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Echi presenti di Anime assenti: ripensando con Laura Faranda il Mediterraneo antico

 copertinadi Marcello Mollica

Queste mie riflessioni necessitano di un caveat metodologico: più che dall’intenzione di una recensione, si originano infatti dalla mia partecipazione alla presentazione dell’ultimo libro di Laura Faranda, Anime assenti. Sul corpo femminile nel Mediterraneo antico (Armando, Roma, 2018), nell’ambito del Tindari Festival 2018, la sera del 4 agosto, presso Villa Pisani di Patti Marina. Un’occasione che mi ha legittimato ad avventurarmi oltre il testo, nelle suggestioni di un dialogo con un Mediterraneo antico che allude e incoraggia, ineludibilmente, a un ritorno all’oggi. Complice quell’incredibile scenario che corre sul Golfo di Patti tra l’imponente massiccio granitico-pegmatico noto come Capo Calavà (che si narra prenda nome dal tempio di Diana che vi era sulla cima a ponente) e il promontorio di Tindari a oriente, di fronte alle Isole Eolie, a pochi giorni dall’eclissi di luna più lunga del secolo, la sera del 4 agosto ho parlato rivolto a una platea interdetta, per circa mezz’ora, di loci, circostanze e contingenze che facevano riferimento al testo che stavamo presentando, ma che dal testo erano temporalmente staccati di almeno qualche migliaio di anni. In maniera concisa riprenderò qui alcuni di quei temi, traslandoli nel presente e mantenendomi fedele e infedele al tempo stesso ai luoghi di cui l’autrice parla o ha parlato in Anime assenti e in altri testi, a quest’ultimo propedeutici.

Laura Faranda non è nuova a studi sul mondo classico. Ma se da un lato i suoi lavori – a partire da Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica (1992) passando per Viaggi di ritorno: itinerari antropologici nella Grecia antica (2009), che rilegge narrative che riguardano la stessa Tindari – trattano direttamente di mondo antico, dall’altro, i suoi dialoghi con spazi e confini ‘mediterranei’ non eludono la prospettiva della contemporaneità, a cominciare dalla sua penultima pubblicazione, Non Più a Sud di Lampedusa: Italiani in Tunisia tra passato e presente (2016). Nella sua produzione scientifica riecheggia costante una parola che ritroviamo anche nel sottotitolo di quest’ultima opera: Mediterraneo. E tutti i suoi lavori sul mondo antico sono percorsi da una serie di domande ricorrenti, che anche in Anime assenti anticipano il viaggio che attende il lettore: è possibile deportare nel presente i modelli femminili mutuati dal mondo antico? Fino a che punto Penelope e Circe dialogano con la contemporaneità? In che misura il presente affiora tra le trame della loro operosità di tessitrici? A quali strategie seduttive le donne del Mediterraneo antico consegnano le regole di un desiderio che si prolunga nel presente, ora nella quieta certezza di un’appartenenza radicata nel cuore di una casa, di una famiglia, di una discendenza, ora nei naufragi inquietanti e nell’abbaglio di un’amante che rigenera e fa rivivere l’imago infantile della madre?

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La statua della Madonna di Tindari

Il testo si propone, così, come chiave di lettura possibile (e passibile di transiti contemporanei) del corpo femminile in una Grecia da intendere come uno dei luoghi di incubazione antropologica del pensiero mediterraneo. Dal corpo di una madre generativa a quello di una madre nutrice, dal corpo scomposto in “cristalli anatomici” (il seno e la vulva) a quello che si prolunga nell’eco di una voce, dal corpo verginale a quello di un’amante divina o di una santa martire: che li si declini al passato o che li si consegni al presente, che li si àncori alle metafore corporee di una madre o alle intenzioni pedagogiche di una patria, questi spazi simbolici, questi corpora sono buona parte del mondo di Laura Faranda. Né è un caso che io stesso avverta copiose le sovrapposizioni e le consonanze tanto temporali quanto topografiche tra i miei terreni di ricerca e i suoi lavori, con cui mi sono sovente confrontato, perché lei sa cose su loci di studio da me frequentati che io sconosco. Ed ancor più perché – e questa è forse la vera forza della nostra disciplina – l’ampio spettro d’azione della ricerca antropologica e la stessa varietà di motivi per cui ci si avventura in questi studi (dall’antropologia del mondo antico all’etnologia del Maghreb o del Medio Oriente, dagli orientalismi del passato alle etnografie del Mediterraneo contemporaneo) rendono concretamente impraticabile una metodologia condivisa, incoraggiano gli antropologi a leggere medesimi luoghi di studio, per non dire loci tematici, in maniera diversa, declinandoli e investigandoli con i più disparati strumenti di ricerca.

