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EDITORIALE

Mazara, sciopero dei carrettieri, primi anni 60 (ph. Nino Giaramidaro)

Mazara, sciopero dei carrettieri, primi anni 60 (ph. Nino Giaramidaro)

Ci sono immagini, gesti, parole che riassumono e notificano icasticamente non solo lo spirito del tempo, il senso di ciò che sta accadendo, ma anche la folgorante premonizione di ciò che accadrà. Il tricolore rifiutato con sdegno da un ministro della Repubblica nell’aula del Parlamento che sta approvando in mezzo allo sventolare di vessilli regionali la legge dell’autonomia differenziata, con la volgare rissa tra i deputati che ne è scaturita, non è forse la plastica e più eclatante rappresentazione della disgregazione dell’unità nazionale in cui rischia di precipitare il nostro Paese? E il greve e sprezzante monosillabo “seee” pronunciato dalla presidente del consiglio per replicare a chi le ricordava la vergognosa condizione dei “poveri cristi” destinati ad essere rinchiusi nei centri per i rimpatri in Albania, non è la più schietta e perfetta esternazione del disprezzo umano e politico per gli immigrati di chi governa questo complesso e drammatico fenomeno? E l’abbraccio di quei tre giovani che si stringono in un solo corpo per resistere alla piena del fiume Natisone prima di essere drammaticamente travolti dalla corrente non è la fotografia più altamente simbolica dell’apocalittico destino a cui andiamo incontro se non assumiamo responsabilità e consapevolezza della minaccia climatica, se non “facciamo solidale comunità” a fronte di una sfida ambientale dall’altezza vertiginosa e dalla latitudine planetaria?

Immagini, gesti e parole che sembrano descrivere con pochi tratti uno schizzo del nostro inquieto presente, un lampo cupo del nostro inquietante futuro. Più recentemente la cronaca ha aggiunto in questo puzzle di segni e disegni un particolare anatomico sinistro: il braccio mozzato di un migrante depositato in una cassetta della frutta. Forse la sintesi più macabra e spregiudicata del livello di mercificazione e cosificazione dei corpi dei lavoratori, specie se stranieri. Del caso di Satnam Singh, bracciante indiano a Cisterna di Latina, lasciato morire dissanguato sul campo di lavoro, abbandonato insieme al suo arto troncato da un macchinario, scrive in questo numero Nicola Martellotto: «Quello dell’imprenditore non è stato un atto disumano, ma un gesto culturale che riflette determinati valori, e nel caso specifico è espressione lineare del sistema economico nel quale viviamo. In tal senso, anche la macchina che ha strappato il braccio di Satnam è una materializzazione drammatica di quelle dinamiche oppressive: essa ha letteralmente scorporato i mezzi di produzione del bracciante, l’essenza della sua forza-lavoro – le sue braccia, per l’appunto – dal resto del corpo, che l’imprenditore ha poi scartato come si scarta un ortaggio guasto, o come si scarta un lavoratore non più adatto a svolgere le sue mansioni».

