Aveva ragione Albert Camus quando scriveva che «dalle coste dell’Africa dove sono nato si vede meglio il volto dell’Europa. E – aggiungeva – si sa che non è bello». Non diversamente ha ragione Pietro Clemente che ribadisce in questo numero come nei precedenti che «Il centro è in periferia», che dall’osservatorio decentrato dei piccoli paesi si può capire meglio lo stato di salute dell’Italia, le dinamiche di cambiamento che l’attraversano, le prospettive che si prefigurano. Non è forse vero che mettendo insieme quanto accade a Macerata e a Lodi, a Partinico e a Brindisi, a Vibo Valentia e a Moncalieri, e quotidianamente in molti altri centri delle province della nostra penisola, si possono leggere in tutta evidenza i segni della regressione sociale e civile, l’insofferenza nelle relazioni della convivenza, il risentimento degenerato e organizzato in sovversione squadrista, quella «fascistizzazione del senso comune» di cui ha recentemente parlato la senatrice a vita Liliana Segre? Non è meno vero tuttavia che, mettendo insieme le esperienze di Lampedusa, Aliano e Riace, e di altri piccoli oscuri comuni, dove si attuano e si sperimentano forme e strategie originali di rispettosa accoglienza e di umana solidarietà, si possono trarre le ragioni di una speranza, di una resistenza anche creativa, dell’ammutinamento di abitanti e intere collettività di una Italia minore ma forse non del tutto minoritaria.
Non si può non cominciare da Riace, luogo diventato simbolico di tutte le contraddizioni del nostro presente, orizzonte in cui sembrano dispiegarsi e coagulare le parole, i pensieri e i gesti di ogni ragionamento politico, di ogni discorso pubblico, di ogni dibattito culturale. Perché Riace, avendo ospitato e inverato un modello di accoglienza risolto nella partecipazione collettiva al bene comune, ha sollevato la reazione politica di chi alla commistione oppone il suprematismo bianco, alla contaminazione l’epurazione, alla condivisione il primato degli italiani. In questa paranoica contrapposizione c’è qualcosa che richiama un lessico di guerra, un linguaggio da rappresaglia, da sadica vendetta, da feroce ritorsione: la legge che si mette contro la giustizia, il potere armato contro la comunità disarmata.
Che la portata dell’esperienza di Riace trascenda la dimensione puramente locale e significhi molto di più del semplice destino del piccolo centro calabrese è confermato dal livello esacerbato e violento dell’intento punitivo e repressivo, spintosi tra vincoli e ricatti fino all’esilio del sindaco e alla minaccia della deportazione degli immigrati. Straordinaria macchina di esecuzione giudiziaria e politica a fronte di uno straordinario esempio di vitalità e visibilità della convivenza possibile tra uomini e culture diverse dentro uno spazio pubblico non più inquinato dalle intermediazioni mafiose né dai rovinosi effetti della propaganda xenofoba. A Riace si è (era) promosso e compiuto quel processo di ripopolamento urbano non solo grazie alla presenza dei profughi venuti dal mare ma anche e soprattutto attraverso la realizzazione di un autogoverno democratico di legami sociali e di diritti e doveri di una cittadinanza basata non sull’appartenenza etnica ma sull’ampia sensibilità civica, sul ritrovato sentimento dei luoghi, sullo spirito di elezione e di cura del patrimonio collettivo. Qui sembra essersi materializzata quell’idea di democrazia auspicata da Pietro Clemente, ovvero «un modo di condividere e partecipare completamente diverso da quello della rappresentanza politica», «il capovolgimento del paradigma progressista industrialista e urbanocentrico», l’immagine compiuta del paese dove è possibile identificare i segni di quel cambiamento che «rovescia il modello economico e sociale centralista dei due rivali: ‘neoliberismo’ e ‘soggetto antagonista’, a favore del processo che chiamiamo ‘porre il centro in periferia’».
