Questo numero inaugura il decimo anno di vita di Dialoghi Mediterranei. Dieci anni e sessanta numeri puntualmente in rete ogni due mesi. La rivista, nata ad aprile del 2013, per iniziativa dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo che ne edita la pubblicazione, affermava nel primo editoriale l’indipendenza politica e l’ambito euromediterraneo quali coordinate scientifiche e culturali, obiettivi metodologici e orientamenti ideali. Un progetto maturato per volontà di un gruppo di amici riuniti attorno all’idea di costituire «un osservatorio sia sulla realtà locale in cui si trova ad operare, sia su un contesto più ampio», «un luogo d’interazione, di confronto e di dialogo tra culture, tra punti di vista e modi di pensare diversi». Una comunità dialogante, dunque, uno spazio ospitale, accogliente e inclusivo, un crocevia di voci e di discorsi, di sguardi e di letture. Una densa pluralità di approcci e di orizzonti.
Ci muoveva la spinta a raccogliere un’eredità rimossa e dimenticata, quella stessa istanza da cui era scaturita la fondazione dell’Istituto, la memoria degli intrecci storici e culturali che legano la Sicilia alle sponde sud del Mediterraneo, e in particolare la città di Mazara del Vallo che di quella geografia fisica e simbolica è frontiera e confine, limes o finis terrae ma anche limen, passaggio verso altre terre, capolinea e avamposto, faglia stretta ai margini di mondi e continenti diversi. Ricostruire i fili di quei nodi, ritessere l’ordito di quella trama è in fondo il programma che dieci anni fa ci siamo dati e che oggi continua a sostenere le pagine di questa rivista. Scrivevamo allora: «Da ogni Sud ed Est del mondo, un’umanità addolorata e privata di ogni diritto fugge su carrette del mare o su gommoni, o dentro container su autotreni, in cerca di una vita migliore. Spesso, questo viaggio della speranza si traduce in un’immane tragedia, che trasforma il mare in un grande cimitero. Accade che, nel mare di fronte alla nostra città, i nostri pescatori tirano, di tanto in tanto, nelle reti qualche cadavere». Allora come oggi le migrazioni restano il tessuto connettivo di questo Mediterraneo, il sostrato antropologico che è dato connotativo e distintivo, fattore strutturale e strutturante che ne plasma e identifica l’ecosistema.
Allora come dieci anni fa il Canale che noi chiamiamo di Sicilia e che nella riva opposta chiamano di Tunisi è al centro di drammatiche traversate e di tragici naufragi e Dialoghi Mediterranei non ha cessato di seguirne le dinamiche, di denunciarne analiticamente le storture politiche, di levare la sua voce contro l’oscenità del più grande scandalo del nostro tempo, per rivendicare il diritto ad attraversare e rimescolare quei confini di ferro che strangolano le fondamentali libertà di un’umanità disperata. Nessuno sa meglio di un pescatore – che tra prua e poppa ha appreso l’arte del mestiere e del vivere – quel che accade sopra e sotto le onde, nessuno conosce meglio di lui i codici non scritti che regolano le leggi del mare, l’opera di compassionevole soccorso e di generoso asilo dei migranti sopravvissuti ai naufragi. Di questo si parla, tra l’altro, in questo numero, con numerosi e approfonditi contributi sul ruolo delle ONG e sul sistema del volontariato, della cooperazione e più ampiamente sulla definizione e applicazione del concetto di solidarietà. Un mondo complesso, frastagliato e in continua evoluzione che i diversi autori – filosofi, antropologi, sociologi, storici, giuristi, teologi – hanno scandagliato sotto i molteplici aspetti e nelle pieghe delle questioni più spinose. Ancora una volta nell’ottica dello stile dialogico tra idee, visioni e posizioni dissonanti, una postura intellettuale che è metafora cognitiva e habitus civico, paradigma teorico e metodologico destinato a promuovere e a sollecitare comparazioni, sperimentazioni, ricerche e dibattiti.
In questi dieci anni di ragionamenti e di sconfinamenti, abbiamo connesso senza fondere né confondere categorie, generi, discipline, abbiamo posto al centro quanto è periferico o marginale, abbiamo messo in comune quanto è in apparenza remoto e incompatibile. Ci siamo in qualche modo ispirati alla lezione di Giovambattista Vico che invitava ad «osservare tra lontanissime cose i nodi che in qualche ragione comune le stringessero insieme». Il nodo è probabilmente l’immagine che meglio rappresenta il ruolo della rivista, il punto d’incrocio dei nessi che contribuiscono a rendere intelligibile gli intrecci dei fenomeni – genesi e implicazioni, analogie e differenze, strutture, relazioni e fattori causali – e quanto resta oscuro o astratto nella parzialità delle prospettive. Fin dal primo numero si è privilegiata la chiave di lettura antropologica per decostruire retoriche e luoghi comuni e scoprire le somiglianze laddove in prima approssimazione sono visibili solo le discordanze. Un’antropologia della contemporaneità, del quotidiano, dell’attualità. Una publich anthropology, quella poco praticata tra le mura delle università, sovente soffocate da adempimenti burocratici, gelosie e ripiegamenti disciplinari.
