In Sicilia si chiama cona la nicchia che custodisce l’immagine sacra, l’edicola votiva particolarmente addobbata con rami di arancio, luci e fiori nei giorni che precedono il Natale e preparano le novene, con i suoni delle musiche tradizionali diffusi per strada. I riti sono raccontati in questo numero da Luigi Lombardo e Nino Privitera è l’autore della foto accanto e delle tante altre che illustrano con grazia poetica la descrizione delle pastorali e delle ballate popolari connesse a questo periodo festivo, di cui scrivono in un altro contributo anche Diego Cannizzaro e Mario Sarica. L’immagine scattata a Francofonte nel Siracusano – per i gesti che evoca e i simboli a cui rinvia – ci pare possa assumere valore di metafora iconica della soglia che ci accingiamo a varcare, rappresentazione augurale della vita che si riproduce e si dischiude all’orizzonte, della speranza che sostiene l’attesa del nuovo anno.
Perché, nonostante tutto, anche nella sua declinazione laica, il paradigma mitico del Fanciullo Divino che viene al mondo vale a ricapitolare lo spazio e a rigenerare la spirale del tempo. E lo spazio e il tempo sembrano essere oggi, nel mezzo della pandemia, categorie contratte, dimensioni distorte, percezioni frantumate, se è vero che il distanziamento fisico da un lato e la instabilità e transitorietà della condizione in cui siamo sospesi dall’altro, minacciano di travolgere ogni logos col rischio di gettarci nel caos. Sul crinale che il calendario ci ricorda il giro di boa ci trova precipitati in un precario e onnivoro presente che è rifugio e trappola, esilio e siepe da cui non riusciamo ad alzare lo sguardo né ad immaginare l’oltre e l’altrove. Il virus ha paralizzato e consumato memorie e progetti e le ombre che si addensano sul futuro ci impediscono di vedere e di comprendere quello che sta accadendo e quel che accadrà.
Incistata nei corpi, questa microscopica creatura, dalla ibrida natura di organico e inorganico, è agente sovversivo e aggressivo delle nostre vite, della nostra intimità, delle nostre volontà. Stravolge la prossemica – lo sguardo, la mobilità, la convivialità – ma spezza anche i fili che connettono l’oggi al domani, quel tèlos che articola e dà senso alla curva del tempo che ci è dato, al progetto esistenziale e sociale. «Viviamo – scrive Pietro Clemente – ancora un transito lugubre, difficile, in cui i barlumi di luce sono scarsi e lontani. (…) I morti sono sempre più soli e dimenticati. I nomi dei più di 500 morti della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema si possono leggere uno per uno e ricordare ma i circa 70 mila morti di Covid a oggi in Italia come si potranno ricordare? Come ‘trascendere nel valore’ la loro assenza? Anche la giornata nazionale fissata dal Parlamento come memoria collettiva del Covid è stata travolta dalla nuova fase della pandemia. Oramai sappiamo che dobbiamo affidare ai pochi che riusciamo a ricordare, la folla di coloro che se ne sono andati senza ‘orizzonte di memoria’».
Da qui l’idea di cominciare a raccogliere “umane dimenticate istorie”, piccoli epicedi, frammenti di storie di vita di alcune vittime, «poche, ma a loro modo esemplari, la parte per il tutto, il piccolo per il grande, il possibile per l’impossibile da ricordare», testimonianze «con le quali ci proponiamo di condividere il lutto come parte di quell’ ’elementarmente umano’ che torna da Croce alle pagine di De Martino sul lutto, a Cirese, come modo di trascendere nel valore il nostro laico e civile dolore». Come possiamo archiviare l’anno che ci lasciamo alle spalle senza ricordare i morti che se ne sono andati in silenzio e in solitudine, non accompagnati da veglie e fiori, strappati al saluto dei parenti, privati della dolce consolazione dei riti del cordoglio? Come possiamo rimuovere la memoria del lutto mutilato, dei cadaveri occultati, delle cicatrici mai rimarginate, dell’alto prezzo pagato e degli anonimi sacrifici compiuti?
