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EDITORIALE

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Palermo (ph. N. Pillitteri)

Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Il celeberrimo, e per taluni aspetti abusato, verso di Terenzio esemplarmente richiamato da Maurizio Bettini nel suo contributo può forse offrire una chiave di lettura paradigmatica degli scritti di questo numero di Dialoghi Mediterranei, che nella loro apparente varietà sembrano essere ispirati da una comune consapevolezza, da una urgenza morale e civile, dall’appello a recuperare il senso dell’humanitas oggi messo in crisi da una diffusa cultura de-umanizzante, da uno spirito pubblico di angusta chiusura, di totale negazione di quanto è estraneo e straniero. C’è bisogno invece di “indiscrezione” – afferma Bettini – di forzare il blocco che ci paralizza nelle nostre paure individuali, di scavalcare le barriere dei ghetti che stiamo costruendo tra noi e gli altri, di abbatterle «in nome della comune “umanità”».

Il raffinato studioso, che con disinvolta sagacia coniuga filologia e antropologia aiutandoci a incrociare il mondo antico con quello contemporaneo e a leggere la cronaca con lo sguardo dei classici, ci invita a sporgerci oltre le trincee e al di là dei confini, a «eccedere nella comunicazione», ad avere curiosità per riconoscere l’umano anche nei costumi e nelle regole che non appartengono al nostro orizzonte culturale. «Una esortazione a essere “indiscreti”, insomma, verso chi non si conosce. Ecco perché il celebre verso di Terenzio potrebbe tornare ad essere cruciale oggi, che il nostro Paese e il mondo occidentale in genere, sono sempre più popolati (“invasi”, secondo alcuni) da stranieri, da sconosciuti o da gente il cui aspetto o il cui comportamento ci colpisce o ci inquieta. Il primo principio della “umanità” torna ad essere la volontà di conoscere, prima di tutto, coloro che giungono sulle nostre coste o che valicano i nostri confini».

Della sfida che lo straniero pone oggi al nostro senso comune dell’umano scrivono, direttamente o indirettamente, gran parte degli autori di questo fascicolo, sia che passino in rassegna le torsioni del lessico pubblico, gli idola fori delle narrazioni sui migranti (vd. Franco Pittau), sia che denuncino le operazioni politiche di sistematica criminalizzazione dei presidi umanitari, lo scempio dei diritti prodotto dalla gestione oligarchica dell’accoglienza, «votata alla restrizione delle casistiche meritorie di protezione internazionale», come annota Martina Mugnaini. In primo luogo, la lingua tradisce i processi di distorsione dei princìpi di realtà, le retoriche di demonizzazione e disumanizzazione degli altri, le strategie di manipolazione dei concetti e dei valori su cui si fondano le nostre  democrazie. Assistiamo – scrive Valeria Dell’Orzo – ad «un disallineamento concettuale tra la società, il suo sistema di segni e significati, e la descrizione che una porzione di questa vuole darne». Si considerino l’uso e l’abuso della parola sicurezza che finisce col coincidere «nel paradosso contemporaneo, con la creazione di un’emergenza sociale, con l’aumento dell’esasperazione e del disagio, con la brutalità del rifiuto (…) e con l’insofferenza e il tacito consenso a forme di aggressione, repulsione e allontanamento».

Nell’involgarimento del dibattito pubblico il migrante è al centro di furibondi attacchi politici, di un paranoico accanimento xenofobo. «La ricerca di un capro espiatorio e di un nemico ideale si pone come strategia politica doppiamente efficace, da un lato per abbassare la pressione sul piano politico, dall’altro per alimentare una propaganda utile al raggiungimento di un consenso generalizzato e fondato su una percezione e non sul principio di realtà. Siamo incattiviti e per questo vulnerabili, in attesa di aggrapparci ad un sentimento che risponda alle nostre esigenze più profonde e istintive», commenta Lisa Regina nel suo excursus storico che riassume l’evoluzione degli atteggiamenti degli italiani dallo sbarco degli albanesi del 1991 a quello dei profughi di oggi.  Del resto, di italiani impauriti e incattiviti scrive il Censis nel suo ultimo Rapporto, di un’Italia dei rancori, precipitata in «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico (che) talvolta assume i profili paranoici della caccia  al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare».

