Si sbagliava David Ben-Gurion, l’uomo politico fondatore dello Stato d’Israele che ha governato ininterrottamente dal 1948 al 1963. In quegli anni aurorali di generose speranze affermava che «i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno». Si sbagliava il vecchio padre del sionismo perché «l’odio – ricorda Ignazio Buttitta in una sua poesia – è analfabeta e scrive pagine di storia sgrammaticate». Quella scia di sangue lungamente cumulata e trapassata attraverso le generazioni è giunta fino a noi col suo carico di memorie, di lutti e di violenze, le sue “meridiane di morte”, l’“eco fredda e tenace” della “scienza esatta persuasa allo sterminio”. Le parole dei poeti illuminano le tenebre in cui ci muoviamo a tentoni, sono il doloroso viatico per orientarci nel nonsenso della guerra e risalire all’universalità della condizione umana.
«È orribile – dice Max – Eravate più morti che vivi e continuavate ad odiarvi l’uno l’altro velenosamente –. Mio padre chiude gli occhi: – Senza libertà ed uguaglianza – sospira – sembra che non ci possa essere neppure fraternità». Così si legge ad esergo di I sommersi e i salvati di Primo Levi in un’edizione curata da David Bidussa che nell’introduzione cita la scrittrice olandese Carl Friedman e ci consegna una possibile chiave di lettura dell’inintelligibile, dell’indicibile e dell’inimmaginabile. Di quella macchina mostruosa che si nutre di vendette e rappresaglie nell’infinita spirale destinata a generare il furore della colpa collettiva del popolo nemico, fino a confondere oppresso e oppressore, vittime e carnefici. Non c’è chi onestamente non capisca che spianare Gaza, sterminare l’ultimo terrorista di Hamas e deportare il popolo palestinese non conduca ad alcuna pacificazione del territorio né ad alcuna ‘soluzione finale’ delle questioni. Tanto più che mentre Netanyahu ripete con ossessione «La guerra continua», questa sventurata espressione che dissimula reticenze e ambiguità rinvia alla memoria di una delle pagine più vili della storia recente del nostro Paese.
Ogni giorno le cronache degli orrori che irrompono all’interno delle “nostre tiepide case” spostano le frontiere dell’etica e della tolleranza al ribrezzo qualche metro più in là, laddove l’efferatezza più feroce diventa usuale e banale violenza, l’inumano diventa un po’ più umano. Una escalation di immagini di bombe, saccheggi, fosse comuni e macerie che dai teatri di guerra migra sui nostri teleschermi e rischia di essere indifferenziato rumore di fondo delle nostre indifferenti vite quotidiane. Nell’assenza di ogni prospettiva politica la strategia militare occupa tutto il campo dell’azione e della comunicazione pubblica, surroga, soffoca e cancella le voci delle istituzioni internazionali, si fa beffe delle leggi e dei diritti universali. Devasta i campi profughi, sventra gli ospedali, colpisce chiese e scuole, affama e uccide donne e bambini. Il trionfo della nuda forza bellicista su ogni altra ragionevole opzione segna la clamorosa sconfitta di cancellerie e diplomazie e il rovinoso precipitare sul piano inclinato di un conflitto che può diventare globale dall’epilogo imprevedibile. Uno scenario che proietta le sue ombre inquiete sul nuovo anno tanto più spaventoso se si considera l’altro fronte di combattimenti che nelle trincee dell’Ucraina da più due anni insanguina i confini dell’Europa.
