Tirare le fila di un corposo e complesso fascicolo che raccoglie più di settanta contributi non è affatto facile. Ancor più difficile però è tentare di riassumere in un consuntivo il bilancio di un anno alla sua conclusione. Ci prova ogni volta il Censis che consegna agli italiani una fotografia – più o meno nitida, più o meno sfocata – del nostro Paese, del suo stato di salute, del suo stato d’animo, alla luce di una ricerca di dati statistici e soprattutto di una ricognizione di percezioni e umori. E ogni volta offre un grappolo di immagini, un’antologia di metafore che hanno lo scopo di rappresentare in figure e riepilogare simbolicamente “la situazione sociale” dell’Italia, le patologie e le risorse, le criticità e le potenzialità, le sensibilità emerse e le tendenze sommerse di una realtà spesso confusa e contraddittoria. Qualche anno fa nel lessico immaginifico del Rapporto per definire l’Italia e gli italiani entrò la parola “mucillagine”, a materializzare il concetto del sempre più precario amalgama del nostro stare insieme, la frammentazione “molecolare” del tessuto connettivo del nostro sistema di convivenza.
Quest’anno si è fatto ricorso all’espressione “muretti in pietra a secco” per rilevare «una multiforme messa in opera di infrastrutture di contenimento dei fenomeni erosivi, generata dalla difesa solitaria dei singoli, grazie a processi temporanei e tempestivi di appoggio». Un argine, dunque, alla disgregazione, un’azione di resilienza alla crisi, la ricerca di punti di sostegno e di ancoraggio, il tentativo di cambiare direzione. Il Censis individua questi segnali nella «fitta rete di incubatori e acceleratori di imprese innovative nei quali diverse migliaia di giovani tentano una esperienza imprenditoriale», nel crescente fenomeno del volontariato e nei tanti eventi culturali che «valgono come affermazione di identità e di comunità locale, una occasione economica per l’attrazione turistica, un luogo di elaborazione di prospettive e di confronto intellettuale». Tra “i muretti a secco” annovera anche «la riscoperta dei valori delle aree interne» anche attraverso la pratica di intraprendere «i tanti cammini storici, religiosi, culturali presenti nella penisola».
Che qualcosa si muova ai margini delle nostre grandi città, nei piccoli paesi che combattono lo spopolamento con significative e spesso non effimere esperienze d’innovazioni e di tradizioni, che ci sia qualche bagliore nel cupo orizzonte del nostro presente è il racconto che Pietro Clemente sta scrivendo su Dialoghi Mediterranei da più di due anni, cercando di mettere in rete – un reticolo di sinergie non solo virtuali né solo occasione di dibattito – quanto è accadimento ancora episodico, minoritario e sperimentale, progettualità di comunità che investono su scuola, musei, socialità, economia della biodiversità, laboratorio di futuro nell’Italia da riabitare. «Un’Italia basata sulla ‘coscienza di luogo’», ripete l’antropologo anche in questo numero, così da invertire lo sguardo per prendersi cura delle fragilità e degli strappi da ricucire nei “territori spezzati”. E ripensando ai giovani che oggi riempiono le piazze e dicono parole di attenzione e di preoccupazione per l’ambiente e per la terra, Clemente si chiede: «Forse “riabitare l’Italia” sarà la missione di una nuova generazione di millennials?».
Certo, in mezzo a tante ingenuità adolescenziali, il movimento delle cosiddette sardine ha saputo cogliere e denunciare una delle emergenze più drammatiche del nostro tempo: la violenza del linguaggio, non solo politico, torvo e rozzo, inquinato da invettive e turpiloqui, intossicato da retoriche demagogiche, pulsioni autistiche e accenti irridenti e perfino razzisti. Tornare a disinquinare la parola, liberarla dalle manomissioni della propaganda, depurarla dai veleni della sopraffazione e dell’odio sociale, contribuisce a riappropriarci della lingua come bene comune, a restituirne il senso e la funzione nella civiltà del dibattito pubblico, della dialettica culturale e dell’agire collettivo.
Nel suo Elogio della mitezza (1998), Norberto Bobbio confessava di amare le persone miti, «perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale». La “gentilezza dei costumi” – una virtù meno banale di quanto si pensi – è proprio quella auspicata e invocata dalle nuove generazioni, estenuate da solitudini rancorose, settarismi e sospettose paure. In questo senso, dunque, mitigare il linguaggio, avere cura delle parole che adoperiamo è questione centrale e pregiudiziale.
Intorno alle parole come logos, responsabilità e identità, arte del narrare e del ricordare, “sentimento della lingua”, dispositivo semiotico e strumentazione fondante del potere simbolico, ragionano molti degli autori in questo numero, sia che si occupino di letteratura o di storie di vita, di oralità e scritture popolari, di bulimia nella artificiosa corsa all’abuso degli anglicismi d’accatto e di anoressia nella povertà e nel vuoto delle elaborazioni concettuali della comunicazione. C’è chi riflette sull’efficacia persuasiva e la funzione conativa della retorica incrociando sapientemente linguistica e antropologia. Chi riferisce i risultati di una indagine sulle forme di ibridazione nel parlato da parte degli immigrati marocchini di prima e di seconda generazione. Chi studia l’interazione verbale nei contesti familiari a tavola. Chi si interroga sulle ragioni che spiegano in qualche modo le numerose lettere pubbliche indirizzate a quotidiani e note personalità.