Dieci anni di lavoro culturale e di impegno etico a fronte di questioni politiche e sociali da capire, analizzare, rappresentare in un equilibrato quadro di riflessioni, di documentazione e di proposte progettuali. Un esercizio critico che ha coinvolto antropologi giovani e meno giovani unitamente a filosofi e sociologi, storici e letterati, linguisti e urbanisti, artisti e fotografi. La tensione transdisciplinare (più che interdisciplinare) che muove e attraversa le tante pagine di Dialoghi Mediterranei è coerente al tentativo di rinnovare le mappe concettuali, di coniugare più linguaggi, di superare le separatezze prodotte dagli esasperati specialismi, nella convinzione che si conosce meglio e più a fondo la realtà nella sua complessità se la si guarda sporgendosi ai confini degli specifici saperi, se si ibridano i contenuti, i generi e le materie, se si contaminano le scienze e i loro codici, se ci si avvale delle risorse più soggettive, narrative e creative e non ci si limita alla grigia e oggettiva referenzialità scientifica.
Durante questi dieci anni la rivista ha conosciuto una evidente espansione e una notevole visibilità nel confuso e affollato spazio della rete. Più di tremila articoli sono stati fin qui pubblicati con una crescente progressione e uno straordinario incremento di collaboratori la cui fedeltà e sistematicità di contributi è dato di per sé significativo della convinta adesione al progetto culturale. Più di mille visitatori al giorno per un totale che sfiora ad oggi i tre milioni di accessi. I numeri non sono certo sufficienti a certificare il valore di una impresa editoriale ma forse dicono qualcosa sulla sua diffusione, sul livello di pubblico apprezzamento, sulla sua riconoscibilità. Del resto, non sappiamo quale altra rivista può vantare un così elevato numero di contributi messi in rete con una sorvegliata selezione scientifica, una così ricca e plurale offerta di contenuti con un’altrettanta rigorosa e puntuale periodicità bimestrale. Tecnicamente, pur nella indubbia artigianalità della grafica e nella limitatezza dei dispositivi formali dell’impaginazione (più vicina alla struttura di un qualsiasi blog che a quella di un elegante menabò di rivista), Dialoghi Mediterranei si è dotata negli anni di un repertorio in versione database che consente la ricerca per autore, titolo e fascicolo, di un archivio che colleziona i pdf di ciascuno di essi, di un link che dà accesso alla lettura dei tre Quaderni fin qui pubblicati online (edizioni Cisu) che riordinano in volumi unitari i molteplici contributi dei collaboratori. Più recentemente ha concluso un accordo editoriale con il Museo Pasqualino di Palermo per la stampa di testi di singoli autori o collettanei a carattere monografico. Di questa collana denominata “Dialoghi” è stato già pubblicato il primo volume, Per Luigi, che raccoglie gli scritti apparsi sulla rivista in occasione della scomparsa di Luigi Lombardi Satriani. Altri cinque titoli sono già in programmazione.
A distanza di dieci anni il progetto iniziale ha seguito chiare e coerenti traiettorie di sviluppo e di ampliamento delle esperienze e delle relazioni. Lungo il percorso abbiamo pianto la perdita di cari amici e valorosi collaboratori che hanno condiviso con noi l’impresa e partecipato alla sua positiva evoluzione. Nel frattempo abbiamo rinnovato la redazione e attivato le procedure di revisione dei testi affidate a un comitato di lettura e dal 2017 abbiamo guadagnato l’apporto prezioso e prestigioso dell’antropologo Pietro Clemente che coordina e cura lo spazio “Il centro in periferia”, un laboratorio di idee, storie, proposte e ricerche intorno al mondo delle aree interne, sulle diverse iniziative di un loro possibile intelligente recupero per arginare spopolamento e deprivazione territoriale. L’appello ad “invertire lo sguardo” lanciato dallo studioso su queste pagine sei anni fa ha significativamente contribuito alla riflessione critica sui temi del “Riabitare l’Italia” e ha introdotto la rivista nel circuito del dibattito culturale nazionale che s’interroga sul destino dei piccoli paesi tra abbandoni e nuove opportunità. Più che una piccola “scialuppa” della grande nave – come la definisce Clemente – “Il centro in periferia” sta a Dialoghi Mediterranei come il peschereccio impegnato a coppia con un altro nel sistema di pesca a strascico che dalle nostre parti si diceva “a paranza”, ovvero di conserva. Insieme gettano la rete in mare, insieme la tirano, coordinando gesti e parole nella consapevolezza dell’interdipendenza reciproca e nel dialogo che ispira le ragioni di un medesimo proposito, di un comune sentire.