Dell’ansia diffusa di ricominciare, delle ipocrite «poetiche del ri-inizio, mosse da grandi ragioni finanziarie, industriali e commerciali» scrive in questo numero Francesco Faeta, autore di un’invettiva dagli accenti pasoliniani contro certe forme degenerate della cultura contemporanea, che «non parla più del mondo come dovrebbe essere (in difetto di memoria non parla neppure del mondo com’era), parla del mondo com’è, facendo in modo che l’utente si riconosca empaticamente nel suo discorso, invece che promuovere fastidio, risentimento, rabbia, rifiuto». Sarebbe auspicabile che le parole di Faeta, che hanno l’obiettivo di «infrangere il monopolio aristocratico e gerarchico della cultura asseverativa e consolatoria» e di contribuire ad «elaborare una cultura del dialogo e dell’incontro», aprissero un dibattito proprio sulle pagine di questa nostra rivista che si chiama non a caso Dialoghi Mediterranei.
A pensarci bene, alla crisi della politica culturale e della vita intellettuale è in qualche modo da ricondurre la diffusione del cosiddetto negazionismo anti Covid, su cui anche in questo numero si propongono significativi contributi di analisi e riflessione. Tanto più che non si tratta di patologie individuali quanto di indizi, spie, epifenomeni di rappresentazioni mentali che, plasmate dalla comunicazione dei media, da rumors o fake news, trascendono le categorie della veridicità o della logicità, dando vita al sistema delle credenze e dell’abusato e slabbrato ‘senso comune’. Così afferma Vincenzo Matera che intervistato da Luca Rimoldi sottolinea «l’importanza del nesso fra determinati malesseri sociali e dispositivi retorici (slogan, simboli, immagini) in grado di incanalare e dare una risoluzione simbolica, appunto, al disagio». Così sostiene Chiara Dallavalle che insiste sulla fascinazione e sulla pericolosità delle informazioni che circolano nei social e sono acriticamente accettate da quanti vogliono trovare «una facile conferma a quello che è già il loro universo valoriale e identitario». Non diversamente Nicola Martellozzo ragiona sul «sistema di credenze eterodosse» che, come reazione alla «fragile autorevolezza» delle narrazioni ufficiali intorno al Covid, si è strutturato «non sull’affermazione fideistica ma sul dubbio; in cui negare è già credere». Di particolare interesse è poi il dialogo filosofico tra Maria D’Asaro e Neri Pollastri intorno alle logiche della ragione e delle emozioni che, indissociabili in obiecto, possono in intellectu distinguersi nell’analisi dei processi mentali che sovrintendono alle dinamiche comportamentali del negazionista.
Sicuramente più radicale ed eccentrica – e per questo non meno interessante – è la posizione di Alberto Giovanni Biuso, che dilata l’area semantica del problema e rovescia il tavolo delle argomentazioni solitamente addotte per richiamare la complessità dell’esistenza umana non riconducibile soltanto «alla sua immunità da virus. Di più ad un sogno di sicurezza totale e senza rischi, che ovviamente non si dà in nessuna condizione del vivente». Da qui la denuncia delle vere e varie forme di negazionismo che così elenca: «Negazione della socialità reale, che accade nel mondo degli atomi e non in quello virtuale dei bit. Negazione della molteplicità del corpo, delle diverse sue espressioni di salute e malattia. Negazione della resistenza alle decisioni di un’autorità smarrita, ripetitiva, retorica, interessata a perpetuare prima di tutto se stessa. Negazione della scuola e dell’università, ridotte a un simulacro virtuale. Negazione dell’unica consolazione che nel morire è la presenza di coloro che ci amano, le loro mani intrecciate alle nostre». Dalle provocazioni di Biuso alle puntualizzazioni di Davide Accardi che distingue il negazionismo spontaneo da quello «organizzato ideologicamente orientato e politicamente consapevole», e infine alle divagazioni di Nino Giaramidaro che ironizza sulle amenità di quanti negano l’evidenza dei morti per Covid: del presbitero degli Scolopi direttore di Radio Maria che «diffonde fantapolitica che nemmeno nella tuttologia dal barbiere viene presa in considerazione» o della deputata ex grillina, convinta che «le vaccinazioni sono un genocidio gratuito».