Alla comunità di Riace sono dedicati in questo numero di Dialoghi Mediterranei ben due contributi. Di «straordinario laboratorio di comunità cosmopolita» scrive Giovanni Cordova, il quale definisce l’esperienza realizzata non un’utopia ma piuttosto un’eterotopia «per indicare quei luoghi completamente differenti da tutti gli altri, carichi di una capacità di contestazione mitica e reale dello spazio ordinario in cui la vita normale, quotidiana, si snoda». C’è in realtà una forza simbolica indomita, fuori dal comune, alla base del progetto culturale che Mimmo Lucano ha concepito, un capitale dell’immaginario collettivo che ispirato all’eredità della Magna Grecia riconduce al sogno di Tommaso Campanella che da quelle parti ha edificato la sua Città del Sole. Del resto, per fondare o rifondare una città occorre un mito, una credenza, una narrazione, e Riace aveva trovato nei nuovi abitanti e nei nuovi nati i soggetti fondatori, gli interpreti di storie differenti, i protagonisti della rinascita. Cordova sottolinea l’autosufficienza del borgo calabrese sostenuta da una rete di microeconomie che «conferisce a tale modello politico una certa connotazione post-sviluppista, essendo integrato in un orizzonte di autogoverno o di governamentalità dal basso, sganciato dal modello ‘progetto’ e dalla sua grammatica di investimenti/ritorni a breve termine, reporting, rendicontazione, imperativi burocratici».
Sotto un altro aspetto etnografico Nicoletta Malgeri raccoglie alcune voci del paese che ne ricostruiscono l’identità e la memoria. Affiora dalle testimonianze il ricordo della notte d’estate del’98 quando giunse sulle coste un veliero con a bordo 66 uomini, 46 donne e 72 bambini curdi. I soccorsi prontamente e spontaneamente approntati in una gara di solidarietà tra gli abitanti hanno trasformato il destino del paese fantasma, dove – dichiara Angela, una giovane del luogo – «faceva quasi paura vedere quelle case vuote le cui finestre sbattevano per un filo di vento», in un centro vivo dove l’apertura delle abitazioni degli emigrati offerte agli immigrati rinnova «una storia – afferma Mimmo Lucano – che si collega al patrimonio più prezioso delle nostre comunità, disponibili verso i viaggiatori. Un’usanza antica di ospitalità: Prego trasìte». Tanto più che, a guardar bene nelle dinamiche di Riace come di moltissimi altri paesi, il problema è l’emigrazione dei giovani e non l’immigrazione degli stranieri che rappresentano risorse ed energie umane destinate a rianimare e rivitalizzare i luoghi abbandonati.
Il centro è in periferia, anche ad Aliano, piccolo borgo lucano (meno di mille abitanti), che in occasione del festival “La luna e i calanchi” promosso da Francesco Armini si popola di migliaia di giovani e di persone che «condividono un’esperienza rivoluzionaria, nella sua banalità: lasciare che un piccolo paese periferico e difficile da raggiungere, dimenticato dalla politica e dalla fiumana della società, diventi un grande centro di propulsione culturale, in cui la collettività esprime sé stessa, al di fuori delle convenzioni sociali e culturali». Così scrive Cinzia Costa in questo numero e aggiunge: «Chi resta, chi torna, chi arriva ad Aliano, lo fa con un rispetto del luogo e del paesaggio, completamente differente da quello del turista. È una devozione al luogo, che si fa coscienza civica, dal forte peso politico, e che, richiamando l’attenzione dei centri, delle metropoli e del vortice dell’economia invisibile, dei grandi palazzi della finanza, vuole riportare in luce i piccoli gesti concreti del quotidiano, che diventano l’unica vera rivoluzione in atto nel Meridione, che in silenzio ha sempre operato: passeggiare, impastare il pane a mano, sorridere, ascoltare un anziano che racconta storie, leggere una poesia, riscoprire una ricetta antica».
Questa Italia minore, lontana dai capoluoghi e dalle metropoli, dimenticata e povera eppure feconda di storia e di civiltà, questo Mezzogiorno che ha conosciuto cicliche catastrofi naturali nello sfortunato e storico sfasciume pendulo sul mare per richiamare l’espressione di Giustino Fortunato, questo pezzo del nostro Paese è lo stesso che ospita i profughi nei cosiddetti SPRAR, lo stesso che offre spesso esempi di accoglienza a misura umana, lo stesso che assicura nella dimensione locale e nelle strutture di piccola scala i complessi percorsi dell’inclusione e della civile convivenza. Sul modello prodotto dal Sistema Richiedenti Asilo e Rifugiati, oggi in procinto di essere smantellato, Carolina Galli articola un’analisi puntuale e documentata, nei dati e nelle attività gestionali, anche attraverso il confronto con i Centri di Accoglienza Straordinari, i CAS che sono emergenziali e come tali soggetti a infiltrazioni criminali e sottratti ad una rendicontazione più dettagliata, a danno della sostanziale qualità dei servizi. «Investire sul sistema straordinario – osserva Galli – significa avere un sistema meno regolamentato e controllabile in termini di gestione e minimi standard qualitativi, ma significa soprattutto alimentare quegli ambienti che potenzialmente possono portare le persone che lì vivono a sopravviversi in stato di malessere, avendo conseguenze psicologiche, coltivando sentimenti di rabbia e di emarginazione».