Tra il fenomeno delle migrazioni e quello dell’emorragia demografica in questi dieci anni abbiamo discusso della pandemia e del negazionismo, del rapporto tra potere e cultura, tra intellettuali e società; abbiamo ragionato su islam e pluralismo religioso, su cittadinanza e democrazia, sulla scuola e sullo stato di salute della lingua italiana, sulla guerra e sulle sue narrazioni; abbiamo proposto letture e ricerche sul senso del sacro e sui significati simbolici del corpo, sui musei, storie di vita e beni collettivi, sull’immaginario, sul cinema e sulla fotografia. Tanti i temi ma anche tanti i libri che dialogano con l’attualità, stazioni privilegiate di questo nostro viaggiare nella rete che è il formidabile vettore della rivista, luogo non soltanto tecnologico ma relazionale. Qui s’intrecciano le scritture e le idee ma in fondo un po’ anche le storie e le vite dei collaboratori e dei lettori in quel “pensare in comune” che è presupposto del sentimento di appartenenza ad una comunità intellettuale. Generazioni diverse di studiosi vivono dentro e fuori le pagine, che ogni due mesi ritrovano puntuali on line, l’esperienza di un incontro atteso, di un appuntamento desiderato.
La piccola comunità che all’ombra protettiva dell’Istituto Euroarabo ha progettato dieci anni fa Dialoghi Mediterranei è diventata più grande e più sicura. Quel fragile vascello, issate le vele, naviga ora al largo, sul mare aperto. Sfida gli scogli e le secche, le correnti e i marosi, gli infidi banchi di nebbia, ma tiene la rotta, non dimentica la via degli approdi fidati, conosce i rischi dei rovinosi naufragi. Nelle acque della rete procediamo con attenzione e prudenza, aperti alle innovazioni ma avvertiti anche dei limiti dati dalla perifericità mediterranea e dalla artigianalità delle strumentazioni di bordo, non meno che dalla diffidenza delle accademie per le contaminazioni di linguaggi non scientificamente adeguate ai rigidi criteri burocratici di valutazione. La rivista che discute en plein air di questioni antropologiche della contemporaneità sperimentando e mescolando insieme contesti, discipline e registri formali diversi sembra non essere ancora compatibile con gli indicatori accademici che ne misurano il gradiente di scientificità.
Questo numero 60 che solca il decimo anno di navigazione dentro una cronaca inquietante, tumultuosa e drammatica, giunge particolarmente carico di proposte e di sollecitazioni culturali, gremito di voci e di immagini. A guardare il sommario dall’alto il lettore potrà cogliere le grandi articolazioni in cui si distribuiscono più di un centinaio di testi. Ad uno sguardo più ravvicinato la varietà e la ricchezza dei contenuti potranno meglio spiegarsi nella loro concatenazione interna, nella relazione che passa, per esempio, tra le considerazioni antropologiche sul dolore degli altri e le complesse pratiche umanitarie descritte, raccontate e analizzate dai vari autori nel capitolo “Ong e solidarietà”. Che sia il lettore a scoprire il filo sottile che tiene insieme questi contributi, che parlano delle sonorità della Passione in Sicilia e della mafia dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, di Marcel Proust e di Vivienne Westwood, dei siciliani e dei maltesi in Tunisia e della quarta emigrazione italiana, delle fonti islamiche della Divina Commedia e dell’Atlante Linguistico Mediterraneo, dell’arte della vita come improvvisazione e della scrittura come creazione nelle pagine di Borges, dei rapporti tra femminismo e pacifismo e tra scienza e religione. Mondi e orizzonti lontani che s’incrociano, percorsi trasversali, connessioni interculturali, attraversamenti di scienze e saperi che paradigmi convenzionali e strabismi ideologici tendono a separare e perfino a contrapporre.