Alla vigilia della distribuzione dei vaccini e stante l‘agguerrito ed eterogeneo movimento dei novax siamo certi che le cronache offriranno molteplici motivi perché il dibattito abbia altri sviluppi nei prossimi numeri. Un appello alla razionalità nel tempo apocalittico che viviamo – tra scioglimento dei ghiacciai, innalzamento della superficie del mare, manifestazioni climatiche estreme – è contenuto nella lettura che Vincenzo Guarrasi propone della “sfida di Gaia” di Latour, un invito a «tenere i piedi saldamente radicati per terra» e a «tornare in sintonia con la danza dell’universo», assumendo «il passo della geostoria». Dialoga in fondo con questo appello la ricerca dei luoghi e delle voci marginali che ispira il contributo di Maria Rosaria Di Giacinto sui mercatari del quartiere di Ballarò a Palermo, dove, ai confini tra legalità e illegalità, «frammenti di globo, distanti fra loro migliaia di chilometri, si addensano e si contaminano incessantemente. In questo luogo, vengono venduti e barattati beni usati di ogni tipo, alcuni dei quali considerati perlopiù spazzatura dalla maggior parte della popolazione benestante»: forme ed esperienze popolari di riciclo dello scarto in opposizione alla «logica spietata del consumismo sfrenato che sta mettendo a dura prova il pianeta».
La verità è che in tempo di pandemia sembra imporsi sempre più urgente il bisogno di cura, parola e concetto la cui densità semantica travalica l’ambito sanitario e investe in profondità il nostro sistema di relazioni con la natura, la terra, la società, la vita, perfino il nostro rapporto con la lingua che parliamo e utilizziamo, l’italiano che oggi sembra soffrire di quella «epidemia pestilenziale» di cui aveva scritto già negli anni ottanta del secolo scorso con acuta lungimiranza Italo Calvino. Ecco perché in questo numero abbiamo sentito l’urgenza di avviare una riflessione sullo stato di salute della lingua italiana, sulla pesante penetrazione di anglismi, sovente d’accatto e inutili, sulla sciatteria del loro abuso anche da parte di istituzioni pubbliche e di organi di stampa. Introduciamo il dibattito con una lettera aperta indirizzata ai direttori di quotidiani e di reti televisive con l’obiettivo di promuovere, nell’anno che celebra l’anniversario del VII centenario della morte di Dante, una più attenta sensibilità e un severo esercizio di autodisciplina, non un retorico “sciacquare i panni in Arno” ma una più avvertita consapevolezza che la crisi che attraversiamo comincia da qui, dall’impoverimento delle nostre facoltà linguistiche, dal pigro e passivo ripiegamento verso gli esiti di una lingua omologata e standardizzata. A provocare e ad accompagnare il processo di decadimento di un Paese, infatti, non è soltanto il progressivo calo dell’indice economico del PIL o il crollo sul mercato della competitività dei nostri prodotti. L’italiano claudicante che articoliamo in un lessico disseccato e in una sintassi sempre più grigia e opaca è non meno significativo indice di decadenza civile e culturale della comunità nazionale.
Pubblichiamo in questo numero tre interventi che su queste questioni esprimono una comune istanza pur con posizioni e accenti diversi: dalla denuncia appassionata e circostanziata di Ugo Iannazzi a «difesa dei nostri patrimoni linguistici sopraffatti dall’inglese» alla riflessione di Luciano Giannelli che scrive di «immissione orgiastica di lessico inglese» e perfino di costrutti, anche in conseguenza di «un atteggiamento inguaribilmente e provincialmente (quanto selettivamente) esterofilo degli italiani», e raccomanda «una azione dal basso», a partire dalle scuole di giornalismo perché tornino a insegnare a «sfruttare le risorse dell’italiano». Salvatore Sgroi infine, contro ogni rigurgito di sciocco purismo, sostiene che «l’uso degli stranierismi non sarà aprioristicamente bandito in nome di una astratta ‘fedeltà alla lingua’ e alle sue origini, ma neanche sarà indiscriminatamente giustificato» e conclude che, pur riconoscendo la rilevanza culturale dell’inglese, «non ci si può spingere al punto di utilizzarlo veicolarmente nella scuola e nell’università, in sostituzione della lingua nazionale, che rischierebbe un “suicidio” culturale. Una lingua che non si adopera ai livelli alti inevitabilmente si depotenzia. E può andar incontro alla sua estinzione».