A guardar bene dentro queste vicende, come hanno fatto i nostri autori in questo numero di Dialoghi Mediterranei, quanto ci sembrava semplice e scontato si fa più complesso e frastagliato, più problematico ma probabilmente più vero, più reale, più credibile. Le voci diverse concorrono a comporre un quadro articolato di ragionamenti che nulla hanno a che vedere con le rappresentazioni mediatiche e ideologiche, le polarizzazioni tribali e le vulgate politiche. In questo senso il magistrato Roberto Settembre, da acuto filosofo del diritto, pone nel dibattito alcune questioni metodologiche volte a fare chiarezza sulla differenza dirimente tra giudizio e opinioni: al primo si giunge «dopo un percorso logico razionale basato sulla conoscenza, per quanto più esaustiva possibile, dei fatti e delle loro premesse»; le opinioni, invece, «prescindono dal giudizio, e vi si affiancano, o spesso lo sostituiscono seminando il terreno dal quale far emergere le conclusioni». È appena il caso di precisare che la commistione di questi due diversi atteggiamenti cognitivi produce confusione e malintesi fino a compromettere il dialogo e la reciproca comprensione.
Un approccio narrativo e autobiografico alla conoscenza degli avvenimenti è quello scelto dall’antropologo Alexander Koensler che da testimone offre una prospettiva ravvicinata dell’attacco di Hamas e della guerra che ne è seguita. «Uno sguardo dietro le quinte, forse scomodo – scrive – ma necessario». Si legga il suo straordinario racconto dell’esperienza vissuta ai confini di Gaza in quei giorni e si capirà quanto ibride, intrecciate e condivise siano le storie di vita di chi abita queste terre, quanto parziale e inadeguata a spiegare la realtà sia la narrazione secondo cui «l’unica liberazione possibile sia attraverso lo Stato-nazione con popoli omogenei». Koensler ha raccolto le voci di chi in mezzo alla guerra si fa interprete di un movimento di solidarietà trasversale che scavalca le divisioni tra arabi ed ebrei israeliani e prefigura ipotesi di pacifica coesistenza di comunità plurali. Un’altra singolare storia di tolleranza è quella che descrive la sociologa Chiara Sebastiani che, a Bukhara in Uzbekistan dove è stata tre settimane dopo il 7 ottobre, si imbatte in un piccolo museo progettato e realizzato dai musulmani in una vecchia casa, già abitata da ebrei oggi emigrati, ove si conservano amorevolmente oggetti e documenti della vita quotidiana e della cultura ebraica. Così «nelle steppe dell’Asia centrale il viaggiatore occidentale scopre che gli ebrei non sono tutti israeliani e i musulmani non sono tutti arabi», che le confessioni religiose possono non essere fattori di divisione e di tensioni ma, al contrario, collaborare e riconoscersi in una comune memoria collettiva.
Del ruolo della religione, invece, quale catalizzatore dei processi di radicalizzazione delle rispettive posizioni su entrambi i fronti arabo e israeliano, scrive Enzo Pace il quale ritiene difficile la risoluzione del conflitto e la realizzazione dei due Stati finché, da un lato in Israele, «il sionismo religioso si configura come un movimento etno-nazionalista che considera i territori della Palestina parte integrante e inalienabile di Eretz Israel, la biblica Terra promessa», mentre dall’altro, tra i palestinesi, ci sarà ancora chi in nome della jihad sostiene «la lotta armata a oltranza sino alla distruzione del nemico israeliano». Due programmi inconciliabili per due destini contrapposti. Anche l’arabista Antonino Pellitteri è convinto dell’impraticabilità del piano dei “due Stati e due popoli”: «basta dare un’occhiata alla carta geografica oggi – fa notare – per capire che uno Stato palestinese indipendente è praticamente impossibilitato ad esistere. La cosa più sensata, giusta e veramente risolutiva sarebbe quella di rifondare in Palestina una entità statuale basata sulla ricomposizione multiconfessionale e multietnica nel rispetto dei diritti di tutti e innanzitutto dei diritti dei Palestinesi». Lo storico Mattia Giampaolo, d’altra parte, traccia come spartiacque di questa drammatica vicenda il fallimento degli accordi di Oslo del 1993. Nulla è rimasto della famosa stretta di mano tra Arafat e Rabin, di quel mondo fondato su un equilibrio geopolitico andato in frantumi dall’insorgere dei movimenti islamisti e il crescente isolamento della popolazione di Gaza a seguito dell’aumento della violenza dell’esercito israeliano e la costruzione di molteplici barriere di muri e checkpoint.
