L’estate è la stagione degli eccessi, trionfo della luce abbagliante ma anche delle ombre verticali e taglienti. Di luce e di lutto ineluttabilmente mischiati ha scritto Gesualdo Bufalino a proposito della Sicilia, «dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare uno scandalo, un’invidia degli dèi». Della “soperchieria del morire” l’estate – immagine simbolica dell’effimero, metafora della ricreazione e della distrazione – sembra essere la stagione più ingannevole, il tempo più infido, quando siamo più indifesi e vulnerabili, quando è più facile essere ghermiti alle spalle.
Tra giugno e agosto siamo stati privati di tre prestigiosi collaboratori di Dialoghi Mediterranei, tre valenti studiosi che non si conoscevano ma che si incontravano e si riconoscevano nelle pagine di questa nostra rivista. Tre compagni di viaggio, amici generosi e affettuosi, diversi per generazioni e per storie di vita e di studi – uno storico, una sociologa, un linguista – insieme partecipi di una comune passione per la piccola impresa editoriale, per questi Dialoghi a cui guardavano con simpatia e benevolenza. In questo luogo di contaminazioni e sconfinamenti disciplinari si connettono, infatti, non solo i saperi e le competenze, le culture e le esperienze di ricerca, ma anche gli uomini e le donne, gli autori che con i loro contributi dibattono, progettano e riflettono intorno a questioni sociali e forme ed espressioni plurali della nostra contemporaneità.
Il 24 giugno è morto lo storico Salvatore Costanza, il 10 luglio ci ha lasciati la sociologa Maria Immacolata Macioti, e infine il 7 agosto è scomparso improvvisamente il dialettologo Roberto Sottile, appena cinquantenne. Tre perdite enormi per la rivista e per la cultura italiana. Tre voci e intelligenze preziose che ci hanno aiutato a capire le dinamiche del nostro tempo, a individuare i fili sottili e invisibili che tengono insieme gli intrami e gli stami delle società, delle mentalità e delle vite degli uomini. Nell’unico modo che abbiamo di elaborare il lutto e di accettare la loro dolorosa scomparsa, Dialoghi Mediterranei ne presentifica le assenze dedicando loro in questo numero uno spazio di memorie e di testimonianze di colleghi, amici e familiari. Un modo per ricostruire i profili umani e scientifici di ciascuno, di ripensare al loro ruolo nella storia degli studi, di cominciare a raccogliere e valorizzare l’eredità intellettuale che lasciano.
Di Salvatore Costanza traccia un puntuale e approfondito excursus del percorso professionale e scientifico Rosario Lentini, il quale ha sottolineato come lo studioso abbia «esplorato campi vergini della storia siciliana, disvelato documentazioni archivistiche inedite importanti, analizzato questioni generali con grande originalità interpretativa, dedicato alla sua città numerosi saggi fondamentali, ma anche il proprio impegno in politica, pur se per breve periodo, ricavandone amarezza e non poche delusioni». Attento alle vicende del movimento operaio e socialista, ha ispirato i vasti interessi – dalla storia alla letteratura, all’etnoantropologia – ad una spiccata sensibilità etica e civile, ad un sentimento se pure disincantato di appartenenza al «mare stretto e inesplorato tra Sicilia e Africa», per usare le sue parole. Tre esperienze politiche e intellettuali lo hanno segnato: quella tra il 1952 e il ‘54, svolta per conto della Fondazione Feltrinelli, di spoglio dei periodici conservati presso la Biblioteca Fardelliana di Trapani, quella presso la redazione del quotidiano L’Ora negli anni sessanta e quella infine a Heildeberg dove dal 1968 al ’69 fu chiamato a collaborare con l’Istituto di Sociologia ed Etnologia della Università per ricerche sull’immigrazione siciliana in Germania.
Costanza è ricordato da allievi e colleghi ma anche dal figlio Federico che parla della sua «figura di padre teneramente “ingombrante” nel senso più felice del termine»: un ritratto commosso che vale a sciogliere il debito di affetti e di gratitudine per un uomo che amava recitare i versi di Gozzano ma sapeva guardare al mondo mediterraneo oltre il crepuscolo dell’Occidente. Su questa rivista lo storico ha scritto di Risorgimento, dei Fasci dei lavoratori, dei rapporti della Sicilia con la Tunisia e di tanto altro. Del suo modo di fare storia ci piaceva la cura fiamminga dei particolari più minuti di personaggi ed episodi della vita materiale e morale delle comunità indagate. Ci affascinava la sua scrittura declinata nei ritmi e negli accenti narrativi: «nel fitto intrico dei fatti non ho mai voluto dissolvere il volto degli uomini» annota nel prezioso Astuccio siculo. Ci sorprendeva sempre la sua attenzione per gli aspetti di storia sociale spesso sacrificati nelle ricostruzioni storiografiche, quali lo studio non solo delle élites urbane e delle gerarchie di potere, ma anche delle stratificazioni dei ceti e delle maestranze artigiane, nonché del complesso mondo marinaro pressoché inesplorato. Osservatore arguto e ironico dei costumi politici e morali, Salvatore Costanza guardava con distacco e indulgenza alle cose del mondo, senza mai perdere curiosità e interesse per la vita. Era un intellettuale nel vero senso del termine, cioè usava al meglio l’intelletto. La sua amicizia è stata davvero un indimenticabile privilegio.