Chi come me si è formato fuori dall’Italia ed è approdato all’antropologia italiana solo negli ultimi anni, si è spesso imbattuto in discussioni inquietanti e non sempre fruttuose sulla promiscuità di alcune ‘aree geografiche’; e su queste stesse ‘aree geografiche’ ha ascoltato dibattiti di una virulenza pari a quella che si ritrova nei dibattiti sull’interdisciplinarità. Per quanto mi riguarda, ho sempre avuto il problema della Turchia e dell’est del Mediterraneo. Richiamo la Turchia (e per estensione tutta la costa di Levante del Mar Mediterraneo) che è per sua stessa natura terreno fertilissimo anche per Laura Faranda, perché i suoi repertori mitologici ne evocano spesso i luoghi (secondo un calco critico che si prolunga fino alla prima cristianità, che nella penisola dell’Anatolia praticamente nasce, sicché dire oggi che l’Occidente è anche frutto di quanto accaduto in quella penisola non può che corrispondere al vero).

Uno dei problemi che mi sono trovato ad affrontare è che l’area geografica che chiamiamo ‘Mediterraneo’– e che figura nel sottotitolo del testo di Laura Faranda, perché inscindibile dalla sua narrativa e da quella di molti dei suoi maestri – per molta antropologia non italiana, solo di recente è diventata oggetto di studio. Nel 1987 Michel Herzfeld scriveva che gli studi sul Mediterraneo erano limitatissimi, e taluni imputavano tale avarizia alle influenze geopolitiche sulla ricerca antropologica contemporanea (Prato 2007). Altri, ad esempio Christian Giordano (2001) e con lui quella parte di antropologi tedeschi che avevano fatto ricerche sul campo nel Sud Europa, sostenevano che forse conveniva con riferimento al Mediterraneo usare la nozione di ‘regione storica’. Secondo Fernand Braudel (1985) il problema era che il Mediterraneo non era uno spazio, o meglio una unità chiaramente definita, ma era un mosaico di società pluri-culturali che avevano vissuto in regime di prossimità per secoli. Braudel, quindi, sosteneva che identificazioni e contaminazioni erano il risultato di un permanente ‘effetto specchio’.

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Il ratto di Europa nel cratere di Asstea, IV sec. a.C.

Quando mi sono confrontato con la realtà mediterranea, lavorando nel Libano del Sud e nell’est dell’Anatolia, era soprattutto l’attuale Turchia che mi creava problemi di collocazione o di posizionamento accademico, ad esempio nella dialettica tra ‘regione storica’ e ‘area geografica’: la Turchia e, sia pur in maniera minore, la costa del levante del Mediterraneo, erano Europa o erano Medio Oriente? E per analogia, in cosa erano diverse, se lo erano, altre realtà mediterranee, a cominciare dalla mia Isola? E cosa erano tutte quelle linee, quei cippi confinari di cui nemmeno la nostra disciplina sembrava poter fare a meno?

Torniamo a Laura Faranda, e vediamo di capirci di più, abusando del suo mondo classico, prolungandolo con lei nei sincretismi cristiani, per meglio traslarlo nel presente.

Quando Laura Faranda pubblica Viaggi di Ritorno (2009) dedica importantissime pagine al territorio di Tindari. Si sofferma in particolare sulla leggenda di Donna Villa (figura sirenica antagonista della Vergine) e sul mito di fondazione della Madonna Nera. Tindari difatti, oltre che città greca e colonia romana, è anche luogo deputato di un culto mariano. Nel suo testo, il lavoro di scavo sul processo sincretico che legittima l’insediamento a Tindari di una Madre nigra sed formosa omette giocoforza quello iconografico sulla concreta fattura della statua, sulla sua provenienza, su cosa rappresenta oggi il transito anche geografico di quell’icona lignea raffigurante una donna-madre. Tuttavia, in termini di stratificazione culturale, quella statua di donna e madre ha un potere disarmante, un potere storicamente riconoscibile anche alla luce della sua manifattura, venuta a chiara luce dopo il restauro del 1995.