Al libro di Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, fanno insistito riferimento Franca Bellucci e Vincenzo Guarrasi per capire l’influenza esercitata dal movimento armato islamista e la sua penetrazione nella società di Gaza. Bellucci che, nella sua scrittura intreccia storie e letterature di Oriente e di Occidente, ne contestualizza l’insediamento e la sua espansione nell’area grazie al favore popolare guadagnato dalla vicinanza alla vita e alle criticità quotidiane della popolazione locale. Guarrasi, con un ampio sguardo sulla storia e la geografia del territorio, decostruisce le narrazioni occidentali che rappresentano Hamas tout court come una formazione terroristica e afferma: «Nessuno è innocente. Non lo è l’Occidente, che ha legittimato quella che agli occhi di tanti osservatori appare come un’impresa dal forte carattere coloniale. Non lo sono gli Stati arabi del Medio Oriente che hanno a lungo giocato un ruolo di grande ambiguità, lasciando i Palestinesi al loro destino, quando essi apparivano massimamente bisognosi del loro sostegno». Per concludere perspicacemente che «il conflitto in corso ha già lasciato sul terreno, oltre alle innumerevoli perdite umane, due vittime: la democrazia e le pratiche ispirate alla non violenza e alla pace».
Se Massimo Jevolella con grande rigore analitico da attento filologo spiega il vero significato della parola Islam, che è abbandonarsi nelle mani di Dio, chiarendo che derivano dalla stessa radice semitica i termini che designano la pace: salām in arabo come šalôm in ebraico, Vincenzo Meale ci ricorda quanto sia ridicolo accusare i palestinesi di antisemitismo, per il semplice fatto che essi stessi sono semiti, anche se questo non impedisce loro di essere contro Israele in quanto «espressione del colonialismo europeo». Alla pace, ai suoi fondamenti, alla necessità di costruire nella coscienza universale il mito della pace sono dedicate le pagine del teologo Leo Di Simone che, nel ragionare sul contributo di ciascuna dottrina religiosa, osserva saggiamente che «le Religioni devono rivedere gli equilibri relazionali tra i quattro elementi che le costituiscono: mito, rito, logos ed ethos; basta un niente, una pur lieve accentuazione di uno di essi per cadere nel fondamentalismo, nel dogmatismo, nella superstizione, nel moralismo, nell’idolatria». Dal punto di vista più strettamente connesso al canone dottrinario, Antonio Ingoglia, infine, ripercorre il dibattito teologico e le posizioni della Chiesa rispetto alla illiceità della guerra, al ricorso «all’uso della forza e alle azioni coercitive armate se non per il conseguimento degli interessi comuni dei popoli». Una storia anche questa omissiva e controversa, non priva di attardamenti, evoluzioni e contraddizioni.
Continueremo a discutere di pace e di guerra sui prossimi numeri di Dialoghi Mediterranei, temi imposti dalle tragedie dell’attualità, dall’inquieto scenario dei nostri tempi di ferro. La rivista – come è noto – è un grande arcipelago, una costellazione di studi, ricerche, idee, sguardi. Connette in una comunità dialogante voci diverse, realtà periferiche della vita intellettuale del nostro Paese, questioni generali e ambiti specifici, le scienze, le culture e la politica. In questo numero si confermano gli spazi di riflessione sulla Tunisia e sulla Sardegna, poli privilegiati e simbolici di una riflessione critica più generale sulle dinamiche storico-antropologiche del Mediterraneo. C’è una interessante rassegna di letture sul fortunato film della Cortellesi, “C’è ancora domani”, che, nel cogliere con splendido tempismo e stile originale gli umori, i malumori e il malessere profondo della nostra società contemporanea, si offre ad un dibattito di estremo interesse, cui hanno partecipato cinque studiose, donne di generazioni, formazioni e competenze diverse.