Maria Immacolata Macioti ha scritto per Dialoghi Mediterranei fino all’ultimo numero e ci aveva anticipato per il successivo la preparazione di un altro contributo sulla Chiesa e la misteriosa ipotesi di un futuro conclave, a proposito di un libro che stava leggendo. Le sue mail erano sempre premurose e generose. Sentiva che la sua sociologia esercitata da sempre e con lungimiranza su temi quali migrazioni, religioni, dinamiche urbane e storie di vita dialogava felicemente con l’antropologia praticata dai numerosi collaboratori del periodico. Non si limitava a inviare puntualmente il suo testo ma divulgava la pubblicazione della rivista, che identificava come una sorta di comunità amicale e intellettuale, impegnandosi concretamente ad estendere la rete degli autori. Anche per noi era semplicemente Minette, «l’affettuoso vezzeggiativo francese – ci informa Renato Cavallaro – adoperato, quando lei era bambina, dalla nonna di origini olandesi, ma che da allora era rimasto sempre in uso tra i familiari e tra gli amici». Associava al suo «ethos cosmopolita leggermente effervescente» – per usare l’espressione del genero Tarek Elhaik – un profondo sentimento di umana cordialità, di aperta e incondizionata disponibilità verso gli altri, «in ascolto delle storie di vita vissute dalle persone», scrive Enzo Pace.
Chi leggerà i diversi contributi dei colleghi, amici, allievi che la ricordano in questo numero avrà modo di ripercorrere la storia della sociologia in Italia che all’ombra della Scuola di Franco Ferrarotti ha visto protagonista la Macioti, sia nel duro lavoro di redazione per La Critica Sociologica sia nella ricerca sul campo, impegnata nello studio delle periferie urbane, coinvolta perfino nelle battaglie per la casa nel quartiere popolare della Magliana di Roma, a sostegno del doposcuola fondato da Gerard Lutt, accanto a migranti, rifugiati, donne vulnerabili, giovani, sottoproletari, e leader religiosi carismatici o improbabili. Contro le resistenze e le indifferenze di certa accademia Minette ha condotto nelle borgate e in molti paesi della nostra penisola indagini pionieristiche su sette e nuovi movimenti spirituali, su figure di guaritori, sulle diverse forme popolari in cui si esprimeva il complesso e universale bisogno del sacro.
Acuta e convinta interprete della metodologia qualitativa che «difendeva con le unghie e con i denti», quando in Italia questo approccio era minoritario e marginale, Minette possedeva «la capacità di farsi tramite tra mondi diversi di persone che metteva in contatto con naturalezza e garbo», battendosi strenuamente «per i diritti, per la giustizia e l’equità sociale, per l’inclusione». Così scrive con gratitudine filiale Emanuela Del Re che fu sua allieva e amica di famiglia. E si deve alla tenace volontà della Macioti – ricorda Roberto Cipriani – «se oggi la Sociologia della religione in Italia gode di un’autonomia quanto mai preziosa rispetto ad altre discipline nel settore dei processi culturali», fu grazie alla sua spinta se «si pensò di istituire in Sapienza un Corso di Perfezionamento in Analisi Qualitativa, che ha formato una cospicua schiera di giovani studiose e studiosi». Una figura, dunque, quella di Minette, che ha associato una straordinaria sensibilità per le vicende delle persone in carne e ossa alla vasta ed eclettica attività scientifica, sol che si legga l’amplissima produzione di testi richiamati dagli autori dei contributi, dai primi studi su Chiesa e strutture sociali fino alle ultime ricerche sul genocidio armeno e su esemplari storie di donne drammaticamente segnate dall’esperienza dei campi di concentramento.
Di Roberto Sottile abbiamo chiesto al suo maestro Giovanni Ruffino di scrivere un breve ricordo, riservandoci di dedicargli un più ampio spazio nel numero di novembre. Troppo repentino è stato lo strappo, troppo recente e inimmaginabile la perdita. L’amicizia che ci legava era fondata su storie di luoghi e relazioni comuni, su connessioni e complicità di studi, su reciprocità di stima e affetti familiari. Dialoghi Mediterranei ha pubblicato non pochi suoi contributi e ogni volta la loro redazione era una lezione di metodo, una rigorosa e puntigliosa cura formale dei testi, seppure nell’affanno dei tempi sempre stretti. Anche lui partecipava alle vicende editoriali della rivista con uno affabile spirito di appartenenza sentimentale. Anche lui amava gli sconfinamenti disciplinari e le contaminazioni culturali, privilegiando la divulgazione alle posture autoreferenziali, mediando tra l’università e la strada, il rigore scientifico e la leggerezza calviniana dei saperi. Intellettuale versatile, eclettico, ironico e sagace, era ‘sottile’ – come suggeriva il suo cognome (nomen omen) – nelle raffinate indagini filologiche, ma anche aperto a sperimentalismi, a giochi e divagazioni culturali, all’esplorazione di nuove frontiere.
