Eva è un’anziana signora che passa le sue giornate dietro i vetri di una finestra ad osservare la vita degli altri. Le scorrono davanti le storie di famiglie di un condominio, abitato nei piani alti da italiani e nei sordidi sottoscala da profughi afgani, pakistani e siriani. Eva soffre di alzheimer, paradossalmente ha perso la memoria di sé nel tempo presente ma profeticamente presentifica il suo passato di sopravvissuta al campo di concentramento nazista. E confondendo il presente col passato, l’esperienza vissuta nel lager di Auschwitz – i rastrellamenti, le peripezie, la fame e le violenze – con le vicissitudini dei migranti – le loro traversìe e gli espedienti per sopravvivere, le vite sequestrate nella clandestinità, le privazioni dei bambini – offre la chiave di lettura più lucida per capire quanto oggi sta accadendo, non solo davanti a noi ma soprattutto dentro di noi. «Perché i bambini? Perché tutto questo?» si chiede nella generale indifferenza, mettendo insieme immagini di uno spazio e di un tempo diversi, in un toccante flashback narrativo.
Eva è personaggio protagonista di un romanzo fresco di stampa, Legittima offesa, di Paolo De Angelis, in cui si raccontano, attraverso le vicende di un condominio, le conflittuali dinamiche della profonda crisi collettiva che sta attraversando il nostro Paese, i disagi urbani dell’abitare e le aspre tensioni del convivere, gli umori e i malumori degli italiani che – nel racconto ma anche nella realtà quotidiana – ripetono espressioni come questa: «Qui non c’è spazio per tutti», e in queste parole c’è molto dello spirito pubblico e dello stato d’animo del nostro tempo. Lo spazio come terra e suolo da proteggere, più trincea che riparo, beni e proprietà da difendere, sangue e appartenenza da rivendicare.
Ancora una volta la letteratura, che è eminentemente finzione, immaginazione, invenzione e artificio, sa restituirci come in uno specchio concavo un’immagine riflessa di noi, della realtà in cui siamo immersi, di quel mondo che ci aiuta a guardarci vivere, a conoscere meglio chi siamo o cosa stiamo diventando. Eva che ricorda drammatiche schegge del suo passato è una dolente e involontaria testimone del nostro presente, incarnazione della memoria collettiva che al di là dei fumi e delle nebbie della cronaca intravede lo scandalo della Storia, le deportazioni che si nascondono nelle migrazioni forzate, il genocidio dei tanti senza nome inghiottiti dal mare, le vittime della più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi, i rischi sempre più evidenti della deriva autoritaria e xenofoba. Quel condominio è metafora del nostro Paese, incattivito, impaurito, intossicato dai veleni di una retorica securitaria che sconfina nel cinico nazionalismo e nel più violento razzismo, anche se si continuano ad usare ipocriti eufemismi e pietose perifrasi. Cosa c’è infatti dietro il “prima gli italiani” se non la torsione di un’Italia ripiegata su se stessa, imbozzolata nei suoi egoismi, nella sua presuntuosa e incestuosa endogamia? Cosa c’è dietro il “basta buonismi” se non l’invito a mettere sotto accusa i valori di civiltà e di solidarietà, gli atti umanitari percepiti come colpa o reato, l’incitamento a stigmatizzare le diversità – siano migranti o ambulanti, Ong o rom – per legittimare le disuguaglianze e le risoluzioni più ciniche, fino a giustificare campieri, caporali e camorristi nei ghetti africani delle campagne, squadristi, cecchini e fanatici del sovranismo nelle degradate periferie delle città?
Quel che temevamo è ormai accaduto. La minoranza rumorosa ma poco numerosa è diventata maggioranza populista e popolare, in un impressionante crescendo di audience, di consensi e di approvazioni, di condivisioni, di “mi piace”. Rotti gli argini dell’imbarazzo e del pudore, irrompono i cattivi sentimenti, i rancori, il disprezzo, il dileggio, la prontezza e l’unanimità degli applausi di una claque che accompagna ogni irrisione del diverso, ogni truce dichiarazione, ogni battuta, anche la più becera e volgare. Non c’è nulla di più inquietante di questo popolo plaudente a parole d’ordine usate come manganelli e discorsi che fanno venire i brividi e rianimano i fantasmi di quanto abbiamo rimosso della nostra storia nazionale: schedature, pulizie etniche, le culture fondate sui rovinosi meccanismi del capro espiatorio che preparano la cancellazione dei diritti e l’eutanasia delle democrazie. Nulla di più umiliante del senso di sopraffazione diffuso dal lessico eversivo di chi abusa delle istituzioni nella generale assuefazione a questo paesaggio umano e culturale sempre più arido e greve. Nella risacca in cui siamo arenati, ci stiamo abituando a tutto. Anche alla chiusura dei porti che è l’immagine paradigmatica del fronte militare che abbiamo sostituito alla politica, del pericoloso clima di scontro e di isolamento in cui siamo entrati, dell’acre odore di guerra che avvertiamo nell’aria, dell’onda nera che sale mentre combattiamo contro le navi che salvano le vite umane.
