Con alle spalle il giorno della Liberazione, come non mai vissuto e celebrato in sofferenza, mortificato dai fantasmi risorgenti del neofascismo ovvero dagli oscuri disegni del postfascismo, assediato da raduni, proclami e saluti romani, avvelenato dagli spiriti animali dell’odio razziale, giungiamo attoniti all’altro appuntamento rituale, la Festa dei Lavoratori, gravati da un’aria greve e sordida, turbati e indignati di fronte a parole e immagini di guerra contro i migranti, i rom e i marginali mentre il lavoro muore nella disperazione dei giovani nelle città e si piega a forme di schiavitù nelle campagne soggiogate al racket dei caporali. Privati di memoria storica e sottratti ai meccanismi economici della mobilità sociale, le nuove generazioni sembrano condannate a vivere nell’accidia di un eterno presente senza futuro.
Nella paralisi in cui versa il nostro Paese, tutto impegnato a difendere i propri confini dagli assalti dei profughi che vengono dal mare, nessuno riesce a vedere né tanto meno a fermare i sempre più consistenti flussi di partenze di giovani connazionali per i quali l’unica prospettiva aperta sull’incerto orizzonte è l’antica via di fuga, la sperimentata emigrazione all’estero. Ne scrive in questo numero di Dialoghi Mediterranei Valentina Tringali, che con ampia e puntuale documentazione parla di «un terzo ciclo migratorio», di una nuova stagione di esodi: «una verità non più trascurabile malgrado l’ingeneroso silenzio e il disinteresse delle istituzioni politiche». E aggiunge: «L’emigrazione da un Paese annoverato tra i più avanzati al mondo – quale è l’Italia − è sintomo di una grave disfunzione interna, confermata inoltre dall’incapacità del medesimo Stato di attrarre persone altamente formate da collocare in settori-chiave e trainanti dell’economia e della cultura. Una realtà statale che espelle i suoi abitanti e non detiene i mezzi per attirare altre persone è un Paese immobile».
Non è necessario ricordare quanto abbiano contribuito alla libera circolazione dei cittadini europei le direttive dell’Unione e, in particolare, la Convenzione di Schengen, ma non si è forse riflettuto abbastanza quanto sia ancora debole e precario il processo di integrazione politica se è vero che i principi fondativi possono essere traditi e sospesi dalla reintroduzione delle frontiere tra i singoli Stati, dalle contrapposte “priorità nazionali”, dai protezionismi e dai vecchi statalismi che oggi usa chiamare sovranismi. «Siamo ancora dentro le nostre frontiere – ci ammoniva Umberto Eco, ricordando il trattato di Nimega del 1678 che apriva la strada alla pace tra gli Stati del vecchio continente – siamo ancora coinvolti in una forma di guerra (a volte sotterranea) con persone che vivono in Europa ma che noi (o almeno molti dei nostri connazionali) consideriamo non europei (o, come in alcuni Paesi usano dire, come extracomunitari). Il problema che interessa oggi un’Europa pacificata, che possa celebrare ottimisticamente il trionfo dello spirito del trattato di Nimega, è poter firmare un nuovo virtuale trattato contro l’intolleranza».
Dovremmo ricordarci delle parole di Eco quando guardiamo all’Europa con le nostre paranoiche ansie protezionistiche, le gelosie identitarie delle piccole patrie, le asfittiche e anguste chiusure nazionalistiche. Dovremmo ricordarci che senza un destino comune, nel disordine mondiale e nel sistema della “connettività complessa”, frutto di una sempre più rapida mobilità su scala planetaria di uomini, beni e tecnologie, nessuno staterello può reggere la competizione, né alcuna psicosi securitaria potrà essere appagata da barriere e muri eretti contro i diritti e le legittime libertà. Quando finirà questo lungo inverno del rancore, quando usciremo dall’opprimente stagione dei risentimenti tribali, ci accorgeremo quanto bisogno ci sia di un’Europa federata per far valere sovranità e identità di un continente che nel suo patrimonio storico e culturale possiede le risorse per affrontare le sfide del nuovo millennio.
