepotenze, gregari, che partecipano alle violenze guidati dal bullo, sostenitori che incitano con la loro compiacenza e infine di spettatori, termine riferito a tutte le persone che assistono alle prepotenze senza intervenire, anzi, a volte rinforzandole con un atteggiamento che lascia trapelare il sostegno senza affermarlo apertamente.

Soffermiamoci un attimo sulla definizione generica di attore del gesto materiale del bullismo: egli finisce per rappresentare l’incarnazione delle pulsioni aggressive di coloro che assistono silenti. Qualcuno che agendo al nostro posto ci solleva dalle nostre responsabilità. In sostanza è abbastanza probabile che senza la partecipazione silenziosa ma tangibile degli spettatori, la concretizzazione dell’atto di bullismo non avvenga. Gli spettatori si configurano come coloro che consegnano al bullo, e ai di lui gregari e sostenitori, che storicamente rappresentano spesso una minoranza seppur estremamente agguerrita e rumorosa, la procura di portare alle estreme conseguenze i segreti e personali istinti aggressivi e i relativi livori e pregiudizi.

Gustave Dorè, La Divina Commedia, Purgatorio, canto 18

Gustave Dorè, La Divina Commedia, Purgatorio, canto 18

Quindi cosa sono gli spettatori in definitiva: apatici indifferenti o mandanti silenziosi? Domandiamo un parere su questo dilemma al ghibellin fuggiasco [11]. Lo facciamo rileggendo il Canto XVIII del Purgatorio  e andando precisamente nella quarta cornice entro la quale fanno bella mostra di sé gli accidiosi, spiriti espianti lenti in vita nell’operare il bene la cui pena consiste nel correre senza sosta per la cornice, gridando esempi di sollecitudine esaltata e di accidia punita; il contrappasso quivi rappresentato evidenzia come essi debbano compensare l’accidia dimostrata in vita col fervore acuto che ora li anima, avendo cura di non sprecare nemmeno un minuto di tempo.

All’inizio del Canto il nostro sommo è colto da un profondo dubbio esistenziale, frequente espediente dantesco per inserire nella narrazione la propria visione etica. Se è vero, si domanda il poeta, che l’amore scaturisce dalle cose fuori di noi a cui l’anima tende naturalmente, quindi di necessità ne consegue che gli uomini non sono responsabili delle proprie azioni. Virgilio, suo vate, risponde che l’uomo è dotato di ragione e possiede il libero arbitrio, che gli consente di scegliere tra il bene e il male.

Per amor di cronaca, riteniamo utile riportare alcuni passaggi del già menzionato Canto: è ormai passata la mezzanotte e Dante sta per cedere al sonno, ma all’improvviso irrompe una schiera di anime, gli accidiosi, guidati da due spiriti che gridano esempi di sollecitudine, a cui fanno eco tutti gli altri, che si esortano reciprocamente ad un sollecito zelo (vv. 76-105); successivamente la schiera degli accidiosi si allontana rapidamente, chiusa da due spiriti che gridano esempi di accidia punita non senza però scusare la loro fretta con queste parole (vv. 115-117): 

Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni

Gli spettatori identificati dallo studio del bullismo, a questo punto che sia adulto o adolescenziale non fa differenza, non sembrano essere molto diversi dagli accidiosi della Commedia. Sono attori essi stessi in forza della propria neghittosità. Anzi: siamo noi stessi spett-attori e anche se ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.

Ma cosa si verifica se appena riflettiamo un poco, immedesimandoci, sulla sofferenza degli altri: una sofferenza procurata dalla sopraffazione agita da quelli di cui, a questo punto, abbiamo capito di essere stati complici? Termine che risulta adesso come il più appropriato.

La letteratura e la «settima arte» offrono molti spunti di riflessione sulla conversione che si manifesta quando riusciamo, per un’alchimia di tempi e di fattori, a cogliere empaticamente la contraddizione tra il percepire la sofferenza dell’altro, causata da un soverchiante squilibrio di potere, e la nostra condizione di spettatori non proprio incolpevoli.

I Promessi Sposi, Innominato

I Promessi Sposi, Innominato

Scegliamo un personaggio per ciascuno dei due ambiti, uno immaginario e uno storicamente verificato: il primo è il protagonista della famosa «Notte dell’Innominato» scaturito dalla penna di Alessandro Manzoni, valido esempio di come nella finzione letteraria il momento del sonno sia l’ambito eletto per le riflessioni etico-esistenziali, mentre per il secondo ci rivolgiamo alla figura realmente esistita dell’industriale tedesco Oskar Schindler rappresentata nell’omonimo  film di Steven Spielberg. Per il masnadiero manzoniano la conversione avviene dal tramonto all’alba: l’alba di un nuovo giorno. L’autore del romanzo evidenzia bene l’evoluzione dell’animo del personaggio, la solitudine dell’anima nelle tenebre della notte e il travaglio del rinnovamento. Nel contrasto fra un io antico e uno nuovo, egli prova una «non so qual rabbia di pentimento» [12].

schindler-listDiverso, più paradigmatico e fors’anche più attinente alla nostra riflessione, il caso di Oskar Schindler, situato com’è all’interno di una realtà storicamente attestata; da spettatore indifferente a sostenitore economicamente interessato del genocidio pianificato meticolosamente dal regime nazista, salta la fase del spettatore attivandosi e finendo per diventare l’unica speranza di salvezza di molti ebrei deportati dai nazisti e insignito, dopo la morte, del titolo onorifico di «Giusto tra le Nazioni», titolo conferito a tutti i non ebrei che, a rischio della propria vita, hanno salvato gli ebrei dalla Shoah. Spielberg ne racconta magistralmente la metamorfosi identificando il momento esatto in cui il protagonista entra in contatto profondo con la sua capacità, tutta umana, di provare compassione per la sofferenza altrui e decidere, da quel momento, di spendere le ricchezze accumulate grazie al disumano sfruttamento e, in definitiva, dedicare tutta la sua esistenza rimanente in un progetto di vita nova.