In questo contesto i migranti sono ostaggi in balìa del mare e dei giochi diplomatici, inconsapevoli strumenti di negoziazione e di ricatti, masse di manovra e di squallida e perenne propaganda elettorale. A guardar bene, il nostro rapporto con questi uomini, donne e bambini che s’imbarcano per sfuggire al loro destino fiduciosi nell’Europa dell’umanesimo e del diritto, del Cristianesimo e dell’Illuminismo, costituisce un banco di prova del nostro destino, del nostro senso di riconoscibilità nella medesima comunità umana. L’evaporazione della pietas è forse il segnale più evidente della china che stiamo lentamente scendendo. Se lo chiede Tommaso India che in questo numero scrive: «Per qualche giorno mi sono chiesto: “Quando abbiamo smesso di essere umani?” Adesso ho capito che abbiamo smesso di esserlo nel momento in cui abbiamo rinunciato all’idea di complessità; nel momento in cui abbiamo cominciato a tirare linee dritte e nette e a decidere chi deve stare dentro e chi fuori (…). Abbiamo smesso di essere umani nel momento in cui abbiamo scordato la nostra storia nella storia dell’Altro».
Fin dal primo numero Dialoghi Mediterranei si interroga sull’antropologia della crisi che attraversiamo, sul rarefarsi del nostro sentimento di appartenenza ad un comune orizzonte mediterraneo, sulle dinamiche culturali che stanno sfilacciando il tessuto connettivo del nostro sistema di convivenza, l’intima trama della memoria collettiva. Nel dibattito pubblico che abbiamo fin qui promosso attraverso i vari contributi pubblicati in rete, ci ha sempre sorretto l’intuizione che le migrazioni non sono effimere contingenze ma fenomeni di lunga durata destinati a modificare equilibri e innescare processi strutturali di profonda trasformazione. Il migrante abita nel cuore della postmodernità, nei punti di snodo della globalizzazione. Da qui l’apporto fondamentale che l’antropologia e le scienze sociali possono dare alla comprensione dei flussi e alla interpretazione del loro impatto nei contesti sociali e culturali. Umanizzare gli individui che chiamiamo profughi o clandestini, farli uscire dall’ombra delle categorie etniche in cui siamo soliti occultarli e oscurarli, raccontare le loro storie e le loro vite, sono alcuni degli obiettivi che ci siamo dati per contrastare le paure e decostruire le rappresentazioni convenzionali nonché le ambigue narrazioni che alimentano retoriche, pregiudizi e contrapposizioni. Tanto più che nella contingenza attuale gli antropologi sono chiamati a mobilitarsi per una battaglia culturale contro ogni discriminazione su base etnica e ogni riferimento a presunte prerogative razziali. In questa direzione si sente impegnata la redazione di questa rivista che si è associata alla petizione a difesa dei diritti costituzionali promossa da un gruppo di docenti dell’Università di Bologna.
Anche in questo numero Dialoghi Mediterranei dedica particolare attenzione alle migrazioni, osservate e descritte sotto profili diversi e prospettive inedite: riflessioni su commistioni linguistiche e su pluralismi e sincretismi religiosi, storie di vita e memorie storiche dei nostri antenati a New York, le drammatiche diaspore nel Myanmar per effetto delle disastrose eredità postcoloniali, le esperienze culturali di accoglienza a Bologna, le politiche della immigrazione in uno studio di tipo comparativo. La ricerca fotografica si conferma centrale in molti dei contributi in cui le immagini hanno uno spazio privilegiato e una loro autonomia formale e semantica. Questo potente strumento di conoscenza entra in dialogo con i testi e li risignifica. La parola precede e segue l’immagine e insieme sembrano essere ordito e trama di un unico tessuto sottile e robusto, un vero e proprio cortocircuito verbovisuale, in perfetta consonanza di etica ed estetica.