Nell’ultima intervista che poco prima di morire, nell’ottobre 1989, diede a Domenico Porzio, Leonardo Sciascia denunciava la fine delle riviste «perché è finito il colloquiare che significava esperienza e urbanità». Lo scrittore intuiva l’irruzione dei tempi di ferro che oggi viviamo, dominati da un autismo ideologico e da un bullismo politico senza precedenti, dall’assenza della “urbanità”, dalla negazione di quella disposizione dialogica aperta all’ascolto, alla tolleranza, al riconoscimento e al rispetto reciproco. Virtù etiche e civiche che rendono più abitabile questa “aiuola”, direbbe Norberto Bobbio, posture, pratiche e costumi pregiudiziali della faticosa convivenza democratica fondata sul patto di non aggressione reciproca. E invece, un anno di guerra nel cuore dell’Europa per una storia di confini armati – le trincee del ‘900, gli eccidi, le fosse comuni, le rovine, la carestia, le fughe – sembra universalmente e drammaticamente notificare la sconfitta della civiltà del diritto e il trionfo della sopraffazione e dell’arbitrio. Ma sì chissenefrega!
La cronaca di questi giorni nel nostro Paese s’incarica poi di confermare la tendenza a far prevalere la forza del potere sulla parola del dissenso, la prepotenza della autorità sui princìpi cardini della solidarietà. Parola – la solidarietà – che nel lessico politico è voce largamente proscritta, osteggiata, delegittimata, irrisa, per quanto riconosciuta come norma costitutiva dell’ordine costituzionale e applicata nella vita e nelle condotte di molti italiani. Richiama per associazione concettuale un’altra parola terribilmente impegnativa: umanità. Ne scrisse anni fa con illuminante e lungimirante visione Stefano Rodotà, che la definì «una utopia necessaria», «l’antidoto a un realismo rassegnato che non lascia speranze». Ne scrivono in questo numero parecchi autori che denunciano la sistematica e scientifica opera di criminalizzazione di ogni intervento di salvataggio in mare delle vite dei migranti in nome della difesa dei confini. Dai quotidiani leggiamo del fermo amministrativo di 20 giorni e della multa di diecimila euro inflitta alla nave di Medici senza frontiere, la Geo Barents costretta ad approdare nel lontano porto di La Spezia e sanzionata per aver operato più soccorsi violando l’ennesimo e più restrittivo decreto sicurezza. Un nuovo provvedimento di legge che, a giudizio dell’ONU, «contraddice il diritto marittimo, il diritto internazionale, i diritti umani e il diritto europeo». Nel frattempo, nel vuoto prodotto dalla assenza delle navi di soccorso, apprendiamo dell’ultimo naufragio davanti alle coste di Crotone: decine di cadaveri dispersi tra le onde. Tra le vittime bambini e neonati. La strage degli innocenti “clandestini”. Un “carico residuale” da abbandonare in fondo al mare. Chissenefrega!
Dopo dieci anni, pare di rileggere le pagine dei primi numeri della rivista. Pare di rievocare la catastrofe di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e tutte quelle che sono seguite in uno stillicidio di naufragi e morti senza fine. Nulla di nuovo si segnala nella cronaca diventata ‘cronica’ iterazione di assurde tragedie e di una fobocrazia che tiene in ostaggio persone, organizzazioni e istituzioni, di una politica esercitata come comando, scontro, ricatto, ossessiva ricerca di un nemico. Senza mai tentare di uscire dalla propaganda, dalla eterna campagna elettorale. Può così accadere che un ministro della Pubblica Istruzione, in nome dell’ordine e della disciplina, minacci di sanzionare il capo d’istituto che richiamando la storia del fascismo, nato non con le grandi adunate ma ai bordi di un marciapiedi qualunque con i pestaggi per motivi politici, invitava i suoi studenti a non essere indifferenti, e così aggiungeva:
Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così.
Condividendo, parola per parola, quanto ha scritto Annalisa Savino, preside del liceo Michelangiolo di Firenze, davanti al quale si è consumata l’aggressione da parte di un gruppo di estrema destra contro studenti della stessa scuola, vogliamo esprimerle la nostra più profonda solidarietà, sentimento e comportamento a cui ha fatto appello anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando ha esortato i giovani all’impegno per la comunità e a «farsi carico dei problemi generali capendo che non si vive da soli ma insieme agli altri e ci si realizza insieme agli altri». La solidarietà – «un antidoto, una diga contro la violenza» – è materia che s’insegna a scuola, è nelle competenze specifiche degli insegnanti, sta nel dettato della Carta Costituzionale. Come la libertà d’insegnamento e di espressione. Come l’educazione alla cittadinanza attiva e democratica. Come la memoria antifascista, iscritta nella XII disposizione finale e scolpita nella pietra fondativa della nostra Repubblica. Perché, per usare ancora le parole del Capo dello Stato, «il nostro è un Paese che ha sempre coltivato la civiltà della condizione umana». Un monito che dovremmo tenere a mente soprattutto davanti alle terribili immagini che giungono dalla spiaggia di Crotone e che rischiamo domani di aver già dimenticato. Mentre i governi europei si interrogano e si ingegnano su come fermare i migranti, non come salvarli. Chissenefrega!
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023