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Editoriale

SOMMARIO N. 4

un mare di morti, di modica

G.Modica, un mare di morti

  Asciugate le lacrime e stemperate commozione e indignazione, a distanza di un mese dalle tragedie di Lampedusa restano negli occhi di ciascuno alcune immagini tra le tante che si affollano nella memoria. I sacchi blu e neri disposti in fila sulla banchina, il pianto silenzioso della soccorritrice, le piccole bare bianche che spiccano in mezzo alle altre scure nell’hangar, la forza e la dignità del sindaco. Probabilmente quel che ha turbato le nostre pigre coscienze rispetto ad altri non meno drammatici naufragi precedenti è stata la mattanza di donne e di bambini, dei loro cadaveri abbracciati, dei corpi dei piccoli al loro primo vagito travolti dalle acque, del neonato ancora attaccato al cordone ombelicale della madre annegata. Immagini insostenibili di vite appena nate e inabissate.

Eppure tutto quel che è accaduto non è il frutto di un destino cinico e baro. Lo abbiamo scientemente voluto e silenziosamente approvato. Ne siamo responsabili come cittadini italiani ed europei o come semplici appartenenti al consorzio umano. Dovremmo sentirne tutta la vergogna, come ha gridato Papa Francesco. Lo stillicidio quasi quotidiano di vittime – un bollettino di guerra già denunciato nell’ultimo editoriale – ha assunto ora una dimensione apocalittica e si è fatto ecatombe, olocausto, sterminio di massa. I dannati della terra irrompono violentemente nelle nostre vite. Africa e Medio Oriente sembrano volersi rovesciare con tutto il grave peso demografico di povertà e disperazione sul nostro continente, vecchio e senescente. Eritrei, somali, nigeriani, ghanesi, egiziani, siriani, giovani donne, minori non accompagnati, adolescenti, bambini fuggono dalla guerra, dalla fame, dalle dittature. Non vogliono vivere meglio. Vogliono semplicemente vivere. E ancora una volta Lampedusa è stata capitale mondiale dell’umanità, epicentro della vita e della morte, mare e scoglio dei sommersi e dei salvati, per tornare ad usare le parole di Primo Levi.

Nella sua storia millenaria il Mediterraneo ha conosciuto migrazioni e transumanze infinite, viaggi legati al commercio dei pescatori, dei naviganti e degli schiavi, traffici e scambi di uomini e cose, erranze e nomadismi che hanno contribuito a costruire quel fitto reticolo in cui si identifica lo spazio transnazionale e transculturale di questo mare. In questo antico crocevia, dove sono nati le grandi religioni e i più potenti imperi, si sono dispiegate tensioni e conflittualità, sono affondate navi da guerra e imbarcazioni corsare, ma non è mai stato fermato quel movimento umano che ne ha da sempre percorso in profondità le acque e le sponde. Nessuno dunque può pensare di arginare o frenare l’onda alta di questa plurisecolare e strutturale mobilità, tanto più oggi nel tempo della globalizzazione e del radicale ripensamento delle categorie di luogo e di comunità.

Occorre che qualcuno a Pontida o a Bruxelles si ripassi la storia e la geografia e ne impari la lezione e si convinca che quelli che chiamiamo clandestini sono uomini, uomini e donne come noi, e come noi hanno passioni e desideri, bisogni e diritti, dignità e nobiltà di sentimenti. Tengono come noi le foto dei figli nel portafoglio e come noi piangono i loro morti, pregano i loro dèi. Non interrogano la nostra pietà ma la nostra coscienza civile, la nostra democrazia. Mai parola fu più cinica e infame dei “respingimenti” che la politica ha adottato per coltivare e alimentare le paure, per difendere vuoti simulacri e solidi egoismi. L’inadeguatezza e il ritardo a capire e a gestire il fenomeno dell’immigrazione implodono nella tragedia che ancora una volta ci ha trovato impreparati e disorientati. La dissuasione e la repressione si sono rivelate strategie non solo inefficaci ma rovinose. Il muro che abbiamo costruito sul canale di Sicilia, come quello di Berlino nel cuore dell’Europa e della guerra fredda, è destinato ad essere scavalcato, aggirato, abbattuto, anche al rischio che sotto si spalanchi un orribile e gigantesco abisso di morte.

Questioni umane geopolitiche e storiche ben più grandi e determinanti dei nostri trattati di Dublino o di Schengen, del nostro stesso sistema di pattugliamento predisposto dal piano Frontex, s’impongono nel proscenio europeo e irrompono nei destini dell’Occidente. L’acuirsi degli squilibri demografici ed economici tra il Nord e il Sud del mondo è causa dei sommovimenti epocali che attraversano il nostro tempo. L’urgenza e la cogenza che spingono questi uomini e queste donne a fuggire dai luoghi della morte, anche a costo della propria vita, dovrebbero indurci ad una seria e profonda revisione dei nostri modelli di analisi politica e culturale, delle nostre forme di organizzazione dell’accoglienza rispetto al diritto costituzionale e internazionale all’asilo, delle soluzioni ignominiose quanto ipocrite date ai problemi posti non dalla migrazioni di qualche popolazione ma dalle diaspore ed esodi di moltitudini.

«Dovremmo andare noi a prenderli». Restano scolpite nella loro esemplare semplicità e verità le parole pronunciate dal sindaco di Lampedusa nell’immediatezza del naufragio del 3 ottobre. La creazione di corridoi umanitari, di luoghi di libero transito, prima a terra e poi a mare, sotto la tutela delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, il riconoscimento del diritto alla circolazione degli uomini non diversamente da quella delle merci, la protezione delle vite umane quale obiettivo sovranazionale e garanzia di civiltà giuridica, questi alcuni dei provvedimenti che dovrebbero essere messi all’ordine del giorno nella agenda della politica internazionale.

Sepolti in loculi sparsi i morti senza nome e senza identità, celebrati i funerali senza bare, nell’ambiguità delle omissioni e nella scandalosa estromissione dei sopravvissuti, ultimo oltraggio consumato ai loro danni, dalle tragedie di Lampedusa dovremmo tutti trarre la lezione di una nuova consapevolezza, di una rinnovata coscienza che riconosca al migrante, qualunque esso sia – rifugiato o clandestino, richiedente asilo o irregolare in esilio – il diritto ad esistere, ad abitare la terra, a vivere e convivere nella libertà e nella dignità. Perché non naufraghi assieme ai corpi dei migranti anche il senso collettivo di giustizia, di pietà, di umanità.

Finché ci toccherà sentire i ghigni dei razzisti e le gazzarre dei leghisti, finché ci sarà un ministro di questo nostro Paese impaurito e incattivito dalla crisi, che davanti alla catastrofe umanitaria oserà ancora dire nell’indifferenza generale che «prima vengono gli italiani» in una grottesca graduatoria delle priorità sulla base delle nazionalità, allora nessun intervento europeo può aiutarci a fare di questo Mediterraneo un mare di transiti pacifici, uno spazio elettivo itinerante ed inclusivo come è sempre stato nella sua vocazione naturale e lungo tutta la sua storia di intense relazioni interetniche e di feconde esperienze umane.

Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre  2013
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