Così è in Aldo Belvedere che reinterpreta il Mediterraneo rintracciando i segni che gli Arabi hanno lasciato in Sicilia. Così in Ninni Pecoraro che ha documentato nei suoi preziosi scatti degli anni sessanta frammenti di vita quotidiana all’interno della medina di Mazara del Vallo, dove l’arabo dei tunisini di Mahdia si mescola col dialetto siciliano e l’italiano dei locali in un originale e affascinante ibridismo, come ha ben dimostrato Luca D’Anna nel suo contributo. Così in Nino Privitera che ha raccolto come in un inventario le diverse banderuole che sormontano case e chiese e la loro sequenza di forme e figure si dispiega e si incrocia con il testo di Luigi Lombardo che ne illustra gli usi e i significati. Così è in Kevin Frayer, autore di uno straordinario reportage sui Rohinga in fuga, che restituisce con l’efficacia del bianco e nero la brutale violenza di cui è vittima questo popolo: non potevano esserci immagini più potenti e coerenti a quanto scrive Valeria Dell’Orzo sulla tragedia di questa minoranza perseguitata. Altra visione fotografica è quella di Licia Taverna che nello strappare l’istante al divenire traduce in un ineffabile scatto sospeso tra l’occhio sul mirino e la mano sul clic il suggestivo e originale percorso antropologico di Stefano Montes. Ancora diverso è il racconto per immagini di Silvia Pierantoni che fotografa e scrive di ciò che fotografa in una sorprendente teoria di primi piani, di dettagli che trasformano il banale e usuale delle piazze di Roma in piccole ed epifaniche scoperte. E ancora Mariano Fresta e Chiara Sebastiani hanno cura di rendere visibili agli occhi con gli scorci e le prospettive delle loro istantanee i luoghi che percorrono e descrivono: le strade strette e i piccoli slarghi di Pontito, i quartieri, i graffiti e i tetti di Tunisi. Non diversamente i primissimi piani eseguiti da Luca Musso esplicitano ed esaltano nei suoi tratti più minuti la bellezza delle scene istoriate sulla zucca peruviana di cui scrive Sebastiano Burgaretta.
È appena il caso di sottolineare la grande forza documentaria e la rilevanza etnografica contenute nelle immagini di Jacob Riis che Flavia Schiavo ha recuperato per accompagnare la sua ricerca sulle storie degli immigrati a New York e sugli interni delle loro abitazioni: sono alcune delle fotografie del report How the Other Half Lives. Studies among the tenements of New York, pubblicato nel 1890, in cui l’autore denuncia «lo stato di disagio dei poveri e dei lavoratori più fragili socialmente, mettendo in luce soprattutto le condizioni di vita dei migranti in Lower East Side». Ricostruisce infine per fotogrammi le sue esperienze professionali Salvatore Piermarini, un fotografo «curioso, onnivoro, investigatore e dialogante», come lui stesso si definisce, un autodidatta attento al mondo del lavoro e al rapporto dell’uomo con il paesaggio. «Non ero e non sono alla ricerca di zone esotiche, ma di evidenze emarginate e silenziose con storie nascoste, minime o anche gloriose: una fascinazione declinata nella rappresentazione minuta della scena, dal totale al particolare». Da qui anche il suo interesse e la sua poetica sensibilità per i luoghi dell’abbandono, le aree terremotate e i piccoli paesi spopolati. Tema questo particolarmente caro a Pietro Clemente che non si stanca di promuovere e coordinare il dibattito intorno al futuro delle comunità svuotate dalla emorragia dei giovani, nella convinzione che alle dinamiche di ripopolamento si connette il destino della stessa democrazia che «sta più che altro in una tendenza minuscola sul piano dei numeri a rivitalizzare, a produrre attenzione e riconvertire processi dati per irreversibili, con un fare ancora molto plurale e diversificato, che non si esprime ancora in forme complesse di governo del territorio, ma tenta reti, scambi, attivazioni».
Con un orizzonte sempre aperto agli scenari dell’attualità, Dialoghi Mediterranei offre ancora una volta in questo numero ricognizioni e ragionamenti su quanto accade, tra Iran, Tunisia ed Egitto, nel mondo islamico e in quello arabo. E tra letture di libri, riviste e riflessioni su scrittori, politici, artisti, filosofi, pescatori e cantastorie non perde mai di vista il Mediterraneo. Quel Mediterraneo a cui con costanza e lungimiranza guardava Giovanni Tumbiolo, il presidente del Distretto della Pesca che ci ha lasciato appena due settimane fa. Giovanni possedeva l’arte paziente della mediazione, la grazia dell’umana e fraterna cordialità, la sensibilità intuitiva e creativa degli inventori, avendo fondato dal nulla il Consorzio siciliano per la valorizzazione del pescato e ideato e promosso il Blue Sea Land Expo, una grande manifestazione di richiamo internazionale ispirata al suo forte impegno nella costruzione del processo di cooperazione, di incontro e di pace tra i popoli. Con la prematura scomparsa di questo nobile interprete del valore etico e civile del dialogo, la Sicilia ha perduto un uomo intelligente e visionario, la città di Mazara del Vallo uno dei suoi ambasciatori più autorevoli, l’Istituto Euroarabo un sincero amico e sostenitore. Dialoghi Mediterranei lo saluta con rispetto e con rimpianto.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
Grazie per aver affrontato con tanta consapevole lucidità il complesso problema che ci interpella con forza in questo momento e continuerà a farlo in futuro. E grazie per le belle parole in ricordo di Giovanni Tumbiolo di cui piangiamo la prematura scomparsa.