Seguendo le indicazioni dell’ex direttore artistico della diocesi di Patti Giovanni Bonanno (1996; vedi anche Mollica 2000) si giunse a queste conclusioni: l’autore era un maestro di origini francesi, che visse in Medio Oriente probabilmente al seguito dei crociati (quindi forse anche lui come crociato), e che poté operare nella città di Tartus. Perché Bonanno suggerisce proprio Tartus? Perché a Tartus c’era una imponente cattedrale mariana. Bonanno scrive prima dell’attuale guerra che dal 2011 sta crocifiggendo la Siria. Tartus, che sorge sulla costa a sud di Latakia, la vecchia Laodicea, è oggi in piena terra alauita (gruppo religioso cui appartiene l’attuale Presidente della Repubblica Araba Siriana), dove si sono rifugiati numerosissimi cristiani; è anche sede dell’unica base navale russa in Mediterraneo, ovvero motivo che di quel conflitto contribuisce a dettare le dinamiche almeno dal 2013. Tornando all’artista che scolpisce la statua della Madonna nera, è stato accertato in fase di restauro che abbia utilizzato il materiale del luogo in cui si trovava (ovvero un tronco di cedro del Libano) adattandolo alla tecnica appresa in patria (ovvero lo svuotamento dello stesso tronco, come si praticava nel sud della Francia): un perfetto mix culturale, realizzato miscelando la scuola costantinopolitana con tecniche mediorientali. Il copricapo della statua era a mo’ di turbante, il che rimandava al mondo egiziano (ovvero copto), ma i tratti del volto erano ispirati indiscutibilmente a una donna siriaca, mentre nelle vesti coesistevano elementi bizantini, fenici, latini e arabi: un unicum scultoreo che univa Oriente e Occidente, solcando le acque di un mare che dalla fenicia Tiro giungeva al porto franco di Marsiglia passando per Messina.

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Agata martire

Lo stesso mare attraversato nel mito greco da una fanciulla di nome Europa, rapita da Zeus sulle coste di Tiro, sedotta e poi condotta a Creta, dove sposerà il re dell’isola. Nell’icona di una Madonna, in una giovane Europa che diventa figura retorica di un Vecchio Continente, nel corpo mirabile di Agata, vergine e martire di una cristianità di matrice orientale o nelle madri senza nome che viaggiano sui barconi della morte continua a rispecchiarsi un Mediterraneo metastorico, antico e contemporaneo, assente e presente: lo stesso che Laura Faranda evoca non certo come esercizio semantico nel sottotitolo di un libro che parla di donne.

Anime assenti, anime migranti, anime di donne anonime del presente come del passato: quelle anime, ad esempio, che mai avrebbero pensato di interessare l’uditorio occidentale quando vestivano di rosso i loro bimbi perché il colore vivace di quelle vesti ne aumentava le possibilità che i soccorritori li potessero intercettare, se fossero caduti in mare. Alle madri di quei bimbi, la retorica di un’Italia che sul colore di quelle magliette lo scorso luglio ha contribuito ad accendere nuove polemiche politiche non interessava; il colore rosso delle vesti era scelta obbligata, per cercare di salvare la vita dei loro bimbi, cosa che qualunque madre avrebbe fatto.

Ciò mi porta a richiamare l’elemento unificante della nostra disciplina, l’antropologia, la cui sfida più impegnativa resta quella di far affiorare il presente dal passato o di onorare quel passato che ci aiuta a comprendere le realtà magmatiche del presente; operazione tutt’altro che semplice, a volte ostica e divisiva e non solo a cagione della sua implicita drammaticità, ma per le intenzioni di verità che muovono e orientano il nostro sguardo sull’altro.

Quindi, fino a che punto la Penelope e la Circe di Laura Faranda stanno dialogando con il contemporaneo? Chi ammalia oggi e chi oggi tesse e scuce? Di chi è, oggi, quel capezzolo che fu fonte di vita e che come estrema ratio venne mostrato da Clitemnestra agli occhi di un figlio per fermarne le volontà omicide? Quanto possiamo traslarlo alle nostre realtà? O meglio cosa di quell’immagine possiamo traslare?