Così dice il Censis e, a guardar bene, c’è qualcosa di patologico nella spasmodica, ossessiva, quotidiana tensione alimentata contro i migranti, nella percezione sempre più diffusa di una presunta minaccia di sostituzione etnica, di attentato ai beni privati e alla sovranità nazionale. C’è dell’estremismo eversivo nella politica che esaspera le pulsioni e le solitudini, intorbida gli immaginari, enfatizza e inventa identità e primazie. C’è qualcosa di scientifico nel mettere al bando i buoni sentimenti e fomentare l’odio sociale, legittimare l’omofobia e delegittimare la solidarietà, sdoganare la giustizia privata e deprecare il soccorso umanitario. L’inversione dei paradigmi morali fa diventare reati i salvataggi in mare e virtù civiche gli egoismi e il cinismo.  Alle tradizionali dicotomie della lotta di classe basate sulle dialettiche  economiche del lavoro, si sostituiscono antagonismi di tipo feudale, soggettività politiche e sociali fondate su criteri di inclusione/esclusione rispetto ai diritti urbani della cittadinanza, alle gerarchie etniche, alle appartenenze identitarie. Non c’è bisogno dell’olio di ricino per avvertire nell’aria la canea nera che sale, la nostalgia dell’uomo forte, la rassegnata indifferenza di fronte alla deriva razzista e squadrista. Non c’è bisogno di camicie nere e manganelli per capire che se il fascismo non è tornato – come ci si preoccupa di precisare – i fascisti non sono tuttavia mai andati via, sono sempre stati qui, in mezzo a noi. E se fascista non fosse più un sostantivo grammaticalmente corretto resterebbe un aggettivo ancora politicamente e prepotentemente attuale.

Da tempo Dialoghi Mediterranei s’interroga su queste questioni, sulla disastrosa china intrapresa dal nostro Paese, sulle profonde metamorfosi umorali e culturali che gli italiani hanno conosciuto in questi ultimi anni. Nanni Moretti ci ha ricordato col suo ultimo film Santiago, Italia quale ospitale considerazione e quanto rispetto si avesse per quanti fuggivano dal Cile di Pinochet, per la figura dei richiedenti asilo, oggi così degradata e vilipesa. Quegli “Italiani brava gente” sono diventati nello spazio di pochi anni irriconoscibili a se stessi se è vero che oggi plaudono all’ennesimo condono degli evasori fiscali e ai mille balzelli imposti sulle rimesse dei migranti e alle associazioni non profit, approvano la chiusura dei porti allo sbarco dei profughi e l’apertura ad Orban e alle alleanze con i Paesi reazionari del gruppo di Visegrad. Una mutazione antropologica che rende ancora più necessaria la lezione di Terenzio, dell’humanitas indiscreta che si sporge per conoscere l’Altro, che accoglie, dialoga, connette, include.

E di humanitas scrive in questo numero Chiara Dallavalle a difesa delle donne che, vittime delle mutilazioni genitali, attraverso l’esperienza della migrazione introducono importanti elementi di cambiamento nel modo in cui incorporano e danno significato a questa antica e disumana pratica.  Così come alla dignità della persona fa appello Mauro Magatti nel suo ultimo libro, Oltre l’infinito, recensito da Fabrizio D’Angelo, nella consapevolezza che «in nome della piena realizzazione dell’umano, la potenza monopolizzata – trasformandosi in delirio di onnipotenza – è sempre destinata a schiavizzare l’uomo». Dei diritti umani calpestati a favore del profitto Alessandro Lutri denuncia la violenta sopraffazione prodotta dalla gestione degli impianti petrolchimici in Sicilia: «una questione biomedica, etica e politica». Ma all’humanitas – patrimonio prezioso di valori perenni e di simboli universali – si richiamano un po’ tutti gli autori, sia che scrivano di letteratura, di storia o di religione, sia che si occupino di arte o di architettura, di antropologia o di tradizioni popolari. E nella stessa prospettiva muove l’esortazione, per via di puntuali recensioni, a rileggere classici del pensiero del mondo occidentale e orientale, quali Thomas Merton, Michel Foucault, Louis Althusser, Michel De Certau, Abdelmalek Sayad, Ibn al’ Arabi.

Dell’umanità invocata, ricercata o testimoniata sono altresì immagini significative le tante fotografie d’autore contenute in questo numero: quelle di Nino Pillitteri che al bianco e nero affida il suo racconto di Palermo multietnica; quelle di Paolo Lopane che nel deserto attraversato con la macchina fotografica e nell’orizzonte estremo dell’altrove e della vita trova «la quintessenza della meditazione», «il grado zero dell’anima» e le oscure ragioni dell’Assoluto; quelle infine che Mariano Fresta ha recuperato da un archivio parrocchiale, ritratti ingialliti di giovani in divisa militare portati in chiesa e depositati sull’altare, probabilmente usati «per una forma di ritualità apotropaica», perché messi sotto la protezione divina come una sorta di ex voto potessero “magicamente” augurare un loro felice ritorno dalla guerra.