Il grande grecista, Marcel Detienne, scomparso poco più di un mese fa, è stato un formidabile tessitore della rete di miti e simboli che connette le diverse culture in un dialogo e in un confronto perenne. La sua lezione, che resta ancor più necessaria per chi crede in un’Europa al centro del Mediterraneo, nell’attuale temperie che tende a comprimere e discriminare cittadinanza e diritti d’asilo, è un efficace antidoto a ogni presunzione di primazie intellettuali e di civiltà autoctone. Attingendo al suo insegnamento, anche in questo numero Dialoghi Mediterranei continua a dibattere su ibridismi e commistioni, su stratificazioni e incroci culturali, su quanto ricerche d’archivio e indagini etnografiche portano alla luce nelle intense e inarrestabili dinamiche storiche di circolazione degli uomini e delle idee. Così scopriamo dei contatti e delle influenze reciproche tra mondo arabo-islamico e letteratura italiana al tempo di Dante e di Boccaccio (Cappozzo); apprendiamo dei complessi sincretismi religiosi contenuti nei riti magici del vodoun praticati nell’Africa occidentale, dove «i culti delle regioni limitrofe nel corso dei secoli si sono incontrati, scontrati e assimilati» (Regina); recuperiamo alla memoria il siculo-tounsi, la lingua ibrida che i siciliani parlavano a Tunisi, «una sorta di Sabir che diventerà il linguaggio di tutta la comunità e l’elemento fortemente identitario» (Campisi); ricostruiamo le migrazioni nei regimi alimentari e il contributo ebraico nella cucina siciliana (Fais); ritroviamo nell’oralità dei contastorie marocchini molte eredità della narrativa popolare spagnola (Scopelliti) e nel Libro dei racconti per antonomasia, Le Mille e una notte, gli intrecci e le contiguità dell’immaginario tra una sponda e l’altra del Mediterraneo, tra Oriente e Occidente (Dhouib); ripercorriamo, infine, le vicende della passione antiquaria di un medico toscano che, a conferma degli storici rapporti tra l’Italia e la Tunisia, chiamato nel 1677 a curare il Bey di Tunisi, si innamorò dell’Africa romana e raccolse una ragguardevole collezione di epigrafi (Somai).
Altri contributi indagano su aspetti diversi dello stesso fenomeno: sulla densità antropologica delle leggende plutoniche siciliane che dal mondo popolare orale sono transitate nella letteratura scritta e colta tra ‘800 e ‘900 (Giacobello); sulle dialettiche dei segni nei processi di ibridazione contemporanea tra semiotica e antropologia (De Luca); sulla sovrapposizione e diffusione delle figure mitiche zoomorfe in aree e tempi diversi (Adriani, Ruscitti, Verzelli) nonché sulla complessa stratificazione simbolica che ha dato vita al personaggio del vampiro (Sorgi). A guardar bene, ibrida è la stessa identità dei giovani italiani figli degli immigrati privi di cittadinanza (Costa), e non meno ibrida, inquieta e pure fervida di speranze è la condizione di chi si dichiara musulmano, arabo palestinese e nello stesso tempo israeliano (Younis).
Di memoria e di altre storie di incontri, scambi e dialoghi culturali sono testimonianze i saggi che documentano esperienze di migrazioni e di colonizzazioni: i contatti e le buone relazioni nate e germogliate nelle acque strette dell’Adriatico tra il popolo albanese e quello italiano (Calore); gli insediamenti dei connazionali nell’Africa occupata dall’esercito fascista (Pittau); la straordinaria vicenda dei fucilieri senegalesi, deceduti durante la prima guerra mondiale sul fronte di guerra occidentale e sepolti nel cimitero di Mentone, dove «la stella e la mezzaluna si alternano alla croce » (Casalini). Ogni evento del passato, ogni vita umana raccontata nei contributi di questo fascicolo sembra volerci insegnare che i confini di ferro rimarcati, ribaditi e difesi anche attraverso i conflitti armati sono destinati ad essere sfidati, attraversati e scavalcati dagli uomini che comunque si muovono, si incontrano, si insediano. Lo dicono anche le nitide immagini in bianco e nero di Nuccio Zicari che colgono con precisi tagli di luce l’intensità drammatica dei volti dei migranti sbarcati a Porto Empedocle, uomini, donne e bambini che affermano la loro aspirazione a vivere, la loro volontà di esistere. Di questa umanità parlano anche gli oggetti che i migranti portano con sé, povere cose di affezione: una palla di cricket, un piccolo Corano, un rosario, una fotografia, un amuleto, un sacchetto di terra del paese natio, una pagella cucita nella giacca. Ne scrive Silvia Pierantoni Giua, muovendo dalle pagine di due libri che di questi “bagagli intimi” si occupano.
Quanto siano effimeri e arbitrari i confini innalzati per respingere i profughi è dimostrato dalle difficoltà delle stesse istituzioni di codificare il loro statuto, di «definire l’Altro entro il contesto giuridico-razionale. L’atopicità del migrante si riflette nella confusione delle categorie adoperate per includerlo o escluderlo». Così annota Enrico Milazzo che coglie con acume la questione della riconoscibilità e intelligibilità di chi sta richiedendo asilo, delle verità dichiarate e di quelle mimeticamente nascoste, così che alla fine «la commissione non sa fino in fondo chi ha di fronte, chi sta accettando o escludendo». Del resto, le migrazioni sono per sé stesse un universo complesso e frastagliato di eventi violenti e traumatici, di ferite profonde della psiche che chiedono a quanti per professione si trovano a fronteggiare il disagio dei migranti nelle sue tante, infinite e imprevedibili declinazioni «interventi e metodologie di incontro, ancor prima che di intervento terapeutico». Un incontro fatto di empatia, di partecipazione, di condivisione e di comprensione delle sofferenze invisibili – osserva Valeria Dell’Orzo – «delle macro-distinzioni patologiche fino all’individuale malessere del singolo all’interno dei contesti sociali».