La scrittura come ricerca di relazioni interindividuali ma anche come narrazione di storie, testimonianze, cittadinanza, memorie. Così è nella sfida delle autrici afroitaliane che nei loro racconti – parafrasi delle loro identità plurali – immaginano un’altra Italia, un’altra società possibile. Così è nelle storie di vita raccolte nei diari e nelle autobiografie di chi faticosamente e tenacemente si cimenta per la prima volta in una scrittura che, nel colloquio o nel corpo a corpo con l’oralità, produce documenti di rilevantissimo interesse non solo linguistico ma anche antropologico. Così è nella lingua italiana che sembrerebbe “perdere una corda al giorno” nella lunga e impari battaglia contro le torsioni e le storpiature, i forestierismi e gli acronimi esoterici, l’inarrestabile depauperamento lessicale e concettuale in conseguenza della dilagante sciatteria, non solo stilistica. Un fronte sempre aperto contro l’analfabetismo funzionale che la scuola screditata e impoverita non riesce più ad arginare nè a costrastare.
È difficile, come dicevamo, riassumere il contenuto di questo numero, così denso e vasto, di Dialoghi e di Mediterraneo. Non mancano i contributi che hanno al centro il tema delle migrazioni, di italiani in Libia, negli Usa e in Australia, e di stranieri in Italia osservati nelle loro dinamiche di insediamento a Bologna attraverso lo sguardo lungo e acuto dell’antropologa Matilde Callari Galli; e più in generale nelle implicazioni delle mediazioni interculturali e nelle questioni connesse ai Paesi d’origine. C’è ancora una volta un’attenzione speciale per quanto accade nella Tunisia dopo il voto e l’elezione del nuovo Capo di Stato, ma c’è spazio per un’analisi più articolata sui sommovimenti popolari che tornano a scuotere tutto il mondo arabo, da Algeri a Khartoum, da Beirut a Baghdad.
Il Mediterraneo è dentro i libri recensiti, nelle suggestioni letterarie evocate tra mare e pesca, nelle contaminazioni musicali e nelle sperimentazione artistiche, nelle tradizioni narrative marocchine, nelle progettazioni urbanistiche realizzate ad Algeri da un prestigioso architetto francese e negli orti botanici delle città, dentro le Voci creative di donne in esilio, ovvero delle scrittrici siriane presenti a Palermo in occasione di una manifestazione. Testimonianze letterarie che si uniscono a quella sofferta dell’esule iraniano Kader Abdelah, la cui vita trasposta nella scrittura di narrazione si offre ad una originale lettura antropologica. Il Mediterraneo signoreggia ancora nelle copiose immagini fotografiche che tanta parte hanno in questo numero: ad illustrare un rito tra i più arcaici che si svolge in Sardegna, a documentare la transumanza della tradizione pastorale lungo i tratturi del Messinese, ad accompagnare i passi degli immigrati per le strade di Palermo, a restituire il paziente e attento lavoro di un fotografo di paese, ad esplorare le affascinanti radici preislamiche dell’Iran e a fissare in pochi fotogrammi la drammatica fuga della popolazione dalla Siria in fiamme. Immagini, infine, di Salvatore Piermarini, maestro della fotografia scomparso appena un mese fa, articolano il testo di Pietro Clemente che ne ricorda la collaborazione con Dialoghi Mediterranei. Nel numero di luglio 2018 l’artista ricostruiva le sue esperienze professionali, scriveva della sua ricerca per «le evidenze emarginate e silenziose con storie nascoste, minime o anche gloriose», ribadiva nella rigorosa fedeltà al bianco e nero la nuda verità della realtà, spogliata da ogni consolatoria finzione.
A scorrere in contrappunto il sommario in questo numero dialogano Giorgio Caproni e Mircea Cărtărescu; le donne e gli uomini dipinti da Jan Vermeer e i ritratti eseguiti da Piero della Francesca e Antonello da Messina; la Cina degli espianti e delle torture e il Cile dei sussulti popolari e della dura repressione dei carabineros; la Germania di Julia Franck prima e dopo la caduta del muro e l’Egitto in contraddittoria trasformazione di Muhammad Husayn Haykal; la politica per il Mezzogiorno di Nunzio Nasi e l’antimafia di Umberto Santino; il mito perenne di Don Giovanni, seduttore bulimico e sfrenato, e il ciclico ritorno della figura del Joker, il trickster della postmodernità; il teatro di avanguardia di Gabriele D’Annunzio e le performance corporee di Marina Abramović; le musiche da ballo siciliane e le sonorità mediorientali confuse nel sound jazzistico. Voci diverse, tempi discordi e mondi lontani che qui si incontrano e si riconoscono nel progetto culturale promosso da Dialoghi Mediterranei ormai quasi sette anni fa. Un orizzonte aperto e inclusivo in cui sfumano i confini disciplinari e si tesse una rete di idee e saperi, ma anche di sentimenti e relazioni umane.