A guardar bene dentro il fitto sommario di questo numero, come in una grande piazza en plein air s’incontrano autori lontani per linguaggi, visioni e posture intellettuali, filosofi e letterati, linguisti e artisti, archeologi e antropologi. Scoprirete quanto siano importanti le api per la sopravvivenza delle comunità umane e non umane, quali sorprendenti tracce della civiltà mediterranea siano presenti in Irlanda, come le case possano diventare musei e i musei case, quali strategie adottare per governare la complessità nella tumultuosa età dei mutamenti, come riconoscere torsioni e deformazioni dell’ordinamento democratico, quali prospettive antropologiche prepari l’Intelligenza Artificiale. Lasciatevi poi affascinare dal racconto di petrarchesca memoria sui serpenti a tavola tra le posate e le portate, un giallo letterario che il raffinato filologo Paolo Cherchi ci aiuta a risolvere. O, se preferite, abbandonatevi alla lettura delle pagine di Pietro Vereni che ricostruisce la storia di un suo scritto censurato e qui riproposto: un’analisi critica – tra l’amaro, il grottesco e l’ironico – delle ottusità del potere mediatico, politico e accademico. Chi, infine, ama la poesia avrà modo di apprezzare il testo di Salvina Chetta accompagnato dalle sue fotografie, preziose come reliquie, raccolte nella sezione “Immagini”. Una elegia sui paesi, un atto d’amore per il paese, ove per le strade è ancora possibile «sentire con lo sguardo che qualcuno e più di uno, una fila di uomini e di donne ci ha preceduto: c’è qualcuno che ci trascende, non siamo i padroni della storia. È per questo metterci in comunione coi morti che ne dobbiamo avere cura».
Parole che sono in segreta e involontaria consonanza con quanto scrive in questo numero Pietro Clemente: «Sento che la dimensione del ciclo dell’anno invernale, della incubazione di esperienze e di pensieri di raccordo tra morti e viventi, abbia anche a che fare con il ‘riabitare l’Italia’. Avere storie di riferimento, memorie vive, è una risorsa per chi ripercorre all’inverso la strada dell’abbandono, per i singoli come per i musei, per le comunità che guardano al futuro. La poesia non crea sviluppo locale ma può essere anticipazione di mondi ancora invisibili. Nella mia storia intellettuale la poesia ha avuto questa funzione. E mi pare interessante connetterla con l’idea di tornare ad abitare i paesi abbandonati, non tanto come iniziativa che porta turisti, ma come mondo artistico capace di immaginare civiltà, sguardi inediti sulla vita quotidiana, sul senso stesso di essa».
Si chiude un anno sospeso tra le ansie e le paure delle guerre e il sonnambulismo degli italiani «ciechi davanti ai presagi», come ci ha descritti l’ultimo Rapporto del Censis. Un popolo che non fa abbastanza figli, i giovani che vanno via in una forma di «dissenso senza conflitto», la cittadinanza negata alle nuove generazioni degli immigrati, l’accoglienza e la convivenza in vari modi politicamente osteggiate, una classe dirigente quanto meno inadeguata, un Paese corrotto e in declino. Senza memoria di sé e con un futuro sempre più insostenibile. Nel varcare la soglia del nuovo anno non ci resta che unirci agli auguri espressi da Pietro Clemente: «Forse nel 2024, ottant’anni dopo l’anno che fu il cuore della Resistenza, dobbiamo ritornare a resistere, ad associarci per la pace, guardando il passato con occhi pieni di futuro. Cercando di superare l’orrore e il dolore del mondo e riaprendo il cuore alla speranza». Un augurio perché, nonostante tutto, “c’è ancora domani”. Più che un augurio, un appello per scongiurare che «i nostri nati torcano il viso da noi».
Buon Anno a tutti!