Nel Il centro in periferia curato da Pietro Clemente si fa spazio in questo numero alle immagini che raccontano di paesi spopolati, di luoghi abbandonati, di emigrazioni e ritorni, di partenze e resistenze, di storie di vite e di legami perduti o ritrovati, di rovine e di memorie. «Che senso ha tutto questo? – si chiede Clemente – Cosa sono i luoghi abbandonati? Forse interrogazioni di senso sulla civiltà? Forse relitti di forme di vita che immaginiamo e cerchiamo di rianimare con le immagini? Una archeologia delle possibilità del vivere sociale che sono state abbandonate?». Interrogarci sull’impatto che le emigrazioni hanno prodotto nei luoghi fragili e marginali del nostro Paese non significa illudersi di restaurare quanto è anacronistico e incompatibile con i bisogni della contemporaneità. Significa piuttosto comprendere e stimolare le ragioni di resilienza, di “restanza”, di recupero dei saperi del territorio, di elaborazione di nuove soluzioni e possibili ritorni. C’è nelle fotografie una estetica delle rovine, una indubbia ricerca formale che illumina e accentua la bellezza dei luoghi. «Bellezza e rovine non si escludono, – ci ricorda Vito Teti – ma si richiamano, convivono. Non soltanto nella percezione colta dei romantici e degli esteti delle rovine, ma nella realtà osservata. (…) Il legame con i ruderi, per come ho potuto osservarlo in Calabria, è legame fisico e affettivo con il mondo perduto dei padri, di cui si commemora la bellezza e la fatica. (…) Le rovine possono rappresentare memoria, ma anche vita, diventare elementi di un diverso sentimento dei luoghi».
È appena il caso di precisare, in conclusione, che questo numero di Dialoghi Mediterranei ragiona e dibatte su tanti altri temi e questioni di cui questo editoriale non può dare conto. Ma non possiamo, ancora una volta e con amarezza, fare a meno di ricordare e salutare un amico e un collaboratore che ci ha improvvisamente lasciato. Il 10 marzo scorso è scomparso in un tragico incidente aereo nel cielo di Bishoftu in Etiopia Sebastiano Tusa, insigne archeologo, soprintendente del mare, assessore ai beni culturali della Sicilia. Ha collaborato con la nostra rivista quando ha potuto e ha sempre accompagnato con attenzione e apprezzamenti il nostro lavoro. Su questo numero Ninni Ravazza, che fu compagno di esplorazioni subacquee e di appassionate conversazioni sul mare, ne ricorda soprattutto l’impegno nella scoperta e nella valorizzazione dei beni archeologici che la natura e la storia del Mediterraneo ci hanno consegnato. «È stato così che Sebastiano Tusa ha scritto le pagine più belle della sua avventura professionale, la scoperta del luogo preciso dove nel marzo del 241 a.C. si combatté la battaglia navale più famosa dell’antichità, quella tra Romani e Cartaginesi».
Il contributo che lo studioso ha dato alla conoscenza del Mediterraneo è stato determinante soprattutto per liberare l’immagine di questo mare dall’insieme di luoghi comuni e di stereotipi, dagli sguardi ora estetizzanti, ora enfatici, epici, retorici, ora esotici, ora romantici o lirici con i quali siamo soliti guardare a questo mare, che certo non è soltanto un mare ma è un sistema di simboli, un orizzonte dell’immaginario, un archivio di storie, un denso repertorio di miti, ma è stato ed è ancora soprattutto – e a questa immagine ha certamente contribuito Sebastiano – un crocevia di frontiere che si attraversano e si spostano, una trama ordita da mille fili screziati, in un gioco di flussi e riflussi ininterrotti tra sponda e sponda.
Sebastiano Tusa, che amabilmente chiamavamo Colapesce, come quella creatura di terra e di mare, metà uomo e metà pesce, figura mitica e liminare che sta ai confini tra il sommerso e l’emerso, tra la superficie e i fondali, ha esplorato gli abissi della Sicilia e ha ripescato gli oggetti più preziosi dal fondo delle acque, ricordandoci sempre che il Mediterraneo è Oriente e Occidente, spazio di confronto e di dialogo, di stratificazione e sedimentazione di culture, lingue e civiltà diverse, costitutivamente plurale, non certo un paesaggio convenzionale né un mare chiuso e marginale ma, per usare le sue parole, «un universo sia sul piano geologico ed eco-sistemico che storico e antropologico, (…) protagonista indiscusso della diffusione del genere umano dall’Africa centro-orientale verso l’Asia e l’Europa». Ecco perché nessuno meglio di lui ha mostrato e dimostrato che l’Europa senza il Mediterraneo non si comprende né si può progettare. Sebastiano Tusa è stato la memoria e il custode di questo mare. Buona navigazione, caro Sebastiano.
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019