Il ragionare per metafore, per quanto brutali, può aiutarci a rendere intelligibile il grado di violenza consustanziale a un certo modo di produzione, adottato non solo nel comparto agroalimentare, a un certo modello economico assimilabile ad un vero e proprio regime schiavistico nella misura in cui il bracciante, specie se clandestino e invisibile, è proprietà – nella carne e nell’anima – di chi dispone della terra e dei mezzi del lavoro. Un sistema di sfruttamento intensivo della manodopera senza diritti e sotto ricatto in un mercato delle braccia gestito dai caporali che un tempo si chiamavano campieri e soprastanti. Ne scrivevamo già su Dialoghi Mediterranei in un editoriale di nove anni fa (n. 15, settembre 2015), a proposito della morte di due braccianti, crollati al suolo sotto il sole di luglio, stremati dal caldo e dalla fatica, a pochi chilometri e a pochi giorni di distanza l’una dall’altro, nella campagna pugliese. Ricordiamo i loro nomi: Paola Clemente, madre di tre bambini, e il sudanese Abdullah Muhamed, pagati a cottimo a due euro a cassetta. Due storie e due vite diverse per genere e per nazionalità, segnate da un destino comune, vittime entrambi dello stesso racket. «Qui – scrivevamo – globalizzazione e paleocapitalismo convivono, postmodernità e arcaicità si sovrappongono. Quel lavoro materiale che fa piegare la schiena come secoli fa, riconducibile a quella economia primitiva che si regge sulla intermediazione parassitaria e mafiosa, sopravvive alle nuove tecnologie immateriali, penetra e si avviluppa come un rampicante negli interstizi di un sistema di collocamento che si avvale di agenzie interinali governate in rete». Un ossimoro che rende funzionali e compatibili il medioevo dei servi della gleba e la postmodernità dei tecnocrati delle filiere. Cronico è il metodo, applicato e diffuso nei settori più diversi: dall’edilizia alla zootecnia, dalla logistica al commercio dei generi di lusso confezionati in oscuri magazzini, pagati per pochi euro e venduti a migliaia di euro da note griffe di moda. Troppo lungo e dimenticato l’elenco degli “schiavi” del terzo millennio uccisi, nel nostro Paese in questi anni, dal lavoro nero, povero e pericoloso, troppe le reticenze e le complicità di quanti contrastano l’immigrazione in nome della legalità e della sicurezza mentre ammettono e legittimano l’illegalità e l’insicurezza delle tratte nei campi come nei cantieri. 

Inamovibile la legge Bossi-Fini, rimosso dall’agenda parlamentare e dal dibattito pubblico il tema dello jus culturae, esternalizzata la gestione dei flussi, ostacolata l’azione di soccorso delle Ong, indebolita la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, smantellata la rete capillare dell’accoglienza diffusa, la politica italiana consegna di fatto ai caporali quanti tra i migranti sopravvivono ai naufragi o si sottraggono ai respingimenti delle guardie costiere libiche e tunisine. Dialoghi Mediterranei non ha mancato di documentare e denunciare le storture e le aberrazioni delle sistematiche violazioni dei diritti negati da questi provvedimenti né ha cessato di promuovere ricerche su comunità straniere e riflessioni sulle dinamiche e sui processi di discriminazione o di inclusione sociale e culturale. Anche in questo numero le migrazioni attraversano numerosi scritti di autori (Aledda, Ambrosini, Bindi, Corrao, Fravega, Geraci, Gugg, Pendola, Perduca, Ainsworth-Pittau, Speziale, Venezia) che se ne occupano con accenti, aspetti, risvolti e punti di vista diversi. 

Come sempre il Mediterraneo è contesto, fulcro o sfondo, di moltissimi contributi: il mare di Brondino, di Consolo o di Braudel, del mito e della storia, di Apollonio Rodio delle Argonautiche e del profeta della pace, Giorgio La Pira, dei naviganti e dei pescatori di tonni, di Venezia e di Cipro, di Pozzuoli e dello Stretto di Messina. Il Mediterraneo cristiano e quello musulmano, delle diaspore e dei simboli del pensiero meridiano, il mare inquinato e surriscaldato e quello del turismo di massa. E poi il Mediterraneo delle isole come la Sardegna, scandagliata, in questo numero, attraverso le pagine riedite – quasi cinquant’anni dopo la prima pubblicazione – di Padre padrone di Gavino Ledda: un libro, pietra miliare della narrativa sarda del Novecento, che in quel frangente storico ha saputo intercettare – scrive Costantino Cossu – lo spirito del tempo, l’eco delle contestazioni delle nuove generazioni contro l’ordine patriarcale da abbattere, l’autoritarismo dei padri, una ribellione volta a «costruire una nuova civiltà, un mondo in cui ogni vincolo di servaggio sia cancellato». E infine il Mediterraneo della Tunisia, di cui qui si propongono letture tra storia, letteratura e cronache artistiche e culturali. 