Nei prossimi numeri continueremo a discutere e a riflettere sull’uso arbitrario di termini come cashback, smart working, cluster, lockdown etc, raccogliendo idee, voci, testimonianze. Dialoghi Mediterranei si conferma crocevia di temi ed esperienze che dall’attualità offrono occasioni per fare incontrare mondi, uomini e culture. In questo numero mi piace segnalare le sperimentazioni artistiche realizzate nelle aree industriali dismesse di Ragusa, documentate da Maria Chiara Modica; la ricerca sulle originali pratiche di creolizzazione condotta da Annalisa Di Nuzzo nell’isola di São Tomé nell’arcipelago di Capo Verde; l’attento studio di Linda Armano sui minatori indigeni del Canada; nonché gli importanti progetti culturali promossi in collaborazione tra Bologna e il Marocco di cui scrivono Dimitris Argiropulos, Lella Di Marco e Antonella Selva. Belle anche le scoperte di Laura Leto nel cimitero degli inglesi a Palermo, sulle tracce della tomba di Henry Dummage Esquire, e di Lina Novara che nel “villino Nasi” a Trapani ha accertato l’esistenza dei modelli originali delle Naiadi, gruppi scultorei che Mario Rutelli eseguì come prototipi per le opere in bronzo destinate a Roma nella fontana di Piazza Esedra. Non meno appassionante è la rassegna delle attività e delle pubblicazioni realizzate dalla Scuola antropologica palermitana che Mario Giacomarra ricostruisce nel suo contributo sul filo di una memoria puntuale e affettuosa.
All’attualità si legano i ritratti di Maradona di cui Luigi Lombardi Satriani e Dario Inglese illustrano la contraddittoria figura con illuminanti chiavi di lettura antropologica. Lombardi Satriani ne esalta il mito, il profilo di «eroe tragico che si autoassolve dai suoi stessi errori, dalle sue debolezze»; Inglese ne fa «il demiurgo trasgressivo che ha regalato ai fedeli un assaggio di ‘mondo alla rovescia’, per dedicarsi poi all’involontaria distruzione della sua costruzione». In questo numero, progettato ed esitato come sempre nel segno delle contaminazioni, c’è infine tanta Tunisia, ragionamenti sull’islam e sulle primavere arabe, su nobili utopie e ambiziose pedagogie, memorie di architetti e migrazioni dimenticate, escursioni sui beni etnoantropologici, percorsi di letture e pagine di letteratura e soprattutto tante splendide fotografie d’autore, un cospicuo e assai significativo numero di contributi illustrati, in gran parte dedicato al tema dei luoghi: abbandonati o magici, inquieti o eccentrici, suggestivi o nostalgici, domestici o marginali. Un prezioso repertorio di immagini che acquistano profondità e nuove luci nel dialogo con le parole – storie, impressioni, testimonianze, pensieri – degli stessi autori.
E con un’ultima precisa immagine vogliamo chiudere questo anno – così complicato e tormentato – e salutare il nuovo – così vago e incerto: la fotografia dei pescatori finalmente liberati dopo il lungo e sofferto sequestro in Libia. Perché in questo fragile tempo liminare l’istantanea di quell’evento tanto atteso sia propiziatoria di un’altra liberazione, quella dal Covid e dal mondo che l’ha prodotto, dalla società malata che vogliamo cambiare, dalle culture dello spreco, dell’individualismo e della insopportabile diseguaglianza. Così, in punta di piedi sulla soglia dell’anno che incede, ci uniamo alle parole del Poeta: «piccola porta della speranza,/ nuovo giorno dell’anno,/ sebbene tu sia uguale agli altri/ come i pani ad ogni altro pane,/ ci prepariamo a viverti in altro modo». Ci prepariamo a immaginare oltre la frontiera, al di là del guado in cui siamo precipitati, un nuovo possibile futuro, diverso dal dispotico presente ma diverso anche dal nostro recente passato, un nuovo orizzonte, un ordine umano e sociale più giusto. Un cielo un poco più chiaro. Buon anno a tutti!
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021