L’acquaforte di Bruno Caruso, il maestro siciliano scomparso proprio a novembre di un anno fa che ricordiamo in questo numero con l’affettuoso contributo di Giuseppe Modica, suo amico e artista di eguale forza visionaria, è significativamente intitolata Caos e sembra essere la più coerente metafora iconica dello spirito del nostro tempo, del disordine globale, del collasso climatico, dell’età della destabilizzazione e dello stato di precarietà degli equilibri geopolitici. Non sappiamo quali esiti avrà la Brexit, se il vecchio Regno imploderà, se l’economia europea reggerà alla restaurazione dei dazi. Non conosciamo l’evoluzione delle nuove battaglie per l’ambiente a difesa della Terra, se riusciremo a salvare l’Amazzonia, se fermeremo la minaccia dell’autodistruzione planetaria. Ignoriamo il destino dei popoli in fuga, delle minoranze sequestrate e dell’etnie calpestate, se i grandi organismi sovranazionali sapranno governare e sconfiggere le inquietanti recrudescenze dei sovranismi, dei neocolonialismi e dei razzismi.
Non è ancora chiaro quale nuovo ordine prepari questo disordine, che è politico solo a livello delle strutture apparenti ma più in profondità riguarda l’antropologia del nostro Continente, la vita culturale, l’etica, i sentimenti, l’immaginario, la condizione umana. È il rovesciamento di princìpi fondativi delle democrazie, la crisi dei sistemi di convivenza, l’incrinarsi delle basi costitutive del pensiero occidentale che ha accompagnato e orientato le generazioni del ventesimo secolo. È paradossalmente la rimozione della memoria e la nostalgia del passato, quella “retrotopia” di cui il vecchio Bauman intuì l’insorgere, sulla spinta della crescente paura di non riuscire a progettare un qualche futuro possibile in un orizzonte globalizzato. Nessuna mostruosa distopia probabilmente è incubata nelle tenebre del nostro incerto presente. Tuttavia c’è qualcosa di catastrofico nelle tragedie che viviamo nella domestica quotidianità, c’è qualcosa di apocalittico «nella situazione epocale in cui ci troviamo» – come scrive il teologo Leo Di Simone in questo numero – se è vero che «i viaggi biblici per i deserti e le tragedie di svariate etnie, le morti di questi neoesodanti “migranti” nelle acque del Mediterraneo hanno davvero sapore e colore apocalittico», anche se la parola apocalisse è altrove più spesso usata con accenti retorici oppure mediatici, nel linguaggio del banale spettacolo piuttosto che in quello drammaticamente scientifico. L’apocalisse non è, in tutta evidenza, il movimento endemico e strutturale nelle vicende millenarie degli uomini ma l’ecatombe provocata da chi ha deciso di alzare muri sul mare per arrestare le migrazioni, che è come dire arrestare il respiro della terra e dei suoi abitanti, stroncarne la vita, accelerare l’eutanasia della storia.
A pensarci bene, dell’emergenza ecologica che ora sembra improvvisamente assillarci Lévi-Strauss aveva già negli anni Cinquanta del secolo scorso profeticamente immaginato i rischi di un antropocentrismo etnocentrico e di un incontrollato primato tecnologico che avrebbero compromesso gli equilibri naturali della vita nel pianeta. Nelle celebri ultime pagine dei Tristi tropici l’antropologo francese, scomparso giusto il 30 ottobre di dieci anni fa, ha scritto parole terribili: «Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall’assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell’uomo – per quanto condannato – sia di opporsi vanamente a una decadenza universale, appare anch’esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva».