Lo sguardo sempre attento sull’attualità non poteva non ricondurci ad un altro Mediterraneo, martoriato e lacerato, quello del Medio Oriente in Palestina. E sulla guerra a Gaza – genocidio o massacro – dibattono sei studiosi, tre antropologi, due filosofi e un semiologo, che ragionano sulle narrative del conflitto sovente dogmatiche, assertive o omissive, sui valori fondanti delle autentiche democrazie che non sono legittimate soltanto dalle elezioni, sulle debolezze del diritto internazionale inapplicato o manipolato dalle cancellerie degli Stati nazionali, sugli appelli degli intellettuali per la pace, sull’impegno politico dei saperi e delle istituzioni culturali, sulle crescenti manifestazioni di protesta degli studenti delle università in difesa dei palestinesi e contro gli accordi commerciali con gli atenei israeliani. Una rassegna di interventi su temi che intrecciandosi esprimono la pluralità di posizioni e prospettive diverse intorno a questioni annose e complesse, dense di implicazioni e aperte pertanto a differenti opzioni interpretative, pur nel comune orientamento degli autori a decostruire le rappresentazioni etnocentriche, ideologizzate o di tipo essenzialista. 

Con la contemporaneità dialogano in questo numero altri testi, sia che commentino il G7 o indaghino sui social media o sui nuovi usi linguistici connessi al genere, sia che critichino l’insensatezza del progetto del Ponte sullo Stretto. Un capitolo quest’ultimo ampiamente argomentato da autori dalle diverse competenze: l’antropologo, l’ecologo marino, la naturalista, lo storico, l’economista, la scrittrice. Anche in questo caso, le voci molteplici coniugano competenze e visuali differenti e concorrono a delineare – scrive Sergio Todesco, che ha coordinato i contributi – «una sorta di mappa intellettuale e sentimentale rivolta a comunità da sempre assuefatte a venir fuori, in qualche modo, dai disastri naturali (terremoti) e umani (guerre, politici locali) guardando in avanti verso quello straordinario orizzonte, il mare dello Stretto, che alcuni ilari governanti vorrebbero deturpare per sempre con un progetto irresponsabile». Una denuncia che Dialoghi Mediterranei considera tanto più urgente e necessaria quanto più si tende a criminalizzare il dissenso con nuovi “decreti sicurezza”, attualmente in discussione in Parlamento. 

Nella difficile china della contingenza politica, abbiamo deciso anche noi di ricordare Giacomo Matteotti, nel centenario della morte, con alcuni scritti che da libri recentemente pubblicati traggono spunto per tracciare il profilo del politico e dell’uomo di pensiero e di azione, per ricordarne ai giovani la limpidezza della lezione di vita, per indicarne senza l’enfasi della retorica celebrativa l’esempio morale e civile. Perché la memoria serve non a compiangere o rimpiangere il passato ma a leggere e intelligere il presente, «perché – osserva Giuseppe Sorce – cento anni fa e l’oggi presentano assonanze e divergenze, peculiarità e similitudini da rintracciare, evidenziare, sondare, e con inquietudine e apprensione scoprire». 

Pietro Clemente ne “Il centro in periferia” ricorda Giovanna Marini, scomparsa il l8 maggio scorso: «Pensare a lei è come ripassare la vita perché la Marini è stata la colonna sonora della mia giovinezza militante e una buona compagnia anche per il resto del mio tempo. Ed è stata rappresentativa di momenti significativi e importanti della storia culturale italiana». Ignazio Macchiarella ne ricostruisce la figura poliedrica che lascia una complessa eredità musicale e umana, la ricchezza di un patrimonio di fonti documentarie, una preziosa scuola di allievi formati nella coinvolgente dinamica dei «rapporti interpersonali che era la qualità del suo fare e vivere la musica». Si parla soprattutto di musei in questo numero del CIP, un ampio panorama di esperienze e di storie che vengono anche dal Marocco e che denotano «una certa loro interna effervescenza, passione, vitalità», annota Clemente. 