In entrambi i casi ci è dato assistere al dantesco fuoco della sollecitudine che si manifesta nelle azioni a posteriori dei due protagonisti, dopo essersi empaticamente immersi nella sofferenza: quella degli altri e quella del proprio cuore. Da quel momento inizia una battaglia riparatrice e senza indugi conto la barbarie e la sopraffazione. Un fuoco che pare avere molto a che fare con quello dei maratoneti che percorrono ansimanti la cornice, tra il sonno e la veglia del sommo poeta, del XVIII Canto del Purgatorio.

Ma né l’Innominato né tantomeno Schindler attenderanno un’altra vita per, chiosando Dante, operare il bene. E nemmeno Niemöller. E magari anche noi siamo tenuti far sentire netta la nostra opposizione, ogni qualvolta assistiamo a un atto di bullismo come la deportazione di chi non può difendersi dal bullo di turno.

L’alternativa è che vengano a prenderci mentre aspettiamo Godot. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] Si veda: Dizionario di Storia online Treccani 2011: https://www.treccani.it/enciclopedia/partito-nazionalsocialista_(Dizionario-di-Storia)/ (02/25)
[2] Citando Confucio: «La categoricità è uno dei sintomi della mediocrità». Questo perché una buona politica non si poggia su proclami, su dichiarazioni categoriche circa lo stato delle cose e sulle soluzioni draconiane per piegare il mondo al proprio volere.
[3] Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, Milano, 1992, ed. ebook, posiz. 1106-1107
[4] fonte: Treccani, Dizionario di Storia online (2011): https://www.treccani.it/enciclopedia/ratline_(Dizionario-di-Storia)/ (02/2025)
[5] fonte : https://www.yadvashem.org/odot_pdf/Microsoft%20Word%20-%205958.pdf (01/25)
[6] Un altro esempio di falsa attribuzione a scopo anestetizzante è la ripetuta attribuzione dei versi della poesia «Lentamente muore» della poco conosciuta scrittrice brasiliana Martha Medeiros, donna, al più famoso e celebrato poeta cileno, maschio, e premio Nobel per la letteratura Pablo Neruda.
[7] «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» – Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, Torino, 1963: 115
[8] dēporto, -as, -avi, -atum, -āre, 1 tr.: 1. trasportare, portare a destinazione: Pl. As.525; naves quae priorem partem exercitus eo deportaverant le navi che avevano trasportato colà il primo scaglione dell’esercito, Caes. civ.1.27.1 ~ in mare (o in altum) deportare gettare in mare (come pena di morte): Pl. Vid.fr.12; Liv. 31.12.8. – 2. riportare, ricondurre da un luogo in patria: Cic. Verr.1.61; non cognomen solum Athenis deportasse, sed humanitatem et prudentiam (so che) hai riportato da Atene non solo il soprannome (= di Attico), ma anche l’umanità e la saggezza, sen.1. – 3. deportare, esiliare: Plin. nat.7.36; Quint. 5.2.1. da Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti, IL – Il vocabolario della lingua latina, Lœsher Editore, Torino, 2019
[9] David P. Farrington, Understanding and preventing bullying. in Crime and Justice, n. 17, 1993, pp. 381–458, oltre a: Dan Olweus, Bullying at school: Basic facts and effects of a school-based intervention program, in Journal of Child Psychology and Psychiatry, n.35, 1994: 1171–1190
[10] Per «regime totalitario» ci riferiamo qui alla definizione che ne dà il politico e giornalista italiano Giovanni Amendola sulle pagine del quotidiano «Il Mondo» nell’edizione del 12 maggio del 1923: «[il totalitarismo è la] promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa» – cfr. Giovanni Amendola, Maggioranza e Minoranza, articolo su Il Mondo, 12 maggio 1923 ora pubblicato in Giovanni Amendola, La crisi dello Stato liberale. Scritti politici dalla guerra di Libia all’opposizione al fascismo, a cura di Elio D’Auria, Newton Compton, Roma 1974: 344-345
[11] citazione da Ugo Foscolo, Dei sepolcri in Donatella Martinelli (a cura di), Sepolcri – Odi – Sonetti, Mondadori, Torino, 1987: 150
[12] Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Corrado Bologni e Paola Rocchi, Lœsher Editore, Torino, 2019: 399.

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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale e fornisce consulenza su revisione dei processi decisionali, tecniche della contrattazione e gestione dei conflitti. Ha ottenuto il diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; successivamente ha proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Nel 2024 ha conseguito il diploma di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa con la tesi «Il controllo della Chiesa Cattolica sul corpo e sulle libertà delle donne come strumento per la rigenerazione del patriarcato: Venere e Imene al tribunale della penitenza» e concluso il percorso di Perfezionamento in Didattica della Shoah su un progetto dal titolo: «Quello che i libri non dicono e che è importante conoscere». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press ‘Intellettuali in fuga dall’Italia fascista’.

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