Il duro e disincantato monito di Lévi-Strauss non ha dissuaso l’uomo dalla sua corsa verso la violenta collisione con la natura, dalla rovinosa dissipazione delle sue risorse che hanno provocato i fenomeni del surriscaldamento climatico, della progressiva desertificazione, dello scioglimento dei ghiacciai e dei gravi dissesti geologici e territoriali. La storia sembra andare tumultuosamente e ciecamente nella direzione temuta e pronosticata dall’antropologo. «Immaginare un altrove nel passato o nel futuro alle prese con una situazione di collasso sociale, ambientale, culturale, può risvegliarci dall’ipnosi hi-tech di massa del qui occidentale». È quanto scrive nel suo contributo su Dialoghi Mediterranei Giuseppe Sorce, sulla scorta della lettura del libro Iperoggetti di Timothy Morton, interprete di una «svolta ecologica e deantropizzata del pensiero scientifico-filosofico». Oggi c’è forse bisogno – annota da un altro punto di vista Arnaldo Nesti in questo stesso numero – di «un’opera di decolonizzazione dell’immaginario, che può essere condotta in due direzioni principali e complementari: la decostruzione dell’universalismo economico e la demistificazione dello sviluppo e della crescita. Il relativo “incantamento” del mondo, prodotto dalla scienza, dal progresso e dallo sviluppo, è ormai rotto da un pezzo. Tuttavia, la fede nel progresso e nell’economia non è più un fatto di coscienza, ma una droga da cui siamo tutti dipendenti e a cui ci è impossibile rinunciare volontariamente, dal momento che il progressismo e l’economicismo sono incorporati nei nostri consumi quotidiani». Da qui l’immane lavoro culturale che postula un cambio di paradigma, nel senso non di una decrescita ma di un nuovo e diverso concetto di crescita, una diversa idea di sviluppo, una nuova mappa di valori e di stili di vita.
In questa prospettiva si muove l’originale contributo di Hilda Maria Morgan: a leggere le sue pagine ci si immerge davvero nella Natura, ci si ritrova a passeggiare con lei tra i boschi, in mezzo agli alberi, memoria della sua infanzia svedese ma anche luogo dove ritrovare una nuova «etica della Terra». Per altre suggestive passeggiate Flavia Schiavo ci invita a conoscere e ad esplorare le migrazioni storiche tra Vecchio e Nuovo Mondo nei giardini botanici dell’America, alla scoperta di arbusti, piante, fiori, erbari. Sulla natura e sulle politiche adottate tra ecologia e diritto Enrico Milazzo propone infine una rigorosa riflessione antropologica, che prende in considerazione le dinamiche culturali tra il lavoro e i beni materiali, tra gli uomini e le cose, tra soggetto e oggetto.
L’acquaforte di Bruno Caruso che getta nel caos uomini, animali e piante, sembra alludere simbolicamente anche ad altro cosmo impazzito, ad una demartiniana “crisi della presenza” che sovverte le coordinate spaziali e temporali delle coscienze, ad una sorta di blow up dell’umanesimo, del patrimonio delle norme non scritte e condivise che hanno accompagnato fin qui la storia delle comunità. Così accade quando mettiamo insieme i fatti che si riferiscono alla politica dell’immigrazione, alla cronaca che racconta, tra uno spot e l’altro, di naufragi e pestaggi, di genocidi e infanticidi, di intolleranze razziali e di terribili parole d’odio, di porti chiusi e di tir gremiti come carri bestiame destinati al macello. È legittimo interrogarsi davanti alle inerzie istituzionali e alle derive culturali quale senso dell’umano, quale frammento di storia del diritto e di civiltà europea sia sopravvissuto all’inversione dei codici morali, alla barbarie, alle mostruosità del nostro tempo. Quale idea di futuro attende le nuove generazioni.
Anche in questo numero Dialoghi Mediterranei offre l’opportunità di ragionare su questi temi in una chiave di lettura che privilegia la contestualizzazione del complesso fenomeno nelle dimensioni transnazionali e nelle connessioni storiche e culturali. Gli autori scrivono di rotte ed esperienze mediterranee (Fleri, Giusti), di artisti e architetti italiani migrati in Messico (Niglio, Checa-Artasu), di operatori transculturali (Ancora) e di diaspore africane (Di Giorgi, Pittau et alii), di letteratura dei migranti (Dell’Orzo, Valentino) e di rituali di società segrete nigeriane (Regina), di minoranze etniche a scuola e nella società (Armano, Leoncini, Younis), di corsi di lingua e intercultura (Iannazzone) e di minori non accompagnati (Di Nuzzo). Sguardi e approcci diversi sui molteplici aspetti di un mondo umano e sociale sconosciuto alle corrive retoriche politiche che non riescono a riconoscere la cittadinanza italiana ai compagni di banco dei nostri figli e nipoti.