Chiude il fascicolo come sempre la rassegna degli scritti sui piccoli paesi, Il centro in periferia. Pietro Clemente ha raccolto alcuni interessanti Manifesti relativi alle reti costituite intorno a progetti condivisi di pratiche sociali volte a rifondare una cittadinanza attiva, una coscienza di luogo «come base del postfordismo» in grado di superare la coscienza di classe. La promozione di «uno sviluppo basato sui saperi e i prodotti a vocazione locale e su una democrazia ‘comunale e federale’» – scrive Clemente – può prospettare «un futuro possibile e collettivo, non solo e non tanto dolori e nostalgie o sogni minoritari» ma scenari concreti che possono integrare nel tempo teorie e esperienze «in modo da ridurre progressivamente lo scarto tra utopia e realtà». Non romantici languori, dunque, ma pragmatici programmi di ritorno a vivere e a popolare i piccoli centri dietro la spinta di un welfare di comunità rimodulato sulla prossimità, di una riappropriazione del sentimento civico, di un nuovo paradigma economico non meno che della dimensione umana dell’abitare nella bellezza dei luoghi oggi lasciati in abbandono. Bellezza splendidamente testimoniata dalle poetiche fotografie di Luca Bertinotti. Un atto di accusa contro la desolazione e l’inerzia. Un antidoto al greve paesaggio umano del nostro tempo.

Mentre ci accingiamo ad affidare alla rete questo nuovo numero e ad archiviare un anno denso di cortine di ferro e di inquietanti presagi, navi delle ONG cariche di profughi strappati al mare vagano nel Mediterraneo in attesa di un approdo sicuro. Continuano gli episodi di razzismo dentro gli stadi e nei luoghi più diversi del nostro Paese mentre Riace senza Lucano è tornata deserta e silenziosa per la partenza dei migranti. Una guerra civile molecolare sembra erodere le basi della nostra stessa convivenza civile. A illuminare la notte di questo nostro cupo presente, inquinato da indifferenze e intolleranze, è tuttavia il gesto che il Capo dello Stato ha compiuto appena pochi giorni fa. Mattarella ha infatti insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana due stranieri: Mustapha, venditore ambulante marocchino che a Crotone ha salvato una dottoressa dalla violenza omicida di un italiano, e Roxana, rumena proprietaria di un bar a Roma, che si è ribellata alla mafia dei Casamonica, reagendo alle minacce e denunciando gli estortori. Due significativi riconoscimenti istituzionali che segnano una precisa volontà di opposizione alla rovinosa deriva politica e sociale.

Può forse accompagnarci a varcare la soglia del nuovo anno con più lucida cognizione e qualche ragionevole speranza lo sguardo lungo e acuto di un altro noto filologo del mondo antico che ama dialogare con la cronaca, Luciano Canfora che, nel suo ultimo libro La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia, così scrive: «È feroce il tornante nel cui gorgo ci troviamo (…). Il sinuoso movimento della storia può sprofondarci in deprimenti bassure ovvero innalzarci verso affrettate illusioni. Chi abbia avuto la ventura di vivere crisi epocali e delusioni salutari può tenersi immune da entrambi i rischi: purché sia consapevole del peso delle tradizioni, dell’ingombro dei pregiudizi, dell’insidia costante rappresentata da quel ferino egoismo che costituisce il nerbo della psiche umana, talvolta definito con inutile eleganza amor sui. Ma nessun ritorno è davvero un ritorno al punto di partenza e nessuna restaurazione è davvero tale».

Nel rito di passaggio all’ignoto orizzonte è costume guardare con fiducia al futuro che si prepara, al tornante che si affaccia davanti a noi. E noi vogliamo farlo pensando a quella generazione di giovani che, come Antonio Megalizzi, sogna una nuova Europa, praticando valori ed esercitando utopie lontani da ogni forma di visibilità e strumentalizzazione mediatica. A settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, non ci resta che esprimere l’augurio che siano da loro difese e rinnovate le istanze etiche e universali da cui sono nate quella Carta e quell’Europa. L’Europa immaginata a Ventotene. Quella appunto in cui credeva Antonio Megalizzi. Ecco perché a lui, alla sua memoria dedichiamo questo numero di Dialoghi Mediterranei, mentre auguriamo a tutti i lettori e agli amici collaboratori un anno meno ‘ferino’ e più umano.

Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019

 

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