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Il corpo mutilato di Barin Kobani, combattente della milizia curda, Unità di Protezione delle Donne, uccisa a febbraio del 2018 nel villaggio di Qurn

Quando Laura Faranda narra del corpo femminile c’è un chiarissimo focus tematico che la sostiene: non usa subordinate, è puntuale, e nella sua narrativa il corpo di donna è un corpo che genera, che resiste. In un coinvolgente capitolo che l’autrice dedica alla carnalità, alla fisicità del corpo, ho ad esempio rivisto la stessa resistenza magnificata qualche mese fa nel corpo di una mia studentessa, che tra un centinaio di colleghe e colleghi aveva necessità di allattare il proprio bimbo e che però non voleva perdere le lezioni intensive che avevamo concentrato in ben quattro ore al giorno per dodici giorni: si trattava del corso di Antropologia Culturale destinato al percorso di Formazione Iniziale e Tirocinio (altrimenti noto come FIT) per accedere all’insegnamento. In quella coppia esemplare (una giovane donna che aspira alla dignità di un lavoro e un figlio da allattare) ho visto rivivere tutta la fatica storica di un universo femminile impegnato a difendere il principio di natalità, anche in condizioni proibitive, anche quando le guerre del presente ci deportano negli orrori di un mare monstrum mediterraneo.

Mi sono chiesto, tornando alla Turchia ed alla Siria, se quella giovane madre non condividesse le stesse radici di resistenza delle miliziane curde che l’Occidente aveva lodato e venerato e persino cantato, quando combattevano a Kobane, uniche formazioni paramilitari di donne; quando il mondo intero aveva scordato che erano marxiste, perché improvvisamente divenute eroine sia per la Russia che per gli Stati Uniti e per il mondo cristiano, perché in prima fila contro i terroristi dello Stato Islamico; perché si vuole che per un salafita-jihadista non ci sia cosa peggiore che essere ucciso da una donna e per di più atea. Poi, quello stesso mondo che le aveva lodate le ha velocemente dimenticate, svendendo i loro corpi, le loro anime assenti e il loro territorio (nominalmente siriano) alla Turchia. È successo nella prima metà del 2018, nell’enclave curda di Afrin, che è più a ovest di Kobane, che sfiora il vecchio Sangiaccato di Alessandretta, Iskenderun, che è accanto a quella che fu la radice del cristianesimo, Antiochia, dov’era anche il boschetto di Dafne, il bosco dell’alloro.

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Donne migranti sbarcate ad Augusta (ph. Lapresse Reuters, da Il Manifesto)

I curdi siriani hanno accusato i cosiddetti “ribelli moderati” – che inglobavano anche componenti qaediste e salafite, sostenuti dalla Turchia – di aver mutilato e poi filmato i corpi di quelle combattenti, esibendoli con i seni amputati disposti a fianco dei loro cadaveri. A distanza di secoli, il martirio di Agata, una delle sante più venerate nel nostro Sud, rivive sui corpi eccentrici di altre donne, anime assenti e dimenticate di un Mediterraneo in cui le madri continuano a piangere i propri figli: né va dimenticato che la prima maglietta rossa era quella del bimbo Aylan, anch’egli nativo della curda Kobane, morto spiaggiato sulle coste turche nel settembre del 2015. Solo che Aylan era morto quando la retorica politica non aveva ancora toccato l’Italia, morto quando tutto lo spettro politico italiano, comprese le sue frange estreme, piangeva quella vita perché spiaggiata altrove, non da noi.

Corpi naufraghi, tra mondo antico e civiltà dell’oggi, tornano nelle pagine di Anime assenti, anche sotto forma di ospiti, evocando una xenia senza phobos, un principio di ospitalità che non ammette paure. Anche l’Ulisse omerico (nel testo di Laura Faranda comparsa) ritorna come straniero nella sua Itaca; torna nella sua isola dov’è anche Penelope (nel testo di Laura Faranda protagonista) e ci torna, appunto, da ospite sgradito e oltraggiato. E per me che lo guardo come ombra di un presente che torna, diventa rilevante l’ira divina che si scatena proprio per aiutare l’Ulisse ‘straniero’, straniero a casa sua. Fino a quel momento, infatti, gli dei non sembravano troppo coinvolti nelle trame dell’odissea del protagonista: ma quando lo straniero è offeso si scatenano, rendendolo praticamente imbattibile, permettendogli una carneficina di proporzioni epiche.