C’è tanta Tunisia in questo fascicolo, osservata e descritta sotto differenti profili: l’ambiguo ruolo del Fondo Monetario Internazionale nell’economia della fragile democrazia (Riccio), le prospettive dopo le elezioni appena concluse (Casalini), il rapporto difficile dei giovani con la politica (Cordova, Venezia). C’è l’Islam attraverso alcune pagine illustri della letteratura araba (Medici, Pierantoni) e c’è il Marocco visitato con la curiosità e l’attenzione per le piccole epifanie quotidiane (Macioti). E ci sono le immagini asciutte e severe dei ritratti di Vincenzo Bellone, Survivors, una galleria di facce di migranti che ci guardano muti e ci dicono qualcosa non solo delle loro storie e delle loro vite, strappate all’inferno libico e alle drammatiche traversate sul mare, ma anche delle nostre assenze e delle nostre responsabilità. Non meno icastici ed incisivi sono gli scatti dei fotografi Gianluca Ceccarini e Angelo Pitrone. Il primo documenta, col rigore del bianco e nero, il culto popolare di san Michele Arcangelo e dei pellegrinaggi verso i santuari rupestri nella dorsale appenninica. Pitrone ci accompagna per le strade del centro storico di Favara, paese dell’Agrigentino che sta conoscendo attraverso originali sperimentazioni artistiche occasioni di riscatto dal lungo e storico degrado politico-mafioso. Il colore smagliante delle fotografie, che restituisce quello non meno brillante delle opere dipinte sui muri, illumina e squarcia definitivamente il profondo buio del passato.
All’arte è affidata anche la rinascita di altri luoghi, altrimenti destinati all’abbandono. Così per Dialoghi Mediterranei Giacomo Bonagiuso racconta le imprese visionarie di Antonio Presti, fondatore in Sicilia di Fiumana d’Arte, un museo all’aperto che ospita testimonianze monumentali di architetti e scultori di avanguardia ed eventi rituali di grande suggestione. Dal territorio di Gressoney-Saint-Jean in Val d’Aosta, Gabriella Anedi descrive le esperienze collettive che recuperano la bellezza della produzione tessile per costruire, anche a vantaggio di un’equilibrata economia del turismo, «un ponte proteso tra sguardi contemporanei e una cultura locale segnata, nel paesaggio e nella lingua, dalla tradizione Walser». Di arte scrivono altri autori, delle espressioni figurative e musicali della cultura popolare siciliana (Sarica, Todesco), dello spirito creativo e attento alle sensibilità infantili di Bruno Munari (Di Marco), dell’impareggiabile stile del pittore olandese Vermeer, maestro della luce e degli interni domestici (Barbuzzi).
A tre grandi scrittori della letteratura siciliana questo numero dedica rispettivi contributi di indubbio rilievo: ad Antonio Pizzuto di cui Antonio Pane ha curato la pubblicazione della sua tesi di laurea sul filosofo Cosmo Guastella; a Leonardo Sciascia, a trent’anni dalla morte, intorno alla cui eredità si interroga Rosario Atria, oggi che la linea della palma sembra essere salita «sempre più a nord, sancendo in qualche modo un’unificazione, oltre Roma, oltre le Alpi, fino a Berlino, Strasburgo, Bruxelles, nel cuore dell’Europa che comanda, al cui interno, se vogliamo, si è già generata una nuova questione morale e sociale»; e infine a Luigi Pirandello di cui Emanuele Buttitta scandaglia la novella L’esclusa per individuarne con acume filologico e antropologico la diretta filiazione dalle pagine delle Feste patronali in Sicilia di Pitrè.
Chi voglia approfondire aspetti della lingua siciliana troverà nel contributo di Giovanni Ruffino una puntuale documentazione del lessico relativo all’uso della vela latina, una rassegna dettagliata e splendidamente illustrata di barche, denominazioni e attrezzi, destinata a comporre la preziosa mappa dell’Atlante Linguistico Mediterraneo. Chi della Sicilia vuole recuperare la memoria del quotidiano L’Ora, che oggi a Palermo vanta una targa stradale vicino alla storica sede, può leggere in anteprima le belle pagine, sulle coraggiose inchieste condotte dal giornale, che Mario Genco ha scritto per un libro collettaneo in stampa, e quelle di Nino Giaramidaro che, di «quel giornale sprezzante del pericolo e poco amato dai benpensanti palermitani e della Sicilia che riusciva a raggiungere sui carri merci degli arrancanti treni isolani», ricorda figure e nomi di amici e colleghi chiamati all’appello: «un modo per coloro che vi lavorarono di stare ancora insieme, almeno sino alla consunzione della carta».