Così dall’impegno gravoso nel comitato scientifico dell’Atlante linguistico di cui era parte notevole Roberto passava senza soluzione di continuità alla conduzione della trasmissione Parru cu tia che si era inventata ogni domenica mattina su Radio Palermo Centrale, un programma dedicato agli aspetti curiosi e ameni del dialetto e dei dialetti. Dallo studio delle lingue africane su cui si cimentò agli inizi del suo percorso accademico la curiosità lo spinse a conoscere le culture giovanili, le dinamiche linguistiche che interessavano quel complesso e variegato mondo di parlanti. Dei luoghi comuni e delle convenzioni borghesi amabilmente sorrideva pur nel garbo di un immancabile rispetto. Nella pluralità degli usi linguistici trovava, con la spontaneità e la naturalezza del suo modo di essere e di entrare in relazione con gli altri, le ragioni umane e culturali per attraversare e investigare la storia dei territori, coglierne i cambiamenti, gli umori, i movimenti carsici. Per questo ha scritto di letteratura e di musica, si è fatto attore e compositore, narratore e cantante, guardando sempre con attenzione a quanto accadeva in Sicilia nelle diverse esperienze delle nuove generazioni. «Convivono in questo penoso ripercorrere i miei rapporti con lui – scrive Giovanni Ruffino nella sua testimonianza – il linguista di straordinario acume, il promotore infaticabile di iniziative, l’amico affettuoso, estroverso».
Siciliano fin dentro il midollo, Roberto ha insegnato che nel dialetto che migra, si rinnova, si ibrida e si rivitalizza c’è la Sicilia che cambia, che accoglie, che non ha paura di mescolare genti, costumi, idee, lingue. Nell’ultimo suo contributo su Dialoghi Mediterranei, pubblicato nel numero dello scorso gennaio (n.47), col titolo Mescolare dialetti, comporre musica, cantare storie, così concludeva la sua recensione all’album musicale di un gruppo siciliano: «è certo che oggi non si può parlare una lingua che non esiste quasi più, semplicemente perché non esiste più il mondo che, fino a un passato recente, ne ha motivato l’uso. Il problema – come è stato osservato altrove – non è parlare o ri-parlare (o “trascrivere”) quella lingua, ma provare a immaginare quante risposte potrebbero venire intorno al problema del “chi siamo”, se interrogassimo seriamente il senso e il significato delle parole che la costituivano. Queste parole – parole di un tempo ormai perduto, certo – non sono forse parole del tutto perdute se possono continuare a esistere, sotto nuova forma e con nuove funzioni, anche grazie a chi, come i poeti o i cantautori, le ripropongono ponendole a fondamento del loro percorso creativo».
Le parole di Roberto non saranno perdute, resteranno nelle coscienze dei tanti giovani universitari che lo hanno conosciuto e apprezzato, nel rimpianto e nella memoria di colleghi e amici, nell’eredità di insegnamenti che lascia tra i collaboratori di questa stessa rivista. La pluralità delle voci che ne hanno pianto la scomparsa conferma le sue straordinarie doti umane e intellettuali. Ci mancherà personalmente il generoso slancio della sua amicizia, ci resterà a lungo negli occhi la bellezza delle sue passioni, la grazia della sua umana simpatia per ogni aspetto della realtà, per ogni esperienza conoscitiva.
Alla fine di questo editoriale – epicedio doloroso e faticoso – ci resta appena lo spazio per dire che questo numero, di cui è difficile restituire in sintesi i diversi contenuti, non cessa di offrire un ampio e composito ventaglio di istanze e sollecitazioni culturali, ospitando e rilanciando dibattiti e ragionamenti, valorizzando ricerche inedite, letture e riscoperte, ponendo all’attenzione preziose fotografie e “sguardi” d’autore nonché stimolanti riflessioni su migrazioni e microstorie, su attualità politiche e fenomeni sociali, rinnovando ancora il ricordo di Alberto Maria Cirese a dieci anni dalla morte e ricostruendo le vicende della Casa Museo Uccello a cinquanta anni dalla sua fondazione. Luoghi e uomini, progetti e idee che si sono incarnati nelle opere di vite esemplari, nel lascito inestimabile di patrimoni materiali e intellettuali che vanno conservati, salvaguardati, tramandati.
Nella confusa temperie del nostro eterno presente, su cui unitamente alle incertezze del minaccioso sciame pandemico irrompono il terrore di guerre globali e le tragedie di nuove umane diaspore, Dialoghi Mediterranei continua a credere e a esercitare la fede nel valore morale e civile della memoria. L’unico tenace filo che connette il passato al futuro. In questa speranza ci confortano le parole profetiche di un Borges già cieco e veggente: «Noi siamo mortali, perché viviamo nel passato e nel futuro, perché ricordiamo un tempo in cui non esistevamo e prevediamo un tempo in cui saremo morti».
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021