Dileggiare lo straniero legittima infatti la vendetta divina: dileggiare l’ospite, lo straniero è un gesto sacrilego inaccettabile. Lo sanno bene anche i pellegrini di Tindari, che narrano ancora oggi l’ira divina di una Madonna nera oltraggiata da una donna insensibile al rispetto che esige la sua veneratissima icona in cedro del Libano, la sua anima migrante, col suo volto bronzeo, anzi siriaco, di donna e madre insieme.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Riferimenti bibliografici
G. Bonanno (a cura), Nigra sum sed formosa, Santuario del Tindari, Tindari, 1996.
F. Braudel (a cura), La Méditerranée. L’espace et l’histoire, Flammarion, Parigi, 1985.
L. Faranda, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica, Jaka, Vibo Valentia, 1992.
L. Faranda, Viaggi di ritorno: itinerari antropologici nella Grecia antica, Armando, Roma, 2009.
L. Faranda, Non più a Sud di Lampedusa: Italiani in Tunisia tra passato e presente, Armando, Roma, 2016.
C. Giordano, Europe: Sociocultural Overview. International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, Oxford: Pergamon, 2001, 7: 4917-23.
M. Herzfeld, Anthropology Through the Looking Glass: Critical Ethnography At The Margins Of Europe, Cambridge: CUP, 1987.
M. Mollica, Dalla Città Greca al Culto della Madonna Nera, Siciliano, Messina 2000.
G. Prato, Antropologia del Mediterraneo: dalla ricerca dell’esotico alla ricerca dell’urbano, in ‘Il Mediterraneo. Dalla Natura alla Cultura’, B. Chiarelli e S. Vinicio (a cura), Pontecorboli, Firenze, 2007: 143-159.
Sitografia
https://www.theguardian.com/world/2018/feb/02/syrian-kurds-outraged-over-mutilation-of-female-fighter [10.08.2018]
https://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/barin-kobani-kurdish-fighter-video-female-fighter-body-mutilated-a8194261.html [10.08.2018]
http://www.libera.it/schede-557-magliette_rosse_un_onda_di_umanita_ha_travolto_intero_paese [10.08.2018]
https://www.corriere.it/foto-gallery/politica/18_luglio_07/maglietta-rossa-migranti-contro-l-emorragia-umanita-c1a004b6-81c7-11e8-a063-c48368df153e_preview.shtml?reason=unauthenticated&cat=1&cid=lgZVIFtE&pids=FR&origin=http%3A%2F%2Fwww.corriere.it%2Ffoto-gallery%2Fpolitica%2F18_luglio_07%2Fmaglietta-rossa-migranti-contro-l-emorragia-umanita-c1a004b6-81c7-11e8-a063-c48368df153e.shtml [10.08.2018]
https://www.huffingtonpost.it/2018/07/07/salvini-ironizza-sulle-magliette-rosse-in-memoria-dei-bambini-morti-in-mare_a_23476725/ [10.08.2018]
https://www.corriere.it/foto-gallery/esteri/15_settembre_07/da-dove-scappava-aylan-kurdi-45137808-554a-11e5-b550-2d0dfde7eae0_preview.shtml?reason=unauthenticated&cat=1&cid=GxCjHlfW&pids=FR&origin=http%3A%2F%2Fwww.corriere.it%2Ffoto-gallery%2Festeri%2F15_settembre_07%2Fda-dove-scappava-aylan-kurdi-45137808-554a-11e5-b550-2d0dfde7eae0.shtml [10.08.2018]
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Marcello Mollica, ha conseguito un dottorato di ricerca in Scienze Sociali dall’Università di Leuven (2005) e un Dottorato Europeo Enhancement in Peace and Conflict Studies (2007). Attualmente è professore associato di Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università di Messina. I suoi interessi di ricerca vertono su violenza religiosa e politica, minoranze etno-religiose, mobilitazione politica. Ha condotto lavori sul campo in Irlanda del Nord, Libano, Territori occupati, Turchia orientale, Caucaso meridionale e Sicilia.
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