Del tanto altro – oltre le numerose e altrettanto interessanti recensioni dei libri – che questo quarantesimo fascicolo di Dialoghi Mediterranei contiene segnaliamo il testo di Vincenzo Matera che ha avviato la collaborazione con la nostra rivista con una riflessione sui social e il loro potere di modificare o piuttosto di rafforzare i modelli e le relazioni di genere. L’importante – conclude lo studioso – è assumere consapevolezza «dei rischi che si corrono, del rapporto fra illusioni di libertà e desiderio di liberazione, sugli effetti che determinate immagini e rappresentazioni del sé provocano negli spazi in cui circolano, sui vantaggi (indubbi, ma sempre non in assoluto) e sulle criticità (molte e non sempre immediatamente evidenti) della diffusione incontrollata delle nuove tecnologie digitali». Su questo numero continuano le avvincenti escursioni antropologiche di Stefano Montes che, tra narrazione autobiografica, monologo interiore e dense inferenze letterarie, si fa pellegrino presso il santuario palermitano di Santa Rosalia ragionando sul senso del rito, dell’acchianata, del peregrinare. Vale la pena infine leggere le storie raccolte da Nicola Martellozzo intorno al singolare caso di Colobraro, piccolo comune del Materano che combatte a suo modo lo spopolamento, giocando con la cattiva fama di paese iettatore a cui è tradizionalmente associata la sua immagine e rielaborando «ironicamente un’eredità storica infausta per farne un’occasione di valorizzazione sociale» e una strategia turistica di patrimonializzazione.
La originale esperienza della comunità di Colobraro si connette in qualche modo ai temi proposti nell’agenda curata da Pietro Clemente che chiude come sempre il numero. Chi ha voglia di conoscere quanto lentamente e silenziosamente si muove, in attività civiche e sperimentazioni culturali, nel mosaico dei piccoli paesi italiani troverà nei contributi di “Il centro in periferia” utili materiali di riflessione. In questo numero il paesaggio è al centro dei testi, «i paesaggi storici» ovvero «la chiave delle diversità, quelle che sono misurate dall’incontro con l’altro, che si offrono al dialogo». Clemente ci conduce nel cuore della Sardegna, nel paesaggio forte dell’Ogliastra, «aspro e insieme epico, di strette vie boscose, fitte di macchia mediterranea e di grandi orizzonti a perdita d’occhio. Di rocce gigantesche e di smisurati silenzi». Ci guida dentro l’antica trama di un rito che celebra l’ospitalità e l’accoglienza dello straniero, frammento di un’usanza che viene da lontano, simbolica eredità del mito greco della teoxenia che guardava al forestiero, umile e sconosciuto, come ad un “dono degli dèi”. La prova inviata da Zeus che sfidava l’umanità degli uomini.
Quanto sembra lontano oggi quel costume, quanto remota l’idea della sacralità dell’hospis, dello straniero che giunge a noi e chiede riparo! La cronaca dei tempi di ferro che viviamo ci precipita in una realtà quotidiana di intolleranze e xenofobie. Dai giornali di pochi giorni fa leggiamo: «Insulti antisemiti contro la senatrice Liliana Segre», «La nave Ocean Viking della Ong Sos Méditerranée resta ancora ferma da più di una settimana tra Malta e Lampedusa con 104 naufraghi a bordo, tra cui 17 minori e un bimbo di un anno», «Predappio, tremila nostalgici in corteo per l’anniversario della marcia su Roma. Saluti romani e gadget del Duce». Saranno fatti episodici da derubricare al rango di fenomeni minoritari e marginali. Ma la loro somma e la loro concomitanza sono inquietanti segnali, tragiche memorie, campane che suonano a morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
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