Tirare le fila di tutto questo per trarne una improbabile sintesi è come cercare l’unità impossibile del Mediterraneo, la cui identità è costitutivamente mobile e plurale, mai identica a se stessa, assimilabile ad un patchwork screziato e cangiante, ovvero – per usare una metafora cara al grande filosofo Remo Bodei, recentemente scomparso – ad una gomena di fibre fittamente intrecciate e avviluppate in una «successione relativamente coerente pur nelle sue torsioni». Nel momento liminale dell’anno che si consuma e si rigenera, nel ciclico trapassare del tempo nel calendario, sarà bene affidarsi alle parole del compianto intellettuale sardo, tra i più attenti a far dialogare filosofia e politica. Nelle pagine conclusive del volume Destini personali (2002), Bodei così scriveva: «Bisognerà attendere ancora per assistere al consolidarsi di altre forme di umanità, di identità e di coscienza, che esistono in germe, in quanto ogni nuovo mondo è preceduto da messaggeri, ma ha bisogno dell’agire degli uomini per diventare reale. Matureranno certo, non come prolungamento, secondo linee tratteggiate, del nostro presente nel futuro immaginato, ma con cadenze “lentamente ritmate” o con scarti e curvature impreviste e, comunque, in modo presumibilmente diverso rispetto alle nostre proiezioni, speranze e paure. Sorgeranno attraverso altri conflitti e ibridazioni, opacità e asperità. Ma questa eventuale lunga maturazione, in fondo, potrebbe rivelarsi vantaggiosa, tanto per l’umanità, quanto per gli individui».
La Storia – si sa – è una talpa che scava stretti cunicoli e accidentati passaggi prima di portare alla luce il futuro, ma senza la responsabilità individuale degli uomini – sembra dirci il filosofo – rischia di esitare in vicoli ciechi e oscure derive, in “dominio e sottomissione”, in quel regime di democrazia illiberale che si regge sul consenso popolare alla “servitù volontaria”. Come dire nelle rovinose nostalgie del passato che oggi usa chiamare “retrotopie”. Siamo poi proprio sicuri che espressioni come “strategia della tensione”, “strage di Stato”, “guerra fredda” appartengano definitivamente agli anni Settanta del secolo scorso e non siano invece distopie mai cancellate, minacce mai del tutto debellate, fantasmi ricorsivi che abitano da sempre nel sottosuolo del nostro greve ed eterno presente? Perché non è forse una guerra – una nuova guerra fredda – del Nord contro il Sud del mondo quella che si sta combattendo nel Mediterraneo contro i migranti, uomini donne e bambini che sfidano il mare per cercare un futuro possibile? E l’ecatombe degli infiniti naufragi non è in fin dei conti una strage di Stato (con il concorso di più Stati) che un Tribunale internazionale un giorno giudicherà come un crimine di guerra? E questo nostro povero e stremato Paese non è continuamente messo sotto assedio da una strategia politica che persegue con la violenza della tensione demagogica la conquista dei pieni poteri?
Pur nella crisi di futuro, però, altre utopie, germogliate da rinnovate e inaspettate energie allo stato nascente, sembrano maturare lentamente, farsi spazio tra «opacità e asperità», tra la resa e la resistenza, dare vita e corpo a comunità di minoranze profetiche. I messaggeri del nuovo mondo – di cui parlava Bodei – sono già dietro qualche tornante del nostro presente, stanno srotolando la gomena, attendono di essere riconosciuti per guadagnare gli ormeggi. Messaggeri di civismo e di democrazia sono senza dubbio quei 32 “eroi di ogni giorno” premiati da Mattarella con l’onorificenza al merito per essersi distinti con il loro lavoro, con gesti silenziosi e moti di coraggio, con azioni e impegno a favore dei più disagiati. Sono messaggeri di un nuovo spirito pubblico quei ragazzi bolognesi che hanno promosso una così larga e spontanea partecipazione nelle piazze delle città italiane da sconfinare oltralpe in molte capitali europee.
Se è vero che la nostra possibilità di dare forma e senso alla vita e alle cose del mondo è connessa alla nostra capacità di immaginarle e di raccontarle, allora c’è da augurarsi che nella ‘mite’ utopia portata nelle piazze dalle giovani generazioni, umiliate nelle loro ambizioni e tuttavia protagoniste di inediti processi di soggettivizzazione, ci sia il racconto di un futuro possibile, più promettente e meno incombente. A cominciare dall’anno nuovo la cui frontiera ci accingiamo a varcare come i migranti con trepidazione e speranza, perché possa non solo ospitare i nostri desideri, liberati dalle illusioni fideistiche nelle magnifiche sorti e progressive, ma possa anche immaginare un ordine sociale diverso, un’idea condivisa di Paese, una condizione umana semplicemente più giusta.
Auguri a tutti i collaboratori e a tutti i lettori di Dialoghi Mediterranei !
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020