La filosofia politica espressa attraverso ripetute ordinanze e recenti leggi sulla sicurezza è chiaramente orientata in direzione opposta: tende a restringere i diritti di protezione umanitaria e a raddoppiare i tempi della detenzione amministrativa nei Centri per il rimpatrio, produce clandestinità e riproduce paure, uno stato permanente di marginalità sociale e un clima di insicurezza su cui è facile speculare. Quasi a voler scientificamente incrementare il numero di quanti – espulsi sulla carta e abbandonati per strada – dormiranno sotto i viadotti, lavoreranno in nero nei campi, si arrangeranno con lo spaccio delle droghe o si prostituiranno. Come non interpretare tutto questo come scellerata strategia di una politica di dichiarata discriminazione etnica, forme ribalde e gaglioffe di un razzismo che stigmatizza e punisce i vu cumprà e non si fa scrupolo di imporre l’obbligo di chiusura entro le ore 21 ai soli negozietti gestiti da immigrati, qualcosa che ricorda l’interdizione fascista degli esercizi commerciali “ebraici”?
Dialoghi Mediterranei dà conto di quanto profondamente “altra” possa essere la politica di gestione dell’immigrazione. Così in Canada, dove – scrivono Pittau e Vacaru – «si confrontano il multiculturalismo a livello federale e l’interculturalismo nel Quebec». Così in Germania e Gran Bretagna con normative di legge sicuramente più garantiste, come si desume dallo studio comparativo compiuto da Shkelzen Hasanaj. Così infine e paradossalmente in un contesto di estrema povertà, in Uganda, che è il Paese con la più alta densità di rifugiati in rapporto alla popolazione, dove il sistema di accoglienza e di protezione è ancora rispettoso dei diritti umani, come ha dimostrato nella sua ricerca sul campo Luca Jourdan, che spiega l’assenza di conflittualità con l’atteggiamento di apertura e di tolleranza promosso dal governo, una posizione «riconducibile agli ideali panafricanisti che ancora innervano la sua azione».
In questo numero, straordinariamente ricco di contributi, l’attenzione di molti autori sembra concentrarsi sugli incontri umani e sugli ibridismi culturali che il Mediterraneo ha generato nella sua storia di lunga durata. In tre diversi originali saggi, rispettivamente di Roberto Sottile, Francesco Scaglione e Stefano Saletti, sono indagati aspetti e funzioni del Sabir, della lingua franca che circolò almeno fino a metà del secolo XIX, un pidgin con una base italoromanza che – annota Sottile – «ci induce a riflettere, semmai ce ne fosse bisogno, su quanto l’italiano abbia giocato nei secoli un ruolo importante quale strumento di comunicazione tra popoli e lingue di opposte rive (…), una sorta di “ponte” tra le culture nel Mediterraneo». C’è da chiedersi, aggiunge l’autore, se sia ancora possibile oggi nell’Europa del plurilinguismo un italiano accogliente, mescidato, inclusivo. Ma è appena il caso di precisare che si tratta di un’ipotesi possibile solo se siamo pronti ad accogliere le lingue e le culture degli altri.
Contaminazioni di natura religiosa sono invece oggetto dell’attento saggio di Laura Faranda sulle opere dell’orientalista Edmond Doutté e dell’arabista Joseph Desparmet. La studiosa, seguendo un approfondito percorso filologico e antropologico, vi rintraccia «stratigrafie simboliche di un sistema religioso fedele al dettato coranico e non di meno pervaso di sincretismi compositi, esiti storici di contatti con altre culture. Si tratta – conclude esemplarmente – di due interpreti infaticabili della portata etnografica di un sapere intriso e nutrito di dialoghi mediterranei». Non diversamente nella descrizione che Erika Scopelliti fa dell’arte dei contastorie in Marocco non può non riconoscersi una koinè comune al patrimonio orale di tante culture e popolazioni meridionali, un insieme di tecniche performative e narrative che nelle piazze mediterranee hanno avuto origine e irradiazione. E di incontri, scontri, confronti e scambi linguistici, letterari e intellettuali scrivono pure due studiosi tunisini, Meriem Dhouib e Ahmed Somai, che sotto profili tematici diversi guardano alla cultura italiana rivisitata e intrecciata in una ininterrotta dialettica con quella del mondo arabo-islamico.