Dentro lo spazio dedicato a “Sguardi sul cinema” coordinato da Flavia Schiavo c’è questa volta la lettura collettiva di “Segnali di vita”, un docufilm di ispirazione antropologica di un giovane regista palermitano, Leandro Picarella, che scopriamo alla fine essere stato allievo della Scuola sperimentale diretta per alcuni anni da Antonino Buttitta. Avendo accolto l’invito a scrivere e a dialogare con gli autori dei testi che hanno visto la pellicola e l’hanno commentata, abbiamo sperimentato una originale formula di dibattito costruito in rete sul contatto tra regista e spettatori, che speriamo possa replicarsi anche in futuro. Attorno alle questioni etnografiche dello sguardo, dello spazio abitato da una piccola comunità montana, del confronto tra scienza e immaginario popolare, tra il linguaggio della ricerca empirica e quello della vita quotidiana, tra sapere e potere, tra i luoghi e le storie, si sono articolati discorsi e riflessioni di grande interesse, grazie anche alle spiegazioni del regista che nel suo contributo ha chiarito contesto, motivazioni, genesi e realizzazione del film. 

Il Sommario è ancora una volta gremito di saggi, di ricerche, di interviste, di recensioni, di immagini. C’è pure, tra i tanti autori, Luciana Castellina che commenta una mostra fotografica con soggetti di donne extraeuropee. Un testo in cui ricorda le stagioni del femminismo, le conquiste e le sconfitte, ragiona sull’oggi, sulla maternità, sull’identità al di là del genere, perché «scoprire chi siamo davvero è il primo compito di ogni donna». Tra i vari titoli di questo ricco fascicolo s’incontrano Dante e Pirandello, le immagini paleolitiche e le teste di moro siciliane, la fontana magica della Sardegna e l’aratro sotto il letto matrimoniale del Friuli, l’ḫarğa arabo-andalusa e la poesia di Khalil Jubrān, noto scrittore e pittore libanese, i versi di Lia Tosi e quelli di Guido Oldani, lo splendido pavimento musivo della cattedrale di Otranto e l’architettura neoclassica della villa Ajroldi di Palermo. Temi, tempi e luoghi lontani che, nella dimensione olistica di un’antropologia che ama connessioni e sconfinamenti, convivono e dialogano come in una grande piazza en plein air.

In questo numero infine ricordiamo un caro amico scomparso poco più di un mese fa. Nino Giaramidaro è stato un affettuoso e generoso compagno di strada, un assiduo collaboratore di questa rivista fin dal 2014, un amico della comune giovinezza mazarese, avendo condiviso lunghe notti d’estate consumate in animate conversazioni nella piazza e nel bar principale della città, scuola di apprendistato generazionale e di formazione politica. Un interlocutore di poche parole, sussurrate spesso, pensate e penetranti, dalle battute ironiche ed eleganti. Uno scrittore narratore, che conosceva le diverse sfumature dell’affabulazione, innamorato delle mille risorse della lingua: dal corsivo all’elzeviro, dal memoir al bozzetto, al racconto.

Nei suoi interventi su Dialoghi Mediterranei (più di cinquanta) ha scritto molto sulla città in cui è nato, come a voler ricongiungersi con il suo passato familiare, con quel mondo di affetti e di amicizie che aveva lasciato definitivamente quasi trentenne per andare a Palermo a lavorare come giornalista. “Per una topografia della memoria”, “Mazara forever”, “Naufragi e misteri sulle rotte dei pescatori”, “Storie e avventure di navi e marinai siciliani”, “Con Virgilio Titone e Jorge Luis Borges per le strade di Mazara”, “Uscita di insicurezza”, “Zapping tra i pensieri”, “Upupa, sommacco e altre memorie”, “La piccola ferrovia che passava tra i templi”: questi alcuni dei titoli dei suoi articoli, che hanno nella memoria una costante e poetica chiave semantica ed espressiva, una persistente inclinazione a migrare dal presente al passato e viceversa in un gioco mutevole di accenti e contrappunti, di calembour e proustiane epifanie. Una scrittura colta e raffinata di un intellettuale acuto, sensibile, arguto, di un siciliano che amava distillare le parole come le immagini. Ha saputo raccontare storie della Sicilia e dei Siciliani intrecciate e confuse con le storie della sua stessa vita, con le esperienze vissute, ripensate o immaginate. Su Dialoghi Mediterranei ha forse trovato quella libertà di vocazione letteraria che i tempi convulsi del lavoro di capocronista nelle redazioni di rado gli avevano consentito. I suoi scritti hanno spesso ispirato questi stessi editoriali che trovavano in una sua frase o in una sua felice definizione l’incipit o lo spunto per avviare o sviluppare un pensiero, un ragionamento.

Nelle nostre telefonate che ci scambiavamo prima e dopo la pubblicazione di ogni numero le sue parole erano sempre accompagnate da risate di complicità, di intesa e di conforto. Ha contribuito in modo determinante a sostenere, coltivare e incrementare lo spazio nella rivista dedicato alla fotografia d’autore, invitando colleghi a collaborare, incoraggiando i giovani a partecipare. Era uno dei pochi fotografi che conosceva e praticava con sapienza l’arte della scrittura, e la sua scrittura aveva una relazione consustanziale con la costruzione dei fotogrammi, usando mettere in creativo dialogo parole e immagini, memoria e immaginario.

Nino scriveva come fotografava, per immagini. E fotografava come scriveva, per flashback. Un cronista e un fotografo “da marciapiede”. La sua fotografia aveva il nitore e il rigore del suo sguardo, attento a scandagliare e ritagliare il mondo degli uomini che si muovevano davanti alla sua reflex. La fotografia ha sempre a che fare con la giusta distanza fisica ed emotiva e di questo mestiere quando non è tecnica ma arte Nino aveva appreso segreti, sortilegi e suggestioni, reinterpretati e tradotti nella grazia e nella gentilezza che erano tratti distintivi del suo modo di essere e di stare nel mondo. Lo sottolineano un po’ tutti i colleghi e gli amici che in queste pagine lo ricordano e ne testimoniano la statura del cronista, la bravura del fotografo, la signorilità dell’uomo che non amava i compromessi ma nemmeno le asprezze dei contrasti nei rapporti con gli altri avendo sempre conservato una postura mite, disincantata e scettica su come vanno le cose del mondo.

Lo salutiamo con una sua fotografia, posta in apertura a questo editoriale, scelta tra le tante che ha pubblicato su questa rivista. È tratta dal n. 19 del maggio 2016 e accompagna un articolo intitolato “L’avvenire del passato”. Ne riportiamo un breve stralcio che è quasi una didascalia dell’immagine: «Carretti e barili, sinonimi di passato. Scomparsi. Bisogna cercarli nella memoria sfruttando anche le labili tracce di avvenimenti anche di importanza marginale, di eventi che furono memorabili. Mazara del Vallo primi anni ’60. Nello slargo del “portello”, davanti alla dogana, si radunarono i carrettieri, tolsero sottopancia e capezzone a muli asini e cavalli per mettere le aste dei carretti in su: tutte quelle aste, sembravano braccia levate per dare forza al malcontento di quegli uomini solitari, accompagnati nel loro quotidiano andare dal ritmo delle ruote (lu scusciu di lu carrettu), qualche colpo di “zotta” e da canzoni d’amore, di speranza, di rassegnazione: La pampina di l’alivu, ‘U sciccareddu, E vui durmiti ancora…  Non ricordo che cosa rivendicasse quell’imponente e mai più vista protesta. Ma nella foto c’è il trenino tirato dalla “paparella”, piccola motrice che caricava per lunghi percorsi lo zibibbo di Pantelleria, le cassette di pesce ricoperte di ghiaccio, i barili di sarde salate. Gli itinerari dei carretti si accorciavano sempre di più in attesa di camion, camioncini e treruote».

A guardar bene, questo testo non è forse letteratura e la fotografia non si conferma veicolo privilegiato della funzione rammemorativa, scheggia materiale della memoria, frammento riepilogativo della brulicante trama della vita? Nino amava la scrittura e la fotografia perché amava coltivare la memoria. Ha annotato da qualche parte che «si vive nel passato e del passato». Per questo siamo convinti che continuerà a vivere nella nostra memoria che – come ha scritto Antonino Buttitta – «nella dialettica tra divenire ed essere è l’orizzonte di senso che sconfigge la morte e salva le parole e gli atti di ciascuno di noi dal consumo definitivo e eterno, facendone una perenne sfida al tempo nel passaggio da una generazione all’altra». 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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