Anche le splendide immagini, copiosamente contenute in questo numero, alludono a commistioni e orditi simbolici e culturali. Quelle di Alfredo D’Amato evocano fusioni e sovrapposizioni tra radici africane e innesti portoghesi, metissage registrati nel suo diario di viaggio tra Brasile, Angola, Mozambico, Capo Verde, São Tome, Praia e Bissau. «In tutte le città – scrive – sentivo l’eco delle altre, e nell’approdo brasiliano sentivo risonanze dei Paesi africani. Nella musica di allegria, ma anche di tristezza, si avverte un sottofondo lontano del fato, con il sentimento portoghese della saudade, e racconta temi di emigrazione, di lontananza, di separazione, dolore, sofferenza. Ecco, un fado negro».
Altre immagini di non meno importanti fotografi posseggono un’eguale forza documentaria. Giacomo Zaganelli indaga sul rapporto tra i turisti e le opere in esposizione agli Uffizi e mostra quanto pervasivo e occlusivo dello sguardo sia l’uso ossessivo e possessivo degli smartphone che «filtrano (e distorcono) la visione dell’opera d’arte». Una bella rassegna di metaimmagini che ha l’obiettivo di suscitare «un dibattito critico sulla disattenzione e sulla superficialità con cui ogni giorno affrontiamo il quotidiano ed esercitiamo lo sguardo, e allo stesso tempo sulla mercificazione dei centri storici delle principali città d’arte, ridotti a parchi per turisti».
Il reportage di Eugenio Grosso, infine, ci conduce sulle rotte balcaniche dei profughi, segue le peripezie affrontate per superare le frontiere. Le foto restituiscono nel loro plastico dinamismo figurativo lo sforzo fisico e la stanchezza dei loro corpi ma anche la volontà tenace di andare avanti. «Pur tra mille ostacoli – scrive Grosso in conclusione – carichi di dolori e patimenti, questa massa umana che noi osteggiamo con la furia di cani rabbiosi ci è superiore nei fatti. Consapevole di trovarsi sempre sull’orlo del baratro, con scarse possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita, la maggior parte dell’umanità, quella a cui oggi il nostro governo ha dichiarato guerra aperta, non si arrende a perire. Non si arrendono le minoranze perseguitate del Medio Oriente: gli Yazidi, macellati dai mujaheddin dello Stato Islamico e i Cristiani, scappati dalle proprie case e chiese usate come latrine dal gruppo di terroristi. Non si arrendono i curdi iracheni che sono sopravvissuti al genocidio perpetrato da Saddam Hussein e oggi, tra mille difficoltà e voltafaccia da parte della comunità internazionale, governano una regione autonoma che è un’oasi sicura in un mare di violenza. Non si arrendono tutte le persone che sono arrivate in Italia con poco o niente e che, quotidianamente, combattono per garantire, se non a se stessi, una vita migliore ai propri figli».
Parole che hanno la medesima efficacia comunicativa delle immagini, lo stesso potenziale di energia che è nell’inarrestabile passo di marcia dei profughi, la stessa fermezza che è contenuta nell’implacabile divenire dei fatti. Ovvero nelle inappellabili ragioni della Storia che scorre, nonostante tutto, come un fiume carsico ai margini del nostro inconsapevole presente. Nel tempo greve che irride l’umano noi ci illudiamo di arrestare il futuro che avanza tornando indietro, riparando nel cupo passato dei vecchi nazionalismi e protezionismi. Ha ragione Nino Giaramidaro: «Sembra che il mondo globale con la sua inimmaginabile tecnologia e tutte le sigle e acronimi che non fanno capire più nulla, fra tutti gli algoritmi di cui dispone, in tempo reale, abbia scelto quello del cordaio».